(M.B.)
Gli ERRORI DEL GIOVANE MARX
Paolo Di Remigio
Et
nous savons que cette erreur procède d'un déni de réalité et
infecte l'esprit de bien des gens.
Jacques
Sapir
UN
COMMENTO A Marx, Sulla questione ebraica
È
noto che la sinistra non ha letto Marx, meno noto che se lo avesse
fatto non sarebbe molto diversa da come è: determinata dal rifiuto
di conoscere e di affermare la verità presente, posseduta dalla
volontà di realizzare un sogno, dall’aspirazione a una realtà
diversa. In questo non differisce da Marx; che già Marx viva il
presente come una gabbia e la verità come una prospettiva futura, è
infatti evidente fin dall’articolo giovanile “Sulla questione
ebraica”. Suo tema centrale è l’insufficienza
dell’emancipazione politica effettivamente realizzata dallo
stato costituzionale, rispetto al dover-essere, che il giovane Marx
chiama emancipazione umana.
Lo
stato moderno che opera secondo leggi generali e razionali non
è ancora, per Marx, l’emancipazione umana, perché esso è
travagliato da un’intima contraddizione: è generale in quanto è
determinato da leggi generali che esprimono la volontà generale; ma
questa sua generalità non determina la vita sociale particolare che
esso comprende, cioè il mondo dei proprietari dal comportamento
egoistico e particolare, che Marx, facendo sua la terminologia
hegeliana, chiama “società civile”; anzi, lo stato si rapporta
alla società civile come al suo opposto. Così tra il generale dello
stato moderno e il particolare della sua società civile non c’è,
come sarebbe ovvio aspettarsi, un rapporto di sussunzione;
Marx, infatti, estremizza la loro differenza fino a considerarla
contrasto irriducibile: lo stato sarebbe espressione della
volontà comune dei cittadini, sarebbe l’insieme dei cittadini come
comunità solidale, ma questa comunità è soltanto illusoria, in
quanto i cittadini sono anche borghesi, membri della società
civile, dunque scissi in contrasti che lo stato, cioè la loro
volontà comune, è impotente a conciliare.
In quanto la riduce a contrasto irriducibile, Marx concepisce di fatto la società civile come stato di natura: la considera come se essa non fosse regolata dalle leggi, e fa della proprietà privata, cioè del riconoscimento statale del possesso, innanzitutto della propria corporeità, un torto. Questa identificazione della società civile con lo stato di natura, è un grave equivoco. Marx vi incorre insieme ai liberali. Mentre però i liberali identificano stato natura e società civile in modo da civilizzare lo stato di natura, riflettono cioè sullo stato di natura l’ordine proprio della società civile, Marx li identifica con l’intento opposto di riflettere sulla società civile l’orrore proprio dello stato di natura.
Lo stato di natura è l’animalità dell’uomo, ciò che Freud individua nel fondo di ogni individuo come pulsioni inconsce, ciò che storicamente si presenta come sterminio, politicamente come tirannia e socialmente come schiavitù. A differenza dalla natura animale, che è regolata dalla razionalità esterna dell’istinto, l’animalità dell’uomo ne è svincolata, allo stesso modo per cui la sua razionalità è libera: solo l’uomo è crudele, solo l’uomo infligge dolore anche senza interesse, perfino contro l’istinto di autoconservazione; solo l’uomo è capace di ogni crudeltà, non solo di quelle che presuppongono forza, destrezza, coraggio, addirittura buone intenzioni – e che formano il monotono materiale degli spettacoli da cui è attratta la sensibilità maschile –, ma anche di quelle esercitate sull’inerme per sentire la propria potenza.
La volontà libera dell’uomo spezza lo stato di natura, perché il bellum omnium contra omnes si risolve nell’infinita precarietà di una vita sempre esposta alla violenza casuale: l’interesse primo, più profondo, ma non più evidente, dell’uomo è quello di evitare l’orrore dello stato di natura. Lo evita riconoscendo l’altro, cioè volendo la sua volontà, volendo fargli soltanto ciò che l’altro vuole gli sia fatto e ottenendo che l’altro gli faccia soltanto ciò che egli vuole gli sia fatto, in una parola: rinunciando alla volontà del proprio bene esclusivo e adottando come propria volontà la volontà del bene comune. Questa volontà del bene comune, la volontà generale, è il fondamento della legge umana, del diritto.
L’organizzazione che realizza il diritto è lo stato. Mentre lo stato di natura è l’ambito della precarietà radicale provocata dal presupporre l’ostilità irriducibile dell’altro, lo stato è l’ambito della sicurezza, in cui si ha fiducia di non essere danneggiati volontariamente dall’altro e di poterne anzi essere aiutati. Il superamento della precarietà naturale nella fiducia collettiva è la base dello stato. Poiché sorge non da un ipotetico desiderio naturale di socialità, ma dal rifiuto volontario dello stato di natura, dall’orrore dell’orrore, essere membri dello stato non è un atto di sacrificio gratuito, ma è un interesse, il primo interesse, degli individui. L’essenza dello stato è la realtà della legge universale, per cui è superata la casualità della violenza, è dissolta l’angoscia che ne deriva, si instaura il sentimento della sicurezza, è posta la base di quella realizzazione di sé attraverso l’altro che si chiama libertà.
