Ripubblichiamo un articolo di Bontempelli sulla crisi della scuola italiana. Apparve originariamente nella rivista "Indipendenza" (n.24, nuova serie, luglio/agosto 2008) ed è stato ripubblicato nel volume "Un pensiero presente", del quale abbiamo già parlato, che raccoglie tutti gli interventi di Massimo nella rivista. Ci sembra un testo ancora perfettamente attuale.
(M.B.)
Per la rinascita del sistema nazionale della pubblica istruzione
Massimo Bontempelli
Succede
talvolta nella storia che corpose realtà cariche di importanza e
significato per la società umana ad un certo momento rimangano
soltanto intelaiature vuote, ingombranti simulacri di una sostanza
svanita. Ad esempio, l’Impero Romano d’Occidente al tempo degli
imperatori ravennati non era altro che la sopravvissuta facciata
esteriore di una organizzazione storica ormai disgregata e ridotta
allo stato larvale. Allo stesso modo oggi il sistema nazionale della
pubblica istruzione ha la stessa realtà di quei palazzi che durante
la guerra erano stati sventrati dalle bombe, e che sembravano ancora
esistenti soltanto lungo quei tratti di strada da cui se ne vedeva il
muro di facciata rimasto in piedi, senza vedere quel che ci stava
dietro. La scuola italiana oggi è così. È una facciata di elementi
di vita scolastica che si riproducono per lo più per inerzia, con
qualche aspetto e momento isolatamente ancora valido, ma con una
sostanza educativa crollata sotto le bombe di dinamiche sociali
diseducatrici lasciate incontrollatamente operare, e di innovazioni
ministeriali particolarmente devastanti a partire dal 1996. Tutto
questo ha una tragicità su cui ci si sofferma troppo poco, perché
la fine del sistema nazionale delle pubblica istruzione significa
–anche per la crisi di altra agenzie educative, a cominciare dalla
famiglia- che non c’è più trasmissione di saperi e valori da una
generazione all’altra, che è recisa la memoria storica, e quindi
la capacità di comprensione politica, e che i giovani si affacciano
alla vita adulta privi di strumenti di decodificazione del
funzionamento effettivo del mondo in cui vivono.
Proviamo
ad esporre, di questa catastrofe di civiltà, prima la fenomenologia,
poi l’eziologia storica, infine i modi più sensati ed adeguati di
reagirvi.
La
fenomenologia della morte della scuola è molto chiara, e per vederla
bastano sguardi non instupiditi su ciò che vi accade riguardo al
comportamento degli studenti e a quello degli insegnanti, ai
programmi di studio, ai libri su cui si studia, ai metodi di
valutazione, agli ambienti.
Il
comportamento degli studenti è in larga percentuale descolarizzato.
In alcuni tipi di scuola, in alcune fasce d’età ed in alcune zone
del paese sono molto frequenti situazioni di indisciplina tale,
talvolta persino da codice penale, da rendere qualsiasi insegnamento
materialmente impossibile. In molti altri casi le situazioni non sono
di gravità così estrema, ma la mancanza diffusa di attenzione, del
giusto silenzio, della puntualità e dello studio a casa frappone
ostacoli egualmente spesso insuperabili all’insegnamento. Sono
pochi, e concentrati soprattutto nei licei, i casi in cui gli
studenti sono disciplinati in classe e studiano a casa, ma anche in
questi casi non mancano seri problemi, che riguardano essenzialmente
la motivazione allo studio, talvolta, e sembra un paradosso, molto
carente anche in presenza di una disciplina impeccabile e di molte
ore passate sui libri.
Il
comportamento degli insegnanti è spesso penoso: investiti dalla
maleducazione e dai ricorsi cavillosi delle famiglie di certi
allievi, privati di ogni prestigio di ruolo, in larga percentuale non
preparati a svolgere un compito educativo, non appaiono mediamente
più motivati dei loro allievi a lavorare nella scuola.
I
programmi di studio in realtà non ci sono più, almeno dalla
comparsa di uno dei più ottusi, presuntuosi e nocivi ministri della
pubblica istruzione che l’Italia abbia avuto in tutta la sua
storia, l’ineffabile Luigi Berlinguer, che, fattosi guidare da una
lobby accademica di pedagogisti filosoficamente analfabeti, ignari
dei problemi concreti della scuola, pronti a scambiare il loro gergo
per scienza (ed a farsi pagare barche di denaro per diffonderlo), ha
inaugurato la scuola del fai-da-te riguardo agli obiettivi
dell’insegnamento. Fu allora detto, dall’ineffabile e dalla sua
corte di cialtroni, che sarebbe stato tutto un fiorire di creatività
culturale nelle scuole diventate finalmente autonome. Era invece
facilissimo prevedere quel che poi accadde, e che fu infatti previsto
fin nei dettagli (cfr., ad esempio, Massimo Bontempelli, L’agonia
della scuola italiana, Pistoia 1997), e cioè la sostanza degli
insegnamenti messa fuori campo dall’immagine data di sé da
ciascuna scuola, il rapporto essenzialmente pubblicitario di ciascuna
scuola con i suoi futuri auspicati clienti, la riduzione dei piani di
offerta formativa a semplici brochures pubblicitarie delle singole
scuole, lo spazio aperto alle interferenze nella scuola di interessi
non culturali, la perdita di ogni nozione di sapere essenziale da cui
nessuna scuola possa prescindere.
