Pubblichiamo un intervento di Fabio Bentivoglio sulla "buona scuola". Si tratta di un articolo in corso di pubblicazione sulla rivista Indipendenza.
(M.B.)
“Buona
scuola” o disastro antropologico?
Fabio
Bentivoglio
(articolo
tratto dalla rivista Indipendenza)
Prendiamo
spunto da alcune “perle” relative alla cosiddetta riforma “La
buona scuola” illustrata da Renzi nel corso del video con lavagna e
gessetti. Il nostro, con lo sguardo rivolto alla mitica crescita,
esordisce indicando che la riforma in oggetto mira a fare dell’Italia
una “superpotenza culturale”; aggiunge poi che per contrastare il
dramma della disoccupazione giovanile sarà previsto in tutti gli
ordini di scuola un monte orario significativo di alternanza
scuola-lavoro. Il giorno seguente l’approvazione alla Camera
dell’articolo 9 del relativo disegno di legge che attribuisce ai
dirigenti scolastici il potere di scegliere gli insegnanti più
consoni alla realizzazione degli obiettivi indicati nel Piano
dell’Offerta Formativa dell’istituto, Repubblica
(19.05.2015) riporta il commento entusiasta della ministra Giannini:
“Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra; vogliamo una
scuola autonoma, responsabile e valutabile. Sono i principi della
sinistra italiana progressista e illuminata che già aveva indicato
Luigi Berlinguer”. Un merito va riconosciuto a Renzi e alla
Giannini: è difficile condensare in così poche parole quello che a
tutti gli effetti si configura come un disastro antropologico di cui
forse manca ancora adeguata consapevolezza.
Che
la politica scolastica della sinistra sia “illuminata” o che
l’alternanza scuola-lavoro sia un antidoto alla disoccupazione
dilagante sono affermazioni talmente grottesche (quella relativa al
lavoro è oggettivamente insultante) da porre l’interrogativo di
come sia possibile che simili sciocchezze possano essere pronunciate
da personaggi che determinano la vita collettiva senza che ci siano
reazioni adeguate, quantomeno della gran parte del ceto intellettuale
e accademico uso a declamare il “valore della cultura” senza
trarne mai vere conseguenze politiche.
Progresso
“illuminato” e “minorità intellettuale”
Andiamo
per ordine e riflettiamo sul significato di questi principi di
sinistra che secondo la Giannini e non solo sarebbero “progressisti
e illuminati”.
“Illuminati”
rimanda ai Lumi della ragione quindi a quella fase della storia in
cui è in corso la transizione da una società feudale ormai
storicamente esaurita ad una società borghese, quando
modernizzazione e cambiamento significavano emancipazione da vincoli
e tradizioni oppressive, dal conservatorismo delle aristocrazie e
della Chiesa per affermare un’idea di uomo, società e progresso
davvero liberatoria. L’Illuminismo riflette sul piano culturale una
fase di vero progresso dell’uomo. Ma che cos’è l’Illuminismo?
Questa domanda fu posta anche a Immanuel Kant il quale nel 1784
scrisse appunto l’articolo Risposta alla
domanda: che cos’è l’illuminismo? di cui
questo è il celebre inizio: “L’illuminismo
è l’uscita dell’uomo dalla minorità della quale è egli stesso
colpevole. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio
intelletto se non sottomettendolo a un potere esterno. […] Tra
tutte le forme di minorità intellettuale la più umiliante per
l’uomo e dannosa per il progresso è la minorità in materia
religiosa.” Siamo alla vigilia della
Rivoluzione francese, in un’epoca in cui la religione e la Chiesa
sono ancora poteri direttivi cui render conto, perché oltre a dar
fondamento ideologico ai rapporti di produzione feudale, la religione
improntava di sé l’intera società, i costumi, la morale, la
tradizione ecc... Ecco che allora Kant rivendica il diritto della
ragione all’autonomia, cioè a non essere subordinata a poteri
esterni che la condizionino: “avvalersi dell’intelletto”
significava e significa una ragione non asservita a interessi e
comandi di un “potere esterno” di qualunque natura esso sia. Da
ciò si evince che Kant avrebbe portato ad esempio di “minorità
intellettuale” i cosiddetti principi progressisti e illuminati
della sinistra italiana. Com’è possibile, si potrebbe obiettare,
che l’autonomia della scuola, bandiera della sinistra, sia
espressione di minorità intellettuale? L’autonomia della scuola
sarebbe vero progresso se intesa nel senso di rendere la scuola
autonoma nella sua opera di promozione culturale, quindi se la scuola
non fosse subordinata a logiche politiche o economiche per loro
natura estranee alla dimensione culturale nel senso proprio del
termine. Diversamente l’autonomia scolastica inaugurata dalla
sinistra con la legge Bassanini del 15 marzo 1997 e poi con la
riforma di Luigi Berlinguer (in merito si veda l’ articolo Sulla
scuola: parliamoci chiaro)
è la negazione dell’autonomia culturale delle scuole, perché si
sostanzia nel loro asservimento alle esigenze della sfera produttiva
e della logica di mercato. L’intelletto (o quel che rimane di esso)
è utilizzato dai riformatori di sinistra e di destra allo scopo di
subordinare l’istituzione scuola e quindi la formazione dei giovani
alle istanze di un potere esterno che non ha neanche più l’autorità
e il volto di Dio come al tempo di Kant, ma il volto anonimo di un
Mercato che di tutte le attività umane riconosce solo quelle
riconducibili al vendere e consumare.