È
stato per primo Hobbes a fare del rifiuto dello stato di natura il
fondamento della teoria politica. Benché abbia compreso che lo stato
è la risposta dell’uomo alla minaccia della propria naturalità,
Hobbes, in quanto ideologo della monarchia feudale, ha però ignorato
che lo stato può avere questa funzione solo in quanto il sovrano
realizza non una volontà particolare, ma la volontà generale, la
legge, solo in quanto è stato costituzionale; infatti la volontà
particolare è appunto la volontà tirannica che genera l’orrore
dello stato di natura. Teorie politiche che non riconoscano nelle
leggi universali dello stato la soppressione dello stato di natura,
le rappresentazioni volutamente o involontariamente edulcorate dello
stato di natura stesso, hanno come esito teorico
l’incomprensione dell’essenza dello stato e come conseguenza
pratica l’attuazione dello stato di natura. Così
l’anarchismo, che addirittura immagina buono l’individuo
naturale, rifiuta lo stato e si manifesta praticamente come violenza
impotente contro l’ordine sociale. Così il liberalismo, che con
Locke immagina uno stato di natura in cui i diritti sono già
presenti, si mostra infine come attuazione della precarietà sociale
per garantire la sicurezza dell’investimento. Così il comunismo,
che con Marx identifica lo stato di natura con l’individualismo
della società civile, si è mostrato come annullamento
dell’individuo nel terrore poliziesco per garantire la tirannia del
partito.
Per
trattare lo stato, in “Zur Judenfrage”, Marx muove dal
problema dell’emancipazione. La stessa scelta del termine
mostra che l’essenza dello stato è ricercata senza la necessaria
radicalità. “Emancipazione”, infatti, significa la rinuncia
volontaria alla patria potestas sul figlio. Per sondare
l’essenza dello stato, occorreva invece parlare di manumissio,
cioè dell’affrancazione dello schiavo; infatti la
schiavitù, il rapporto per cui l’uomo tratta l’altro uomo come
una cosa di cui può fare ciò che vuole (l’imperatore Domiziano
punì con una multa i padroni che castravano i loro schiavi),
è lo stato di natura nella sua forma sociale. Lo stato antico la
consentiva: esso era impigliato nella contraddizione di considerare
la libertà non come riconoscimento tra autocoscienze, ma come un
privilegio particolare, legato alle circostanze; quindi si
arrendeva alla contraddizione che alcuni uomini non siano uomini.
Realizzando la promessa del cristianesimo per cui tutti gli
uomini sono figli di Dio, lo stato moderno la riconosce come
contraddizione, cioè la considera delitto, e così rende la libertà
di ogni individuo un fatto banale. Invece Marx, parlando
semplicemente di emancipazione, trascura il carattere
qualitativo dell’asimmetria tra padrone e schiavo, ignora la
dignità etica dello stato moderno che la impedisce, anzi la degrada
rendendo salienti i rapporti asimmetrici in senso quantitativo,
quelli per cui un uomo ha di più, l’altro uomo ha di
meno. Anche la sua critica del capitalismo, per quanto
magistrale, si basa sulla nozione di plusvalore sottratto ai
lavoratori, resta cioè al livello quantitativo. Ma che qualcuno
abbia di più e qualcun altro abbia di meno non costituisce di per
sé un problema etico, non minaccia cioè la loro libertà. La
variabilità quantitativa della proprietà ha due limiti qualitativi:
il massimo della precarizzazione delle masse, il minimo della
vanificazione del merito. Entrambi questi limiti costituiscono
una minaccia della libertà; essa vive nel loro intervallo. Né da
questa nozione quantitativa dell’asimmetria può derivare la
concezione che Marx ne fa derivare, quella del proletariato come
classe senza diritti, per la quale la fine del capitalismo
rappresenterebbe dunque la fine soltanto delle sue catene.
Infatti l’asimmetria quantitativa nel rapporto tra persone non
implica di per sé il venir meno di ogni loro diritto, dunque non
comporta quella loro estraneazione totale che Marx considera
condizione della lotta che supera per sempre le classi sociali e lo
stato.La concezione quantitativa del rapporto alienante induce Marx a trascurare che l’asimmetria ha innanzitutto un carattere qualitativo: nel rapporto schiavistico un uomo è uomo, l’altro uomo non è meno-uomo, è non-uomo, instrumentum vocale, che ha linguaggio umano, che nondimeno è una semplice cosa. Poiché Marx considera l’asimmetria quantitativa identica all’asimmetria qualitativa, il proletario moderno gli appare identico allo schiavo. Questo errore ha due conseguenze, da una parte che la società civile, l’ambito dei rapporti di classe, diventa stato di natura, cioè Marx degrada la nozione di società civile; dall’altra che lo stato moderno, caratterizzato dall’universalità delle sue leggi, e la sua tendenza a garantire i diritti a tutti, gli appaiono una finzione; cioè Marx non riesce a concepire il significato dello stato. In altri termini, poiché senza nessuna ragione razionale, ma solo in base a impulsi viscerali, ha ridotto la società civile moderna a stato di natura, come se fosse fatta di padroni e schiavi, la legalità dello stato moderno gli appare non una barriera alla schiavitù, cioè allo stato di natura, ma una sfera di uguaglianza esornativa, illusoria. Commette così un duplice errore: non capisce che la società civile non è estranea all’eticità, ma è la forma estraniata dell’eticità, ossia è la sfera in cui l’individuo egoista è sociale contro le sue stesse intenzioni, e non capisce che lo stato è l’interesse comune (res publica) degli individui anche nella loro particolarità.
Contro il giovane Marx ha dunque ragione Bauer, che si attiene fedelmente alla teoria hegeliana dello stato e pone il problema dell’emancipazione in riferimento non allo stato moderno, ma solo allo stato feudale (lo stato cristiano), cioè allo stato fondato non sulle leggi, ma sulla volontà privata, quindi particolare, del sovrano. Per Bauer l’emancipazione del suddito in cittadino e dello stato feudale in stato moderno si verifica quindi con la laicità dello stato:
«Ogni
privilegio religioso in generale, dunque anche il monopolio di una
chiesa privilegiata, dovrebbe essere soppresso, e se qualcuno o
parecchi o addirittura la stragrande maggioranza credesse di dover
adempiere ancora dei doveri religiosi, questo adempimento dovrebbe
essere consentito loro come una faccenda privata».