I
libri su cui nelle scuole si studia non sono più fatti dagli autori
in funzione della cultura, ma dagli editori in funzione del mercato.
Chiunque abbia esperienza di lavoro nell’editoria scolastica sa
bene quanto il modo di produrre un libro per la scuola sia
completamente diverso da quello di vent’anni fa. Oggi il libro
scolastico non è più dell’autore, che, se vuole farlo, non può
affatto comporlo come ritenga culturalmente e didatticamente giusto,
ma deve farsi mero esecutore di criteri, formule, persino contenuti,
elaborati da dirigenti editoriali desiderosi di giustificare il loro
ruolo con ogni sorta di loro costruzioni, mirate, o credute mirate,
alla massimizzazione delle vendite. Vengono così fuori libri pieni
di banalizzazioni, digressioni, riepiloghi, schede, eserciziari,
letture dispersive, libri pluriillustrati e pluricolorati, e,
naturalmente, molto costosi, ma singolarmente inadatti al serio
approfondimento dei concetti di una disciplina, anche perché tutti i
loro accessori hanno eliminato lo spazio minimo per spiegarli.
I
metodi di valutazione dello studio scolastico hanno raggiunto la
demenzialità pura. La linea di sviluppo è stata infatti quella
della proporzionalità inversa tra contenuti sottoposti
all’apprendimento, sempre più ristretti (a causa del disimpegno
degli allievi, del totale disinteresse in proposito del dirigente
scolastico, ormai vincolato soltanto a plurime incombenze
burocratiche e selezionato soltanto su questa base, delle continue
interruzioni del tempo di lezione a vantaggio di un pulviscolo di
altre iniziative), e meccanismi di valutazione dell’apprendimento,
sempre più estesi e complicati. Che una tale forbice sfoci nella
demenzialità è inevitabile. Prendiamo un esempio tratto dagli
scrutini finali dell’anno 2007-2008. Un consiglio di classe discute
il rendimento dei suoi allievi, dirimendo alcuni contrasti di
opinioni e arrivando a decidere l’attribuzione dei voti, le
ammissioni e le non ammissioni alla classe successiva, i debiti e i
crediti, la valutazione della condotta. Ciò occupa più di due ore
di tempo. Dopo di ciò, in una scuola sensata si passerebbe allo
scrutinio di un’altra classe. Siamo invece nella scuola
postberlingueriana. Occorre quindi passare alla compilazione dei
giudizi individuali barrando apposite caselle su apposite schede. Si
deve barrare, ad esempio, per ogni allievo, la casella con la formula
ritenuta corrispondente al gradi di profitto scolastico da lui
raggiunto, in una scala che va dal «gravemente insufficiente»
all’«ottimo». Si tratta, in pratica, di ridire come formula di
giudizio la medesima cosa che è stata detta come votazione numerica.
La cosa è talmente la medesima che a piè di pagina della stessa
scheda viene spiegato che «ottimo» corrisponde al nove o al dieci,
«buono» all’otto, «discreto» al sette, e via dicendo.