I
postulati del neoliberismo
Questo
modo di intendere l’autonomia scolastica nella forma caricaturale
dell’azienda, è logica conseguenza nello specifico settore
dell’istruzione delle due fondamentali premesse-postulato della
cosiddetta globalizzazione, o, se si preferisce, dell’attuale fase
storica che stiamo vivendo. Postulati talmente condivisi nella sfera
politica (non solo italiana) da rendere ormai ininfluente la
distinzione tra governi di destra o di sinistra. Primo postulato:
riduzione di ogni attività umana ad attività economica, intendendo
l’attività economica come sinonimo di attività aziendale operante
in un quadro di competitività globale. Secondo postulato: assunta
come dato di natura la competitività globale, ne segue che le
risorse disponibili devono essere impiegate allo scopo di creare le
condizioni per realizzare profitti aziendali o di altra natura. È
dunque legittimo parlare di innovazione e modernizzazione solo per
“riforme” che si presume possano promuovere tali convenienze. Il
sottinteso (falso) è che promuovendo tali convenienze si creino
anche opportunità di lavoro per i sudditi. E poiché il mercato e le
aziende hanno bisogno di lavoratori adattabili, convinti che il loro
destino dipenderà dalle individuali capacità di intraprendere, ecco
che la scuola è chiamata a forgiare l’individuo competitivo e
adattabile. In quest’ottica è del tutto ovvio che “Tanto
tempo a scuola non serve: la crisi di competitività dei nostri
giovani risiede in fattori molteplici che rendono la formazione del
capitale umano italiano più debole di quella di altri Paesi”
(Italia oggi
29.10.2013). Meno anni e meno tempo seduti sui banchi a studiare
Dante e Petrarca e immersione nella concretezza del mercato e
dell’impresa per forgiare il giovane “imprenditore di se stesso”
di berlingueriana memoria: questo è l’approdo dell’Italia
“superpotenza culturale” evocata da Renzi, in piena e rivendicata
coerenza con l’autonomia scolastica così com’è stata concepita
dalla sinistra italiana e dalle forze sindacali a essa legate. Quello
che Kant avrebbe portato ad esempio di “minorità intellettuale”,
oggi, diversamente, è possibile sbandierarlo come conquista
progressiva. C’è una spiegazione storica: in questi ultimi
trent’anni il potere economico-finanziario, asservita la politica,
ha ridisegnato il mondo e il modo di vivere e di pensare a propria
immagine e somiglianza, inaugurando una fase storica che non ha
precedenti, quella del totalitarismo aziendalistico-finanziario.
Detto in altri termini, come scrive Stefano Azzarà nel suo libro
Democrazia cercasi
(Imprimatur Editore, 2014) “…la parte più forte della società
capitalistica si è ripresa con gli interessi tutto ciò che le era
stato strappato in centocinquant’anni di storia del movimento dei
lavoratori”. La trasformazione della cultura e della mentalità
dominante in chiave di un individualismo aggressivo e competitivo è
stata ormai interiorizzata anche da chi sta in basso, al punto da
creare una sorta di complicità tra chi è oppresso e chi opprime:
assistiamo così all’inedito fenomeno dei topi che votano per i
gatti. Chi sta in alto si è dunque ripreso tutto, anche la scuola.