A
Marx non basta l’emancipazione assicurata dallo stato laico, che
garantendo la tolleranza tra le religioni si garantisce la
superiorità rispetto al dogma e dunque il terreno della razionalità:
occorre ben altra emancipazione, un’emancipazione futura di cui
scorge il movimento nella realtà attuale.
«La
critica … doveva chiedere: di che specie di emancipazione si
tratta? … Soltanto la critica dell’emancipazione politica stessa
era la critica definitiva della questione ebraica e la sua vera
soluzione nella «questione generale dell’epoca».
Seguendo
Feuerbach, ma anche la propria intolleranza, Marx concepisce la
religione sempre e solo come difetto; finché si è religiosi si è
schiavi. Quindi non è possibile che ci sia vera libertà, vera
emancipazione in uno stato, quantunque laico, se i suoi membri sono
ancora devoti, quantunque privatamente, a qualche religione. Poiché
il superamento della religione non è nell’agenda
dell’emancipazione politica e non avviene nello stato laico,
qualunque esso sia, allora l’emancipazione politica è
un’emancipazione solo parziale:
«Se
perfino nella terra della perfetta emancipazione politica troviamo
non solo l’esistenza, ma l’esistenza vivace, rigogliosa della
religione, allora è provato che il sussistere della religione non
contraddice la compiutezza dello stato. Poiché però il sussistere
della religione è il sussistere di una manchevolezza, la sorgente di
questa manchevolezza si può cercare soltanto nell’essenza dello
stato».
Inoltre,
oltrepassando Feuerbach, Marx ritiene che la religione non sia
l’alienazione originaria, ma un derivato della manchevolezza
materiale, un fenomeno dell’alienazione reale degli
individui. Conservando al suo interno questo fenomeno, lo stato laico
denuncia di non aver raggiunto la compiuta libertà, ma di essere
esso stesso contraddittorio, dunque non altro che una forma più
raffinata di schiavitù umana. Insomma l’emancipazione politica è
insufficiente, perché lo stato laico, anziché vanificare la
religione, la conserva:
«Il
limite dell’emancipazione politica appare subito nel fatto che lo
stato può liberarsi da una gabbia senza che l’uomo ne sia
effettivamente libero, che lo stato può essere uno stato libero,
senza che l’uomo sia un uomo libero».
Anche
a voler concedere che la religione sia soltanto manchevolezza, resta
il fatto che Marx non vuole ammettere ciò che il suo disprezzo tante
volte gli suggerirebbe: che l’individuo è in ogni caso
manchevole, che, per esempio, senza le elevate capacità logiche
necessarie a comprendere la scienza della realtà, deve ripiegare su
una visione rappresentativa. Poiché a chi è incapace di scienza la
stessa scienza appare una rappresentazione, la smania di sostituire
la conoscenza scientifica alle rappresentazioni della religione,
oltre a costituire una sinistra premessa del barbarico ateismo di
stato, non porterebbe in nessun modo alla scomparsa della
manchevolezza.
Per
Marx lo stato laico è indice di un’insufficiente emancipazione
dell’uomo: se come cittadino dello stato laico è emancipato dalla
religione e come individuo entro la società civile ne è ancora
irretito, l’uomo deve ancora emanciparsi. La sua emancipazione si
configura come contemporanea soppressione dello stato e della società
civile, da cui si genera un individuo non più articolato in pubblico
e in privato e con il compito di conciliare la volontà generale con
la volontà particolare, ma un individuo il cui egoismo è generoso e
la cui generosità è egoista, che come l’anima bella, o
l’ultimo uomo spenceriano, ha la bontà naturale,
l’innocenza del buon selvaggio. Con questo il giovane Marx rifiuta
la sintesi reale tra stato e società civile, ossia il fatto
che questa sia non solo particolare ma anche universale in quanto è
regolata da leggi, e quello sia non solo universale ma anche
particolare in quanto stato relativo a un popolo storico,
quindi soltanto momento dello spirito universale, e regredisce a una
rappresentazione elementare in cui gli opposti sono astrattamente
identici. Come si realizzi il sogno di questo individuo che nella sua
particolarità è immediatamente universale, è la storia successiva
a rivelarlo: è l’incubo del capo carismatico in cui si incarna
magicamente la volontà generale delle masse. La storia del comunismo
ne pullula.
«Ma
il rapporto … dello stato libero con la religione è soltanto il
rapporto degli uomini che formano lo stato con la religione … Ne
segue … che l’uomo, perfino quando per la mediazione dello stato
si proclama ateo, cioè quando proclama ateo lo stato, resta pur
sempre irretito nella religione, proprio perché riconosce se stesso
solo per una via indiretta, solo tramite un medio … Come Cristo è
il mediatore a cui l’uomo accolla tutta la sua divinità, tutto il
suo pregiudizio religioso, così lo stato è il mediatore in cui egli
sposta tutto il suo ateismo, tutta la sua spregiudicatezza umana».