L’attribuzione del giudizio di profitto è dunque un puro, inutile
duplicato cartaceo dello scrutinio già fatto. Si devono poi barrare
caselle relative al «senso di responsabilità», alla «capacità di
analisi», alla «capacità di sintesi», e così via, di ogni
allievo. A chi o a che cosa servono questi profili per la successiva
vita scolastica? Assolutamente a niente. Così come altre voci della
scheda a cui rispondere. Si tratta, per l’insegnante, di
affaccendarsi su cose che, didatticamente ed educativamente, sono un
fare nulla. Ma un fare nulla affaccendandosi non è affatto innocuo,
è qualcosa che, ripetendosi e costituendo un’abitudine, opera un
dirottamento mentale dalla sostanza e dalla serietà del compito
educativo. Proprio qui, però, si manifesta il nodo più
sconvolgente. Un marziano si aspetterebbe che gli insegnanti, che
hanno scelto un mestiere che ha a che fare con le idee, la cultura,
l’educazione, posti di fronte a simili schede, rifiutassero
semplicemente di prenderle in considerazione, con un grilliano
«vaffa» nei confronti di chiunque, dal ministero in giù, volesse
loro imporle, o che, quanto meno, le facessero compilare ad uno di
loro in maniera rapida e meccanica, dando ad esse il nessun peso che
meritano. Abbiamo notizie che in qualche caso le cose sono andate
proprio così. Ma si tratta di casi isolati. Lo spettacolo che
solitamente si presenta ha dell’incredibile: insegnanti che si
lasciano via via coinvolgere in discussioni e diatribe su simili
compilazioni. La frequenza scolastica dell’allievo (altra voce da
compilare) è «assidua», «regolare», o «saltuaria»? C’è già
registrato, sul tabellone dello scrutinio il numero di assenza per
ciascuna materia, una nuda cifra che non ha bisogno di chiose. Ma
spesso succede che un insegnante propone di barrare, per un certo
allievo, la casella della frequenza «regolare», e subito un altro,
che constata un numero maggiore di assenza per la propria materia,
reagisce (specie se in pregressa dissintonia psicologica con il
primo) dicendo «Ma come! La frequenza non è regolare, è
saltuaria!», e giù a discutere. Abbiamo assistito di persona ad una
discussione, riguardo ad un allievo, se in riferimento al suo metodo
di studio dovesse venire barrata la casella «ordinato», oppure
quella «organizzato» (sic!). Quanto fin qui detto riguardo ad uno
scrutinio finale è soltanto un esempio, uno tra i tanti, di uno
degli aspetti nello stesso tempo più evidenti e più opachi della
fenomenologia della morte della scuola: un corpo docente che non sa
più impiegare il suo tempo di lavoro nei due campi che gli sarebbero
professionalmente essenziali, vale a dire la cultura e la relazione
con gli studenti come persone, e che ha accettato invece di
impiegarlo in mansioni organizzative che un tempo erano quelle
necessarie alla scuola, e che erano svolte da un vicepreside o da
altro collaboratore sollevato per questo, giustamente, da una parte
del suo lavoro di insegnante, e che oggi si sono moltiplicate,
essendo diventate quelle necessarie a gestire tutta la valanga di
inessenzialità scaricate sulla scuola.
Nelle
numerose occasioni in cui gli insegnanti si trovano riuniti non si
parla quasi mai (ci credano i lettori che, esterni al mondo della
scuola, immaginano il contrario, e sappiano invece che riguardo a
molte realtà bisogna persino togliere il «quasi») di contenuti
culturali, non si ascoltano scambi di informazioni e di riflessioni
su lettura fatte, non ci sono approfondimenti sulle problematiche
relazionali dell’insegnamento, non si discute la ragione ed il
significato per cui gli studenti sono chiamati ad apprendere certi
contenuti invece di altri. Quasi tutto quello di cui per lo più
parlano gli insegnanti a scuola è di una sconfortante miseria
spirituale ed umana: corsi di recupero che tutti sanno essere
inutili, elezioni e relazioni delle vacue funzioni strumentali,
distribuzione rissosa degli spiccioli spendibili a vantaggio degli
insegnanti da parte degli istituti scolastici, questioni di orario,
contrasti tanto più aspri quanto più le materie del contendere sono
del tutto irrilevanti salvo che per la psicologia dei contendenti.
L’inutilità di ciò che fanno gli insegnanti nelle loro riunioni è
stancante, ma siccome essi non sono consapevoli di ciò che ingenera
loro stanchezza, la scaricano nel chiacchiericcio tra loro,
comportandosi come una di quelle classi di allievi demotivati ed
inquieti che nella loro veste docente li esaspera.
Questo
degrado del corpo docente delle scuole non può ovviamente essere
interpretato come somma di deviazioni individuali, essendo un fatto
collettivo ed istituzionale, e non può quindi non ricondurci alle
forze storiche che hanno prodotto la devastazione della scuola
italiana. Proviamo quindi a passare dal piano della fenomenologia
della morte della scuola al piano della sua eziologia storica.
Una
causa prossima, per così dire, della fine della scuola italiana sta
ovviamente nel suo Attila, il ministro della pubblica istruzione
degli ultimi anni Novanta Luigi Berlinguer, e nei devastatori che gli
sono succeduti, prima fra tutti Letizia Moratti. Parlare di Attila e
di devastatori per personaggi tranquilli, non dissimulatori, niente
affatto politici dal gioco duro, come costoro, può sembrare una
forzatura di cattivo gusto. In effetti, però, essi sono stati
davvero dei grandi devastatori, anche se non per cattiveria, non
intenzionalmente, ma per una desolante inintelligenza, per così poco
sale in testa che possiamo persino arrischiarci a pensarli in buona
fede. Prendiamo l’Attila primigenio, Luigi Berlinguer. Ha
sottoposto la scuola da un iperdosaggio di innovazioni, attribuendo
ad esse effetti immaginari, o immaginati dalla più incolta e
dogmatica delle lobbies accademiche, quella dei pedagogisti, senza
capirne, e forse senza neanche averne capito oggi, gli effetti reali,
visibilissimi sul campo. Il ministro ricorda, nella sua azione
ministeriale, quel buon toscanaccio, ma non proprio acculturato, che
ad un amico lamentoso per essersi ammalato di epatite mise davanti
alcuni bicchierini di superalcolici dicendo, con l’affettuosa
intenzione di curarlo, «bevi questi, ti fanno bono». Anche
Berlinguer avrà pensato: le mie innovazioni «fanno bono» alla
scuola, la renderanno più accogliente, più donmilaniana, più
individualizzata, più moderna. Sarebbe bastata un po’ più di
intelligenza, neanche tantissima, della realtà della scuola e del
suo rapporto con la società, per capire che la cosiddetta autonomia
significava demolizione del sistema nazionale della pubblica
istruzione e perdita di ogni riferimento a saperi essenziali, che gli
obiettivi formativi affidati ai singoli istituti significavano
riduzione della cultura ad aria fritta e pubblicità, che la
proliferazione di schede, formule, griglie tecniche e criteri di
valutazione significava eliminazione di interesse per i contenuti
culturali e gli aspetti relazionali dell’insegnamento, e così via.