Non è stato compito agevole traghettare l’istituzione scuola nella
forma azienda: l’azienda è una cellula della produzione che nasce
e cresce in funzione della realizzazione di fini economici,
essenzialmente privati, mentre la scuola è tale se opera nel quadro
della formazione culturale critica, spirituale e civica. Poiché
un’istituzione funziona adeguatamente se la sua organizzazione è
congrua al fine che le è proprio, la “scuola-azienda” è un
ossimoro così come il “ghiaccio bolle”. Questo esito
culturalmente catastrofico, però, è logica conseguenza
dell’assunzione dogmatica delle premesse-postulato di cui si è
detto sopra: se assumo i postulati e gli assiomi della geometria
euclidea, non posso poi protestare per i teoremi che ne conseguono.
Totalitarismo
politico e totalitarismo liberista
Negli
anni Trenta del secolo scorso, durante il Ventennio fascista, intento
del regime era di “forgiare il giovane italiano” e a tale scopo
sulla scuola piovevano prescrizioni asfissianti anche su come
illustrare le pagelle scolastiche, i registri di classe ecc. … con
immagini che celebrassero il regime. Nell’edizione del 1936 del
Libro di Stato, costellato di camice nere, balilla e piccole italiane
protagoniste delle imprese del fascismo, si domanda “Romolo
fondò Roma 753 anni avanti Cristo; la Marcia su Roma è avvenuta nel
1922 dopo Cristo. A quanti anni di distanza si sono verificati i due
fatti?”. L’elenco delle amenità potrebbe
essere lungo ed esilarante. Si badi bene però: questo intento di
forgiare il giovane italiano attraverso prescrizioni di tal fatta, ai
nostri occhi pare demenziale perché siamo fuori da quella corrente
storica, mentre nel contesto dei fascismi dell’epoca ai più
appariva naturale e scontato. A ciò si aggiunga che in quell’epoca
il totalitarismo aveva veste politica nel senso che la genesi
politica di quelle “leggi” era palese, quindi ben riconoscibile.
Oggi, diversamente, il totalitarismo ha la sua genesi nelle apparenti
“leggi” anonime del mercato e del profitto per cui si richiedono
più mediazioni culturali per vederne le ricadute sulla vita sociale,
sulle istituzioni, sulla scuola, sanità, sport, informazione,
ricerca scientifica ecc… . Con occhio storico decentrato, comunque,
le prescrizioni che impongono agli istituti scolastici di progettare
se stessi in funzione delle esigenze del tessuto produttivo del
territorio sono grottesche e nella loro essenza analoghe a quelle del
fascismo.
Da
Figli della Lupa
a Figli del Mercato
Emblematico
e più incisivo di qualsiasi argomentazione è l’episodio cui ho
assistito recentemente nella città dove risiedo. In una grande
piazza cittadina, nel pomeriggio, si è svolta una manifestazione di
protesta contro la “Buona scuola” organizzata da tutte le sigle
sindacali, famiglie, studenti, professori… in difesa della scuola
pubblica e del sapere critico; la mattina seguente, in quella stessa
piazza, si tiene una sorta di fiera espositiva i cui protagonisti
sono studenti di Licei e altri istituti della provincia i quali,
accompagnati dai professori, espongono al pubblico in appositi stand
“eco-prodotti” frutto di un comune lavoro di progettazione nel
corso dell’anno. Trattasi di manifestazione che si inquadra nel
progetto nazionale Impresa in azione,
finanziato da imprese, banche di affari internazionali oltre che
dall’Ambasciata americana (!?). Non potendo in questa sede
illustrare per esteso il contenuto e le finalità del “progetto”
- anche se facilmente intuibili - il lettore abbia pazienza e si
documenti reperendo in rete le informazioni necessarie:
http://www.impresainazione.it/partners/.
Al riparo dell’insopportabile retorica dello “sviluppo
sostenibile” questi giovani sono stati addestrati a “fare
impresa” sostenuti da una potente rete di sponsor con selezioni,
esposizioni in fiere varie, servizi e spazi giornalistici garantiti.
Il tutto con l’evidente approvazione dei Collegi docenti delle
rispettive scuole che, pare, siano più di quattrocento. La sera si
rivendica la scuola pubblica, disinteressata e critica, la mattina si
celebra il mercato, per sua natura privato, interessato e acritico.
Certo è che lo spettacolo era degno del ventennio fascista con
studenti rigorosamente in divisa con camicia bianca (anziché nera
perché i tempi cambiano) e targhetta di riconoscimento al petto.
Quei giovani in divisa da manager rampanti sono la replica moderna
dei balilla e degli avanguardisti: non più figli
della Lupa ma figli
del Mercato. A quegli studenti è stato
sottratto tempo di studio, allo scopo di canalizzare la creatività
giovanile non verso la formazione di cittadini consapevoli del mondo
in cui vivono, ma verso l’inganno crudele
dell’autoimprenditorialità, facendo credere che un addestramento
mentale precoce agevolerà il loro inserimento nel mercato del
lavoro.