Lo
stato, scrive Marx, è un’alienazione analoga a quella della
religione: come l’uomo attraverso Cristo si carica del pregiudizio
religioso, così attraverso lo stato acquisisce spregiudicatezza
umana. Qui Marx non si avvede che nel primo sillogismo si verifica
un’alienazione non perché ci sia un medio, ma per il contenuto
dell’estremo, cioè per il pregiudizio religioso a cui l’uomo è
connesso; poiché nel secondo sillogismo il medio dello stato lega
l’uomo alla sua spregiudicatezza, con il primo esso ha in comune
soltanto di essere un sillogismo, non di essere una forma
analoga di alienazione. In effetti questo sillogismo significa
soltanto che in quanto fa parte di uno stato laico, ogni cittadino,
pur essendo devoto a una religione particolare, si obbliga ad essere
tollerante nei confronti delle altre religioni. E non si capisce
perché mai la tolleranza reciproca debba essere una forma di
alienazione rispetto all’ateismo universale, dal momento che
l’ateismo universale non rende affatto superflua la tolleranza; la
realtà presenta infatti anche diversità irriducibile, e la virtù
dell’accettazione della diversità è la tolleranza. Marx si lega
qui al principio d’identità, e così resta indietro rispetto al
concetto con cui Hegel ha concepito lo stato: non generalità,
in cui i differenti sono trattati come identici, ma singolarità,
in cui i differenti, nel restare differenti, superano la loro
incompatibilità e armonizzano. Che la legge generale si coniughi con
il rigoglio della particolarità, è quindi il privilegio dello stato
moderno, è quindi la sua verità in senso enfatico. Per Marx è
invece il suo difetto:
«L’elevazione
politica dell’uomo sulla religione condivide ogni difetto e ogni
vantaggio dell’elevazione politica in genere. Lo stato come stato
annulla, per esempio, la proprietà privata, l’uomo dichiara
soppressa in modo politico la proprietà privata appena sopprime il
censo per l’elezione attiva e passiva, come è accaduto in molti
stati nord-americani … Eppure con l’annullamento politico della
proprietà privata la proprietà privata non solo non è soppressa,
ma è addirittura presupposta.
E
così per le altre differenze:
«Ben
lungi dal sopprimere queste differenze fattuali, lo stato esiste solo
con il loro presupposto, si percepisce come stato politico e fa
valere la sua universalità solo nel contrasto con questi suoi
elementi».
È
evidente come Marx lotti contro le sue intenzioni già
nell’esprimerle: dice che lo stato fa valere la sua
universalità solo nel contrasto con questi suoi elementi,
dice cioè che lo stato riporta all’universalità elementi in
contrasto – e questo è il concetto speculativo dello stato;
poi però riflette solo sul contrasto e trascura il valere;
così lo stato torna ad apparirgli come unità illusoria rispetto
alla diversità inconciliata della società civile. In realtà la sua
stessa frase significa che l’universalità (la legalità) dello
stato è valida anche quando entri in contrasto con la società
civile, che essa è non una forma illusoria come Marx vorrebbe
credere, ma una forza determinante la società civile; lo rivela
proprio l’esempio della proprietà privata: questa differisce dal
semplice possesso perché questo è un fatto, quella un diritto, cioè
una determinazione che, anziché essere in contrasto con l’esistenza
dello stato, ne è essenzialmente il riflesso.
La
contraddizione di Marx è palese anche in queste due frasi:
«Solo
così, oltre gli elementi particolari, si costituisce lo stato come
universalità».
«Lo
stato politico compiuto è, per sua essenza, la vita universale
dell’uomo in contrasto alla sua vita materiale».
Nella
prima il rapporto tra lo stato e gli elementi particolari, indicato
da oltre, sembra essere di subordinazione; nella
seconda la subordinazione diventa un contrasto. Che ci sia
subordinazione è evidente: lo stato ha, per esempio, poteri fiscali,
monetari, valutari e questi poteri possono anche avere una funzione
redistributiva della ricchezza privata, quindi creano l’universalità
entro la stessa proprietà privata. Che la subordinazione possa
essere considerata un contrasto, esigerebbe dunque un’accurata
spiegazione, non dovrebbe ridursi a uno slittamento inavvertito. Già
Hegel ha infatti sottolineato che mentre nell’ambito del diritto
astratto della personalità e della proprietà al mio diritto
corrisponde il dovere altrui e viceversa, cioè che l’unità
di diritto e dovere si distribuisce su due persone; che mentre nella
moralità al mio dovere dovrebbe corrispondere il mio diritto
(la virtù, per Kant, non è garanzia immediata della felicità);
l’eticità è il congiungersi di diritto e dovere, dell’intreccio
tra il mio interesse particolare e l’interesse generale, di egoismo
e altruismo. Poiché è una sfera etica, la società civile non è
puro egoismo, come ritiene Marx: l’individuo vi ha l’onore di
provvedere a se stesso provvedendo agli altri, è immediatamente
egoista e mediatamente altruista; poiché lo stato è ugualmente una
sfera etica, non vi è solo altruismo e dovere, ma vi sono entrambi:
altruismo ed egoismo, dovere e diritto, in un rapporto inverso a
quello della società civile: l’individuo che obbedisce alle leggi
è immediatamente altruista; ma la validità delle leggi è
condizione della sua volontà particolare; quindi nel realizzare la
volontà generale l’individuo realizza mediatamente la sua volontà
particolare. Ne risulta che la concezione di una duplicità radicale
tra stato e società civile è insostenibile. Marx la esprime così:
«Dove
lo stato politico ha raggiunto la sua vera formazione, l’uomo, non
solo nel pensiero, nella coscienza, ma nella realtà, nella vita,
conduce una vita doppia, celeste e terrena, la vita nella comunità
politica in cui si sente come comunità, e la vita nella società
civile in cui è attivo come uomo privato, considera gli altri uomini
come mezzi, degrada se stesso a mezzo e diventa burattino di forze
estranee».