Un’altra
causa prossima della fine della scuola italiana sta nell’avvenuta
abolizione, già dagli anni Ottanta, di ogni possibilità
efficacemente sanzionatoria degli elementi di grave disturbo del suo
regolare svolgimento didattico. Comportamenti indisciplinati di
allievi che arrivano di fatto a sabotare le lezioni, urla assordanti
nei corridoi, manifestazioni di pesante aggressività verso
insegnanti e compagni, frequentatori di aule del tutto disimpegnati
da ogni intenzione di apprendere qualcosa, e impegnato soltanto a
parlar d’altro con i vicini, sono elementi per fortuna non
generalizzati, ma, là dove sono presenti, e sono presenti in una
percentuale niente affatto bassa di scuole italiane, non sono
rapidamente eliminabili come dovrebbero esserlo perché una scuola
possa esistere come tale. Mancano infatti strumenti normativi ed
esecutivi adatti allo scopo. Elementi di disturbo non sono poi
soltanto quelli che si riferiscono all’indisciplina o addirittura
alla violenza degli allievi. Ci sono insegnanti che compiono atti di
arbitrio, di chiusura ad ogni ascolto, di disprezzo e di umiliazione
degli allievi, e che ciò nonostante non possono essere trasferiti ad
altre mansioni, né vengono tenuti sotto controllo da dirigenti
scolastici addestrati soltanto a compiti di bassa burocrazia. Ci sono
scuole strette nella morsa dei rumori e dello smog del traffico
circostante, o al cui interno si svolgono lavori durante le ore di
lezione. Quando questo è diventato possibile, le autorità che hanno
lasciato cadere gli antichi divieti hanno contribuito alla morte
della scuola, perché la scuola esiste, come sa chiunque ne conosca
la storia, soltanto in una separatezza protetta dal normale commercio
sociale.
Un’altra
causa prossima ancora della fine della scuola italiana sta
nell’università italiana, corrotta, nepotista e arida. Questa
università ha in un primo tempo impoverito la scuola non
trasmettendole, dalla sua boriosa ed esangue torre d’avorio, alcuno
strumento culturale e didattico, e non avendo fornito alcuna
preparazione, in nessuno dei suoi corsi, alla professionalità
docente nella scuola secondaria, ed in un secondo tempo l’ha
contagiata della sua corruzione. Dopo il 1999, infatti, cioè dalla
data in cui si è svolto l’ultimo concorso cattedrale per la scuola
(quello peggio congegnato di tutta la storia italiana per una
selezione di merito, ma per spiegare questo occorrerebbe
un’esposizione troppo dettagliata), l’unico canale di accesso
alla professione di insegnante è stato quello delle scuole di
specializzazione dell’insegnamento secondario gestite dalle
università. Si è trattato, per la scuola, di una devastazione senza
precedenti, che un giorno o l’altro dovrà essere documentato con
ricognizioni di fatti, interviste, documenti. In sintesi si può dire
che le università si sono assunte la gestione di queste scuole senza
mettere in campo competenze culturali-didattiche presenti al loro
interno, che non avevano per niente, ma al solo scopo di far cassa
con i contributi degli abilitandi. Il personale di gestione tratto
dalle scuole secondarie è stato inteso come subordinato in maniera
servile agli universitari, conformemente allo spocchioso
atteggiamento di superiorità della maggior parte dei nostri
accademici, ed è stato così selezionato in maniera inversa al
merito, perché, ovviamente, vista la situazione, chi aveva, tra gli
insegnanti di scuola, un minimo di idealità culturale e dignità
professionale, non ha mai pensato a proporsi per queste scuole, in
cui hanno smaniato di inserirsi, invece, gli incolti desiderosi di
essere rivestiti dall’esterno di un ruolo purchessia, i frustrati
dell’insegnamento desiderosi di uscirne, i piccoli ambiziosi o
trafficoni miranti a mettersi sotto una tettoia universitaria, di
guadagnare qualche relazione accademica. La congiunzione tra
universitari senza un’idea di scuola se non quella di trarne
vantaggi di corporazione e personali, e insegnanti di scuola promossi
a loro servitori e non a dirigenti, ha prodotto i ben noti corsi
degli orrori delle scuole di specializzazione: una pura sommatoria di
spezzoni di trattazioni, senza alcuna connessione tra loro, a cui
sono state associate pesantissime richieste di ogni genere di
relazioni scritte, dato che nessun accademico voleva apparire di
minore importanza degli altri. Dalle persone culturalmente vive,
costrette a frequentare questi corsi se volevano sperare di entrare
nella scuola, sono sempre venute dichiarazioni di assoluta
insopportabilità di quella frequenza, vuotissima ma pesantissima,
sgangherata ma costringente al più stretto conformismo mentale (ci
sarebbero tante esemplificazioni da fare per farlo visualizzare in
concreto). Anche qui c’è stata la selezione meritocratica
all’inverso: sono andati più avanti quelli disposti a digerire
tutto, cioè individui portatori di nulla, che saranno ulteriormente
addestrati al nulla dai lunghi tempi di parcheggio e di professione
precari.