Qui
Marx non si accorge che, se nel considerare l’altro uomo
come mezzo l’uomo si degrada a mezzo, la degradazione è soppressa
e la simmetria che rende possibile il riconoscimento e la libertà è
ripristinata. È ciò che avviene in ogni scambio di prestazioni: se
mia moglie cucina, diventa mezzo per il mio pranzo; se lavo i piatti,
divento mezzo per il suo riposo; ma così non siamo degradati,
semplicemente collaboriamo. Questa collaborazione è il punto in cui
la società civile cessa di essere il dispiegamento dell’egoismo e
da sola muta nello spirito comunitario proprio dello stato. In questo
modo, come vuole Hegel, la società civile è il proprio mutare nella
comunità politica. Marx è invece così innamorato dello schema
feuerbachiano da non accorgersi della sua inapplicabilità:
«Lo
stato politico si rapporta alla società civile nello stesso modo
spiritualistico in cui il cielo si rapporto alla terra. Vi sta nello
stesso contrasto, la supera nello stesso modo in cui la religione
supera la limitatezza del mondo profano, cioè col doverla
riconoscere, riprodurre, lasciarsene dominare».
Ciò
può senz’altro accadere: lo stato può essere un cattivo
stato, può non far valere l’universalità della legge. Ma il
problema è che per Marx lo stato cattivo non è un’evenienza: è
la natura stessa dello stato di non poter far valere le leggi, perché
non domina la società civile, ma vi è in conflitto. L’enormità
di queste esagerazioni spinge infine Marx a qualche attenuazione.
«L’emancipazione
politica è certamente un grande progresso; ma non è la forma ultima
dell’emancipazione umana in generale, è invece la forma ultima
dell’emancipazione umana all’interno dell’ordine del mondo
finora vigente. Si capisce: qui parliamo di emancipazione effettiva,
pratica».
La
“forma ultima” di cui Marx favoleggia è un evidente residuo
teologico: la storia non ne conosce; così la precisazione finale
serve ad allontanare il sospetto che questa “emancipazione umana in
generale” sia l’attendismo del messianismo religioso. Ma che essa
assuma la forma del messianismo ateo non è un guadagno. È
infatti la confusione teorica per cui la subordinazione
diventa contrasto a spingere Marx verso la soluzione pratica:
il mancato riconoscimento della natura dello stato moderno diviene
intolleranza nei confronti del moderno e velleitarismo
rivoluzionario.
Secondo
Marx, lo stato è in grado di sopprimere il conflitto con la società
civile solo nelle fasi rivoluzionarie, nelle quali in verità, più
che il contrasto, è la stessa società civile a essere soppressa dal
fanatismo della rivoluzione permanente. Il tema della
rivoluzione permette a Marx di passare alla trattazione dei diritti
dell’uomo. Egli li riconosce come esigenze della società civile e
per questo motivo li squalifica. Ma, di nuovo, si impiglia nelle
solite inconseguenze.
«Nessuno
dei cosiddetti diritti umani supera … l’uomo egoista, l’uomo
come membro della società civile, come individuo ritratto su di sé,
sul suo interesse e arbitrio privato, e separato dalla comunità. In
essi l’uomo non è stato concepito come essere universale, anzi la
vita universale stessa, la società, appare come una cornice esterna
agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria.
L’unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il
bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro
proprietà e della loro persona egoista».
Con
ciò Marx riconosce che la società borghese non è la guerra di
tutti contro tutti, non è lo stato di natura, ma ha un suo legame.
Se però ha un legame, essa non è in contrasto con lo stato; dunque
non c’è nessun contrasto che debba essere sanato messianicamente.
In altri termini, da questa corretta (e ispirata a Hegel) concezione
della società civile come mondo dell’egoismo armonizzato
esternamente a quella come stato di natura, come bellum omnium
contra omnes, c’è un profondo baratro; ma l’intenzione di
identificare lo stato alla religione costringe Marx a ignorarlo. Così
si trova in grave imbarazzo subito dopo:
«È
già enigmatico che un popolo che sta iniziando a liberarsi …
proclami solennemente il diritto dell’uomo … egoistico … Questo
fatto diventa ancora più enigmatico se consideriamo che la
cittadinanza, la comunità politica, è stata degradata dagli
emancipatori politici addirittura a semplice mezzo per la
conservazione di questi cosiddetti diritti umani».
Marx
tenta di risolvere questo enigma con una narrazione storica: gli
emancipatori erano condizionati dal dover abolire il feudalesimo, nel
quale l’individuo era sussunto dai suoi bisogni particolari nelle
corporazioni; la società era un insieme conflittuale di corporazioni
che avevano un immediato significato politico, e così lo stesso
potere politico aveva un carattere particolare; la rivoluzione
eliminò il carattere particolare del potere politico e il carattere
politico delle corporazioni particolari.
«Tuttavia
il completamento dell’idealismo dello stato fu nel contempo il
completamento del materialismo della società civile. Lo scuotimento
del giogo politico fu nel contempo lo scuotimento dei legami che
tenevano incatenato lo spirito egoistico della società civile.
L’emancipazione politica fu nel contempo l’emancipazione della
società civile dalla politica, dalla parvenza stessa di un contenuto
generale».
Se
gli emancipatori hanno sentito come una liberazione questo doppio
movimento, evidentemente l’egoismo della società civile, che essi
avevano in mente, non è quello cieco del vero stato di natura, ma
quello edulcorato dello stato di natura lockiano, quello cioè
mediato in realtà dallo stato, dunque un egoismo non egoistico: un
egoismo illuminato in quanto rispetta le leggi; il contenuto generale
della società civile, che Marx irride come parvenza, benché non
posto nell’autocoscienza dei membri della società civile, è
presente virtualmente nel loro rispettare le leggi. Sebbene
nel loro liberalismo confondano la società civile con lo stato di
natura, è questa universalità immanente della società civile, la
sua necessità dello stato, e non l’orrore dello stato di natura,
che gli emancipatori vogliono sia rispettata dal potere politico.
Marx non risolve l’enigma del perché i rivoluzionari abbiano
identificato la liberazione con il diritto dell’uomo egoista, e si
limita a una narrazione storiografica, perché, come si è visto,
condivide lo stesso equivoco degli emancipatori, per quanto ne tragga
le conseguenze opposte: se gli emancipatori hanno fatto propria
l’identificazione lockiana della società civile con uno stato di
natura che hanno reso idillico proiettandone l’orrore sulla
monarchia feudale (così come i liberali successivi lo proietteranno
sullo stato democratico), se questo li ha spinti a quell’erronea
visione conciliata della naturalità umana da cui germina l’illusione
che i diritti dell’uomo abbiano realtà al di fuori delle leggi
dello stato costituzionale, – da parte sua Marx ha per un verso
commesso lo stesso errore: come i liberali, ha identificato la
società civile con lo stato di natura; per un altro verso ne ha
tratto la conseguenza opposta: ha tenuto fermo l’orrore dello stato
di natura così da proiettarlo sulla società civile, e, avendo
accusato lo stato costituzionale di impotenza a domarlo, è scivolato
nel messianismo ateo.
Come
mai gli uomini si sono sentiti liberati creando uno stato con
leggi uguali per tutti, che quindi li accomuna in una solidarietà
virtualmente illimitata (Rousseau parla di alienazione totale degli
individui naturali allo stato), ma sovraordinato a una società
civile dominata dagli egoismi? Come mai hanno considerato più
libera, dunque più vera, questa forma etica? Evidentemente la
libertà, come la verità, implica non soltanto l’universalità, ma
la congiunzione di universalità e particolarità. In effetti
a questo mira la definizione di verità come adaequatio rei et
intellectus. Marx però ha dissolto l’idea speculativa
respingendola nella dialettica, ossia ha rifiutato il comporsi di
interesse egoistico e spirito solidaristico nello stato, tenendo
fermo il dogma del contrasto irriducibile tra diritti e doveri. Egli
disprezza la verità già esistente, è dunque costretto a scivolare
nel dover-essere, nel sogno di un’immediata identità tra
forza sociale e forza politica nell’individuo. Poiché fa di questa
identità un risultato di dinamiche storiche necessarie, Marx
sorpassa la volontà dell’individuo, cioè arriva all’assurdo di
una libertà che non è come essenza della volontà, ma come qualità
che questa acquisisce in virtù del futuro contesto sociale. In altri
termini: l’individuo egoista della società civile vuole
egoisticamente, l’individuo politico vuole universalmente; occorre
che l’individuo egoista voglia universalmente. Nella realtà già
data, nella verità già esistente, questo accade, per noi,
quando l’individuo scorge nella volontà generale la condizione per
cui il suo egoismo è soddisfatto: vuole il bene di tutti perché
solo così può realizzare il suo bene – questa è la base del
contratto sociale di Rousseau. Marx, invece, sorpassa la volontà
dell’individuo e immagina, alla maniera positivistica, un individuo
futuro in cui l’impulso egoistico è esternamente
armonizzato alla legge. È chiaro che questo individuo senza egoismo
e senza particolarità è soltanto momento astratto del corpo
sociale; in ciò Marx abbandona la modernità e regredisce al
totalitarismo dello stato platonico.Nella seconda parte Marx ritorna sulla questione ebraica per risolverla a suo modo. Contro la proposta di Bauer che resta sul terreno della critica della teologia, Marx propone una soluzione materialistica:
«Un’organizzazione
della società che sopprimesse i presupposti del trafficare, dunque
la possibilità del trafficare, renderebbe impossibile l’ebreo.
Come una nebbia inconsistente, la sua coscienza religiosa si
dissolverebbe nel reale vento vitale della società.
Ma
di fatto questo materialismo è rifiuto della realtà e fuga nel
dover-essere:
«Non
appena la società riuscisse a sopprimere l’essenza empirica
dell’ebraismo: il trafficare e i suoi presupposti, l’ebreo
sarebbe diventato impossibile, perché la sua coscienza non avrebbe
più un oggetto, perché la base soggettiva del giudaismo è la
versione umana del bisogno pratico, perché il conflitto
dell’esistenza sensibile-individuale dell’uomo con la sua
esistenza universale è soppresso».
Di
fatto Marx non ha alcun motivo di credere alla possibilità di una
società che voglia sopprimere l’essenza empirica
dell’ebraismo, di una società così diversa dalla società civile
reale che vuole la soppressione del trafficare e dei suoi
presupposti. Il proletariato, con cui gli scritti successivi
identificheranno ciò che qui si chiama società, supera
quello che Marx vuole chiamare conflitto tra individualità e
universalità finché è classe che si sente in lotta, esattamente
come gli individui rinunciano a tutto il proprio egoismo e
diventano consapevoli di formare un popolo finché devono
fronteggiare una catastrofe; che, a dispetto di ogni rivoluzione
permanente o culturale, questo conflitto riaffiori dopo la vittoria
rivoluzionaria e che possa essere risolto soltanto attraverso lo
stato, è testimoniato dalla storia di ogni rivoluzione.
(Le
citazioni dalla “Questione ebraica” sono mie traduzioni fatte sul
seguente testo:
Non condivido praticamente niente di questa ricostruzione. Mi sembra che ossessivamente si ritorni sul tema dello "Stato" e della critica di Marx senza averla compresa veramente. Lo Stato non è sempre esistito, è un fatto storico. Lo stato borghese non ha nulla a che vedere con l'organizzazione sociale dei Sioux. Eppure esistevano regole comunitarie, ruoli, leggi non scritte. Se parliamo in astratto dell'organizzazione sociale e la definiamo "Stato" compiamo un errore.