L’operare
di tutti questi fattori ha cadaverizzato la scuola. Ma non sono essi
le cause vere, anzi le presuppongono. Un ministro devastatore come
Luigi Berlinguer non è diventato ministro per una forza a lui
connaturata, ma è stato indicato da un partito, scelto da una
coalizione vittoriosa, e perciò da un intero sistema politico. Una
università che agisce in un certo modo sulla scuola, non lo fa
perché un bel giorno così ha deciso un rettore, ma perché è in
precedenza costituita da una cultura, da interessi e da legami che
la spingono a ciò.
Le
cause vere della morte della scuola debbono dunque essere cercate in
dinamiche di lungo periodo della società, di cui ministri
distruttori come Berlinguer, interventi corruttori come quelli
dell’università, luoghi di selezione antimeritocratica come le
scuole di specializzazione, sono mezzi di attuazione (in questo senso
cause prossime), e il degrado culturale del corpo docente il primo
effetto.
Una
dinamica di lungo periodo che è sfociata inevitabilmente nella
morte della scuola, e che ne è stata quindi una vera causa, è stata
il mutamento storico avvenuto tra gli anni Settanta e gli anni
Ottanta nel rapporto tra sviluppo economico, mobilità sociale e
funzione della scuola, dopo il quale, nella nuova costellazione di
questi elementi, la scuola ha cessato completamente di essere un
luogo di promozione sociale. Da allora, un diploma di scuola
secondaria superiore non garantisce minimamente l’accesso al ruolo
lavorativo che gli corrisponde, e una maturità liceale funge da
punto di partenza di un itinerario verso una laurea che come tale non
è di alcun vantaggio per l’inserimento lavorativo.
Ora,
se c’è qualcosa di univocamente comprovato da studi sociologici e
fatti storici, è la correlazione esistente tra scuola come luogo di
promozione sociale, da un lato, motivazione degli studenti
all’impegno scolastico, e delle famiglie ad esigerlo da loro
dall’altro, e, viceversa, tra mancanza di opportunità di
promozione sociale nella scuola e demotivazione all’impegno
scolastico.
Generazioni
di padri e madri hanno inculcato con la massima forza nella testa dei
loro figli che dovessero assolutamente ottenere buoni risultati
scolastici per «farsi una posizione», come si diceva; le scuole
erano severe nella loro richiesta di disciplina e di studio perché
dovevano selezionare l’accesso a determinati ruoli sociali; alla
loro severità ci si adattava, perché conteneva una speranza di
miglioramento delle condizioni di vita rispetto a quelle dei
genitori. Certo, questa speranza era in gran parte illusoria. Le
condizioni sociali e culturali delle famiglie da cui gli studenti
provenivano esercitavano infatti un peso, notevole ancorché
invisibile, nel determinare, antecedentemente all’intervento della
scuola, le capacità di apprendimento e di elaborazione linguistica
su cui operava poi la scuola con il suo insegnamento e la sua
selezione per merito. Questa speranza, tuttavia, era socialmente
radicata e trovava continuamente riscontri di fatto che, anche
sebbene poco numerosi, contribuivano a corroborarla (con casi celebri
di grandi promozioni attraverso la scuola, da Pascoli a Gramsci),
corroborando la scuola. Diventata la scuola un luogo di parcheggio di
alcune fasce di età, invece che di promozione sociale, è
consequenziale che tutto dentro di essa vada verso la putrefazione,
dalle motivazioni degli studenti a quelle degli insegnanti, dai
contenuti culturali alla disciplina comportamentale. Data questa
tendenza storica, succede necessariamente che spuntino come funghi i
suoi inconsapevoli attuatori, i Berlinguer.
L’individuazione
di questa causa storica della morte della scuola lascia ovviamente
sgomenti riguardo al nostro terzo argomento, dopo la fenomenologia e
l’eziologia, e cioè le risposte da dare. Come è possibile
battersi per la rinascita della scuola in Italia se la condizione di
questa rinascita è una scuola come luogo di promozione sociale?