RispondiEliminaE poi non è per niente vero che la critica di Marx esclusivamente quantitativa nei confronti dello schiavismo e del lavoro salariato. Credo che tante critiche si possano fare a Marx, ma proprio questa è davvero bizzarra. A questo proposito consiglio un bel libro di Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx. Se il feticcio è centrale nella critica dell'economia politica, se qualcuno parla del capitale come feticcio automatico, non si comprende davvero come la critica sia "quantitativa". Il fatto di chiamare l'opera Das Kapital dovrebbe mettere sulla pista giusta, cioè la descrizione di un soggetto impersonale che domina l'esistenza umana, alle cui leggi siamo assoggettati senza nemmeno rendercene conto.
Ci sono spunti interessanti sul rapporto tra Marx e Hegel. C'è una parte di critici che considera l'analisi tra i due pensatori mal posta. Secondo questo filone, Marx non si può definire né hegeliano né non hegeliano. Solo che il mondo che descrive Hegel è quello vero, autentico, secondo Marx. Il mondo del dominio dell'astratto sul concreto. E la descrizione di questo mondo, secondo Marx, è stata fatta alla perfezione da Hegel. Ma è proprio il mondo da ribaltare, questo è il punto.
L'ossessione ha un motivo ben preciso. I "sonnambuli" (per usare il termine di Badiale e Tringali) della sinistra confondono da vent'anni Unione Europea e internazionalismo socialista; questa confusione deriva, a mio avviso, non da ultimo dal rifiuto del valore dello stato - qualunque esso sia - presente in tutti gli scritti marxiani, trapelato dunque nella tradizione di sinistra, per quanto poco questa abbia letto Marx. Ma noi, oggi, come possiamo salvarci senza difendere la costituzione? Come possiamo difendere la costituzione se continuiamo a nutrire il sovrano disprezzo che Marx ha sempre nutrito per lo stato?
RispondiEliminaSe ben capisco, secondo Francesco la critica di Marx allo stato sarebbe che non è una realtà eterna, ma un fatto storico. Ma questa non sarebbe una critica. Marx accusa invece lo stato (dovrebbe essere chiaro anche dalle citazioni nel mio articolo) di essere una sfera di uguaglianza e libertà soltanto illusorie (quanto quella della religione) e incapace (come la religione) di incidere sulla società civile uguagliata a stato di natura. Temo che, inconsapevolmente impregnati di questa accusa, ci siamo lasciati sfilare, quasi senza accorgercene, la sovranità, la costituzione, lo statuto dei lavoratori, la sanità pubblica, la scuola pubblica e così via.
Quanto al secondo punto, c'è un fraintendimento. Io distinguo tra schiavismo e lavoro salariato: mentre lo schiavismo fa dell'uomo un non-uomo, e questo è uno sfruttamento che implica una differenza qualitativa, il lavoro salariato di per sé non implica la degradazione del lavoratore a cosa: la può implicare nel senso che lo sfruttamento può arrivare al limite oltre il quale la personalità del lavoratore è lesa, ma non la implica necessariamente. Ne deduco che il capitalismo non è in sé e per sé degradante: lo è il capitalismo liberale che riduce i lavoratori a bestie da soma, non lo è quando le retribuzioni, i tempi e i modi del lavoro rispettano le persone. L'inumanità del capitalismo risulta insomma non dal fatto che i lavoratori vendano la loro forza lavoro, ma dall'eventualità che il capitalista ne abusi, cioè, nella terminologia dell'articolo, non da un fatto qualitativo, ma da un fatto quantitativo.
Caro Paolo Di Remigio, quello che scrivi conferma in pieno quello che penso. Io, come tanti altri, non penso affatto che l'Unione Europea corrisponda all'internazionalismo socialista. Per niente. Credo invece che sia stata costruita come una gabbia funzionale agli interessi imperialistici della Germania e agli interessi del capitale finanziario.
RispondiEliminaNello stesso tempo però sono molto perplesso su questa tendenza ricorrente di riacciuffare la sovranità nazionale. Io non ragiono così. Io ragiono in termini di conflitti di classe e la vicenda della Grecia per me ne è la dimostrazione: un'oligarchia storica (al cui apice ci sono gli armatori), un paese abbandonato a se stesso, i diritti dei lavoratori calpestati. E' questa oligarchia che ha portato la Grecia dentro la moneta unica, infischiandosene dei lavoratori e dei loro diritti. Per non parlare di evasione fiscale.
Il discorso sullo Stato, così come è impostato, è inaccettabile dal mio punto di vista. Dovremmo essere abituati al pensiero critico, a comprendere che cos'è lo Stato (anche quello italiano), quali sono gli apparati, come funziona. La storia dello stato italiano, dal dopoguerra in poi, non è quella meraviglia a cui tendere nostalgicamente. Non mi pare per niente. Giusto per citare un fatto, le stragi di stato cominciarono nel 1° maggio del 1947, con la strage di Portella della Ginestra. Dieci giorni dopo la vittoria del fronte popolare nelle elezioni regionali siciliane. Possiamo dire che quella fu l'impronta che diede lo Stato Italiano, il marchio di fabbrica. Per il resto, non mi dilungo, sappiamo tutti di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, dell'Italicus, della stazione di Bologna, di Ustica, di Falcone, di Borsellino.
Che questo stato non abbia assolto il compito di classe, di gestione del capitalismo italiano, non mi pare che si possa affermare.
In ultimo, sulla questione degli schiavi, ritengo utile andare a rivedere la storia della guerra di secessione americana. Il nord non chiedeva l'abolizione dello schiavismo per un fatto umanitario, spero che non crediamo a questa favoletta. Il lavoro salariato è incopatibile con lo schiavismo, per il semplice fatto che lo schiavo è proprietà privata del padrone. E invece servivano persone "libere". Libere di essere sfruttate nelle fabbriche e di essere mandate via quando non servivano più.
Ti assicuro che visitare le fabbriche di Detroit è sconvolgente. Appena entri, una lunghissima linea di montaggio composta esclusivamente da donne nere. Qualcosa vorrà dire, o no?
Che poi il capitalismo non sia sfruttamento ma è solo quello liberale che lo è mi sembra una boutade, scusami se te lo dico. Ma allora, del pensiero economico, non solo di Marx ma anche di Smith e di Ricardo, cosa ne facciamo? Polpette?
Caro Francesco, all'ottavo rigo del tuo commento leggo "i diritti dei lavoratori calpestati", una frase che implica 1) che i lavoratori abbiano diritti - non è una banalità perché nello schiavismo i lavoratori non hanno diritti; 2) che ci sia uno stato che IN GENERE tuteli questi come gli altri diritti; 3) che lo stato in QUEI casi abbia omesso di farlo. Nel resto del commento, invece, lo stato appare SOLTANTO come un apparato per organizzare complotti e stragi. A mio avviso questo secondo punto di vista, quello che chiami "pensiero critico", è in contrasto con l'idea dei diritti dei lavoratori e soprattutto è parziale: si può seriamente sostenere che lo stato italiano sia stato SOLTANTO un complotto ai danni della maggioranza della popolazione? Non è più realistico pensare che al suo interno ci siano stati apparati deviati (da potenze straniere - e questo ripropone il tema della sovranità) che si siano macchiati di gravi reati (cioè abbiano infranto specifiche leggi dello stato)?
RispondiEliminaLo stesso contrasto ritorna quando scrivi "libere" tra virgolette. Riconosco che è il punto di vista autenticamente marxiano, ma è un punto di vista che contiene questo problema: disprezza la libertà già PRESENTE, per quanto parziale, per quanto a volte calpestata, e rimanda a una libertà FUTURA; in altri termini, diventa IDEALISTA a forza di MATERIALISMO. Marx è senz'altro perdonabile: aveva davanti agli occhi il capitalismo liberale dell'Ottocento (quello a cui stiamo tornando) e non aveva visto la collettivizzazione dell'agricoltura nella Russia di Stalin, o il Grande Balzo di Mao, oppure il Super Grande Balzo di Pol Pot; quindi era poco sensibile ai pericoli del rifiuto integrale del presente. Ma NOI, che sappiamo queste cose, non possiamo attenerci più al suo disprezzo per la "libertà" e alla sua ansia per il futuro.
Quanto alla "boutade": NON ho scritto che il capitalismo non sia "sfruttamento", ho scritto che il capitalismo non è "in sé e per sé degradante", spiegando che non la vendita, ma l'abuso, della forza lavoro comporta la disumanizzazione del venditore, ossia la sua riduzione in schiavitù.
Provo a replicare ancora una volta, vediamo se riesco ad essere più efficace.
RispondiElimina1) Non penso affatto che l'abolizione dello schiavismo sia stato un fatto irrilevante. Per niente. E' stato rilevantissimo, ci mancherebbe.
2) Non penso però che dobbiamo cadere nell'inganno di pensare che, dato che i lavoratori siano liberi, lo siano fino in fondo. Non è così. Se non ho altra alternativa per sopravvivere, sarò costretto, anche se non mi piace, a vendere la mia forza-lavoro. E la costrizione è l'opposto della libertà. Non è un caso che negli USA non ci sia uno stato sociale come quello della tradizione europea (oramai in disarmo). Perchè agli ex schaivi non volevano dare tutti i diritti, solo alcuni, quelli indispensabili. Ti assicuro che visitare gli Stati Uniti è molto istruttivo.
3) Ancora sullo Stato. I diritti, anche sanciti da leggi dello stato, sono stati conquistati con la lotta, non discendono automaticamente dall'esistenza di un'entità chiamata Stato. Lo Stato, così come lo conosciamo, nasce dopo la rivoluzione francese, non è a-storico, non è sempre esistito.
4) Ancora stato. Credo che ci si confonda spesso tra organizzazione sociale e stato. Che occorra un'organizzazione sociale non ho dubbi. Che si definiscano le regole condivise. Questa organizzazione, chiamata Stato Moderno, è una particolare organizzazione sociale, che rispecchia le condizioni storiche in cui ci troviamo.
5) Che lo stato italiano abbia una lunga storia, non certamente costellata di episodi edificanti, mi pare che non ci siano dubbi. Se vogliamo, possiamo risalire all'Unità d'Italia e al modo barbaro con cui fu realizzata (anschluss, annessione guidata da potenze imperialiste straniere come Inghilterra e Francia).
6) Per finire, che le condizioni non siano mai pure, cioè che lo stato rappresenti esclusivamente il modo di funzionamento del capitale, questo mi sembra un fatto evidente. Che la costituzione rappresenti anche alcuni diritti dei lavoratori, mi sembra evidente. Ma è altrettanto evidente che fu il frutto di una guerra partigiana.
7) Che si parli di libertà FUTURA sacrificando quella conquistabile oggi è una posizione che non mi appartiene. Per Marx il comunismo era il movimento per il cambiamento reale delle cose, non era lo STATO stalinista né, tanto meno, quello cinese. Comunque la si pensi, sacrificare il presente in vista della Città Futura non è il mio pensiero.
8) La teoria del valore. Purtroppo questo punto richiederebbe molto più spazio. Dico solamente che per Marx (ma anche per me) il valore (che poi si rappresenta nel denaro) deriva dal lavoro umano. Questo è un punto essenziale. Da lavoro umano "socialmente necessario", non direttamente il tempo di lavoro. Se non si afferra questo concetto, i discorsi che facciamo girano a vuoto. Viviamo dentro un feticcio. Con i suoi meccanismi che sono occulti ai protagonisti. Che piaccia o non piaccia un mondo fatto così, questo fa parte delle libere scelte e dei gusti personali. Però, comprendere come funziona è importante.
Un dialogo tra sordi
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