L’evoluzione compiuta dal capitalismo ha reso infatti
economicamente impossibile questa condizione, e non avrebbe senso
pensare né di tornare ad una fase anteriore del capitalismo, perché
la storia non conosce retromarce, né di costruire la scuola del
postcapitalismo, perché non è nell’attuale orizzonte storico
neppure immaginabile il funzionamento di una società
postcapitalistica.
Affrontando
seriamente il problema della scuola incontriamo in sostanza lo stesso
nodo che blocca lo scorrimento del pensiero e dell’azione quando
incrociano problemi che, come quello della scuola, incarnano una
catastrofe di civiltà, ad esempio il collasso ecologico del pianeta,
o la perdita di diritti del lavoro, o la guerra imperiale infinita:
come agire in concreto se per essere in grado di cambiare qualcosa
dovremmo poter cambiare la totalità del suo contesto, e il
cambiamento della totalità è, oggi, completamente al di fuori dei
nostri mezzi e persino delle nostre idee? Dovremmo finalmente
imparare ad affrontare seriamente un nodo di questo genere, evitando
sia l’astrattismo identitario ed autoconsolatorio, sia il
concretismo adattivo. Dovremmo finalmente imparare che l’unico modo
serio di affrontare un capitalismo potentemente distruttivo di ogni
civiltà è quello di fare riferimento non ad una configurazione
sociale alternativa, che non siamo minimamente in grado di prevedere,
ma ad un logica alternativa a quella sistemica, perché ancorata a
valori, per agire sui problemi. Se affrontiamo così la distruttività
capitalistica, introdurremo lacerazioni nel funzionamento sistemico,
che dovremo cercare di nuovo di affrontare con la logica valoriale,
non secondo i principi sistemici, e così via. In questo modo
cominceremmo ad incamminarci su un’altra strada storica, che non
sappiamo dove ci porterà. ma l’importante, oggi, non è sapere a
quale traguardo arriverà la storia futura, bensì uscire dal
terribile cerchio in cui si chiude la storia presente, e che sta
annichilendo ogni forma di civiltà umana.
Che
cosa significa tutto questo per la scuola? Che dobbiamo batterci,
allo scopo di restituire vita al cadavere della scuola italiana, per
restituirle una funzione di promozione sociale, che non può essere
quella tradizionale, a cui la storia non può tornare, e per cui non
esistono comunque mezzi di attuazione dal basso, ma può ben essere
quella di una alfabetizzazione delle giovani generazioni al contesto
storico in cui sono collocate, per trarne strumenti concettuali ed
etici di difesa dai suoi condizionamenti distruttivi. Si tratta di
una direttrice di lotta da intendersi non come obiettivo compiuto da
calare sulla scuola, che nessuna lotta avrebbe i mezzi per
perseguire, ma come quella logica valoriale, di cui si è detto
rispetto alla distruttività capitalistica in generale, che deve
guidarci nell’azione possibile su situazioni concrete. Proviamo a
specificare. Dobbiamo, in nome di una logica della scuola intesa come
luogo di promozione sociale, per ora in senso spirituale ed umano,
rivendicare sindacalmente l’abolizione di ogni onere improprio,
burocratico-cartaceo, per gli insegnanti, riconducendo tutto il loro
tempo di lavoro a quello che è il loro vero compito, insegnare, e
prevedendo la massima semplicità per l’espressione delle loro
valutazioni; rivendicare politicamente un sistema di reclutamento
degli insegnanti soltanto tramite concorsi nazionali seriamente
predisposti per accertare le competenze disciplinari, e soltanto con
assunzioni a tempo indeterminato, stante l’incompatibilità tra
lavoro precario e impegno di progettazione educativa; rivendicare
istituzionalmente la garanzia normativa, con sanzioni adeguate, del
minimo indispensabile di disciplina degli studenti, e la fine della
scuola come «progettificio» insulso e litigioso, con un ritorno
alla scuola in cui tutto il tempo sia dedicato allo svolgimento di
programmi nazionali vincolanti; rivendicare culturalmente un impegno
nella scuola, prioritario su ogni altro, -perché soltanto questo le
consentirebbe oggi di trasmettere saperi e valori, cioè di essere
davvero scuola- di promuovere la memoria storica delle giovani
generazioni, di radicare i loro orizzonti presenti in una
consapevolezza del passato, senza cui, nella situazione storica
odierna, non si può imparare davvero nulla, se non ad essere
acritici consumatori di un mondo che si autodistrugge. Per far questo
occorre non soltanto potenziare al massimo l’insegnamento della
storia in tutte le scuole, ma anche storicizzare l’insegnamento
delle altre discipline: le materie scientifiche insegnate, come oggi
si fa, in maniera destoricizzata, cioè senza mostrare i
condizionamenti storici, vale a dire culturali, economici, religiosi,
delle loro scoperte, presentate come un processo lineare di
avanzamento della verità tratta dall’osservazione dell’esperienza,
trasmettono una falsa idea ed una dogmatica accettazione della
tecnologia, positivizzante e pericolosissima nel mondo attuale.
La
causa ultima, o prima, della morte della scuola, che l’ha distrutta
come luogo di promozione sociale, è comunque il capitalismo assoluto
imperniato sull’aziendalismo, cioè sull’ideologia che tutto ciò
che si può fare lo si deve fare come prodotto fonte di profitto di
un’azienda.
Anche
la scuola la si vuole azienda, ma siccome non può esserlo, le
innovazioni volte ad aziendalizzarla la stravolgono senza neppure
poter funzionare sul loro piano. Fare di un ospedale un’azienda fa
male alla salute, ma si può fare. Fare di una scuola un’azienda
non si può neanche fare, ne viene fuori un ibrido disfunzionante.
Poiché questo ha l’evidenza dei fatti, occorre rilanciare tra
insegnanti, studenti, famiglie, l’idea della necessità di un
ripristino della scuola pubblica e nazionale.
l'articolo è un piccolo capolavoro.
RispondiEliminaleggere Bontempelli è sempre una esperienza che emoziona e che dà gioia per la passione e la grande intelligenza che riesce a comunicare. Il suo libro "l'agonia della scuola pubblica" è un gioiello.
RispondiEliminaLa scuola non ha ancora compreso il male assoluto e dogmatico dell'autonomia che da Berlinguer alle attuali opposizioni, passando per Renzi, tutti sembrano condividere. Lavoro nella scuola da meno di dicei anni, sono quindi entrata quando la situazione era esattamente quella magistralmente descritta da Bontempelli, ma prima della riforma Gelmini. La prima domanda che mi posi, e che ponevo a dirigenti e colleghi, era come fosse possibile aver accettato questo sistema, ma nella maggior parte dei casi la mia critica veniva tacciata di arroccamento ideologico rispetto al nuovo che avanza. Poi sono arrivati i tagli della Tremonti-Gelmini e tutti a protestare, come se la scuola soffrisse solo di risorse economiche e non di deficit culturali. Le cose sono peggiorate, perché se all'autonomia aggiungi i pesanti tagli non puoi che ottenere un sistema ancora più alterato e falsato. Poi è arrivato questo Ddl, che aggraverebbe la privatizzazione culturale e economica della scuola, ma pochi, sia dentro che fuori la scuola, hanno compreso che la deriva era già in atto, che la scuola della didattica, dello studio rigorso e della sostanza culturale era già stata sostituita da quella della distrazione continua, della dispersione, dell’immagine, della spettacolarizzazione. Pochi sembrano aver compreso che i nuovi provvedimenti legislativi non sono né rivoluzionari né reazionari, ma semplicemente coerenti con un sistema di fondo già tutto dispiegato.E questo significa constatare che persino noi docenti non siamo in grado di guardare più in là dell'abitudine a cui ci siamo assuefatti. Le eccezioni sono poche e irrilevanti. Alcuni resistono sperando che nelle proprie aule con sforzi eroici si possa salvare l'essenza dell'insegnamento; ma è una visione miope e presuntuosa che non ha alcuna incidenza sul sistema.Quindi ha ancora una volta ragione Bontempelli quando suggerisce che dal basso non potrà partire nulla, a meno che qualcuno di noi non riesca a trasformarsi in forza politica.
RispondiEliminami sento di dire che la stragrande maggioranza degli insegnanti non solo non ha visto arrivare il disastro...ma indirettamente o direttamente lo ha dipinto come un cambiamento positivo di fronte ai propri alunni....contribuendo a creare la situazione attuale.
EliminaSono d'accordo e non poteva essere detto meglio. Questo aggrava la situazione anche rispetto ad un mondo della scuola che è molto più diviso di quello che appare. Gli stessi ragazzi sono scissi tra il cambiamento positivo che si propone loro, che è, tra le altre cose, fortemente competitivo e stressante per la media, e la critica che pure si esercita nelle aule a questo sistema.
EliminaTante parole, molte asserzioni condivisibili, diversi silenzi interessati.
RispondiEliminaL'autonomia in quanto tale sarebbe sacrosanta. In Germania ad es. funziona. Il problema nel realizzarla in Italia sta nel clientelismo innato degli italiani e nella presenza del Meridione. Ma la questione dell'autonomia non è mai stata posta. Ciò che è stato spacciato con questo nome da Berlinguer in poi è solo un pretesto per privatizzare ad oltranza. Coll'intento aggiuntivo di formare generazioni abbastanza ignoranti da essere massimamente manipolabili.
A questo proposito certe asserzioni di Bontempelli fanno sorridere per la loro ingenuità. Berlinguer sapeva benissimo ciò che stava facendo. Il PCI aveva già fatto il salto della quaglia e si proponeva come intermediario della grande finanza speculativa. Mentre Prodi svendeva l'industria strategica italiana lui svendeva la scuola pubblica.
Ovviamente un autore di sinistra deve rispettare certi tabù. Lo svilimento della scuola fa tutt'uno col suo processo di massificazione, perseguito da PCI e sindacati colle assunzioni di cani e porci degli anni 60-70, e dagli studenti colla sbracatura sessantottina. Una generazione di accademici entrata col 18 politico, le tesi di gruppo e le assunzioni ope legis produce la fenomenologia constatata dall'autore nelle scuole di specializzazione. Allo strsso modo l'abbassamento del livello dell'insegnamento era esplicitamente rivendicato da Berlinguer nell'ottica di trasformare la scuola in parcheggio per le figliate delle orde migratorie - ma di questo Bontempelli non fa parola. Chi vuole la scuola seria se la paga, giusto il modello importato dal conquistatore anglosassone.
Avete voluto la disfatta bellica, le lauree di gruppo e la società multirazziale? Ora godetevele.
Parlare di Bontempelli come di un "autore di sinistra" che "deve rispettare certi tabù" significa sapere ben poco di lui e del suo pensiero.
EliminaCi vuole coraggio a parlare di "presenza del Meridione", dopo mafia-capitale e gli scandali che vedono coinvolte le regioni del Nord (es: Lombardia e Veneto). Il mito delle due Italie, quanto a corruzione dei costumi, può dirsi definitivamente smentito .Questa osservazione forse peggiora le cose, fino a quando però non ci accorgiamo che i ragazzi interiorizzano senza troppa fatica il seguente platonismo: la società si regge sui giusti e sugli onesti, e non il contrario. Se pensiamo a quanto poco diffusa sia nella società questa ovvietà culturale, allora si può anche immaginare quanto lavoro si faccia a scuola in tal senso. E non è lavoro da "cani e porci".
EliminaChe l'autonomia in quanto tale sia sacrosanta è una pura asserzione. L'autonomia è sbagliata in sé e per sé perché emargina dalla scuola l'unico committente autentico in quanto depositario dei fini più generali: lo stato. La scuola autonoma si apre al territorio, diceva Berlinguer, al mondo del lavoro, dice Renzi. Ma è lo stato che finanzia la scuola, è lo stato e solo lo stato che le fissa il compito nella sua massima generalità: fare delle nuove generazioni cittadini rispettosi delle leggi, istruiti nelle scienze, dotati di sensibilità culturale - tutti obiettivi che allo spirito particolare appaiono inutili lussi. Solo lo stato può essere consapevole di quanta profondità linguistica implichino quei compiti, in particolare l'istruzione scientifica - non il territorio, non il mondo del lavoro, tanto meno Lorenzo, che sbuffa perché al liceo si studia ancora latino.
EliminaE' vero, non lo conosco. Ho parlato per supposizione.
RispondiEliminala scuola italiana non è ancora morta, molti dei suoi operatori sono persone colte e perbene capaci di instaurare con le giovani generazioni un rapporto fondato sulla cultura e sul rispetto reciproco, NO, IO NON SONO MORTA, PER TRATTARE CERTI ARGOMENTI DEI NUOVI PROGRAMMI HO FATTO LE MIE RICERCHE SU INTERNET ATTINGENDO A TESI DI DOTTORATO, E NEPPURE I MIEI STUDENTI , SONO BEN ALTRI I MORTI E DOVREBBERO SCOMPARIRE PER SEMPRE DALLA SCENA POLITICA ITALIANA ma d'altra parte come si poteva pensare che la scuola restasse immune al programma di distruzione antropologica su vasta scala che questa classe politica miserabile e parassita ha portato avanti contro la società italiana nel suo insieme e che ha contagiato genitori, ragazzi e colleghi? Maria Catena Saccoccio, una professoressa. Quelque part en Europe.
RispondiEliminaUn'ultima osservazione. E' importante comprendere l'avversario. Per quale motivo Renzi si ostina a portare avanti una riforma che nessuno vuole e che gli sta guastando un importante bacino elettorale?
RispondiEliminaCertamente si propone di portare avanti la svendita/privatizzazione della scuola, ma questo non sembra ancora sufficiente. L'obbiettivo ulteriore è, a mio avviso, di neutralizzare le assunzioni a cui l'ha costretto la sentenza della Corte europea mettendosi nella condizione di rilicenziare a medio termine gli insegnanti che assume oggi. Quanti non vengano nominati dai presidi-managers dopo un paio d'anni di non-docenza verranno allontanati. In questo modo ripaggerà il conto dell'impiego pubblico ma col vantaggio di smantellare il ruolo, allontanare i meno capaci e i meno disposti a piegare la testa, e soprattutto di spaventare i rimanenti trasformandoli definitivamente in lecchini dei dirigenti scolastici-manutengoli del regime.
Sarebbe importante riconoscere che l' avversario sta seguendo passo passo i desiderata del vero governo che non sta qui, ma a Bruxelles.
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