Scuola
e disoccupazione
Ripetiamolo
ancora una volta. La disoccupazione giovanile è un problema
drammatico e la prima cosa da fare è aver chiaro chi sia il
responsabile di questa infamia. È la scuola o, più credibilmente,
la politica che per definizione ha gli strumenti per intervenire
sull’organizzazione sociale ed economica? La truffa è colossale:
viviamo in un mercato globale che per ridurre i costi di produzione e
il ricorso al lavoro dell’uomo promuove senza tregua innovazione
tecnologica e robotica, promuove gigantesche fusioni, spazza via
diritti e tutele, ricorre alla delocalizzazione per imporre
condizioni di lavoro e di salario indecenti. È una corsa al ribasso
definita a ragione “guerra contro il lavoro” che ha determinato a
livello globale un gigantesco trasferimento di ricchezza dal basso
verso l’alto. In un contesto siffatto se sono cento le persone che
cercano lavoro, il mercato offre trenta posti e nel frattempo si
prodiga per ridurli a venti, per cui settanta o ottanta persone non
trovano lavoro a causa di un mercato che ne assorbe sempre meno.
Quale sarebbe la responsabilità della scuola? Dovrebbe rendere tutti
i giovani super competitivi? Non cambierebbe nulla: trenta
lavorerebbero (da precari e ricattabili) e settanta no. Tra l’altro,
in un’epoca in cui i “mestieri” sono stati spazzati via non si
capisce a quale tipo di lavoro la scuola dovrebbe preparare, quando
quello che si impara la mattina la sera è già “obsoleto”! Una
scuola che educa al lavoro (quale??) è una scuola che non educa alla
cittadinanza, alla consapevolezza dei propri diritti e che esclude
dalla partecipazione alla vita politica. Quindi non è scuola.
Proporre l’alternanza scuola-lavoro come antidoto alla
disoccupazione è un insulto alla ragione, altro che “illuminismo”!
La
stazione di arrivo dell’autonomia: la scuola come Fondazione
La
norma che attribuisce al dirigente il potere di scegliere gli
insegnanti ha suscitato una legittima reazione collettiva di protesta
e indignazione generale. Si rifletta però sulla questione ampliando
lo spettro dell’analisi.
Allo
stato attuale delle cose, le scuole italiane funzionano ancora grazie
soprattutto ai cosiddetti contributi “volontari”, cioè, in
pratica, una tassa imposta alle famiglie con il solito inganno
linguistico (“volontari”?),
tale da consentire allo Stato di scaricare una parte consistente dei
costi dell’istruzione direttamente sulle famiglie. Per questa via
si aggira il dettato costituzionale (Art. 33) secondo il quale “La
Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce
scuole statali per tutti gli ordini e gradi.”:
non è necessario essere costituzionalisti per intendere che è
compito dello Stato provvedere al sistema scolastico nazionale e
reperire le risorse per garantirne il funzionamento.
Nel
documento governativo “La buona scuola”
a suo tempo redatto si mettono nero su bianco principi generali
incompatibili con l’Art. 33. Si afferma testualmente al punto 6.2
titolato “Le risorse private”: “Le
risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze
di investimenti nella nostra scuola” e si
auspicano interventi legislativi per trasformare le scuole in
Fondazioni o in enti con autonomie patrimoniali in modo che “per
le scuole deve essere facile, facilissimo ricevere risorse. La
costituzione in una Fondazione, o in un ente con autonomia
patrimoniale, per la gestione di risorse provenienti dall’esterno,
deve essere priva di appesantimenti burocratici”.
Ricordiamo che le Fondazioni sono istituzioni mediante le quali i
privati perseguono scopi collettivi: i privati, dunque, non lo Stato.
Se un istituto scolastico assume lo stato giuridico della Fondazione,
rendendo compiuta l’autonomia scolastica (come giustamente
rivendica Renzi), è del tutto ovvio e conseguente che a chi dirige
la Fondazione siano attribuiti poteri congrui alla gestione di un
istituto il cui progetto formativo è strettamente intrecciato e
dipendente, anche per le risorse economiche, dai poteri territoriali
locali. Se è così – ed è così - è coerente che il dirigente si
scelga la “squadra” di insegnanti più consona alla realizzazione
di tale progetto. Ancora una volta la protesta si indirizza non sulla
premessa-postulato, ma sulle conseguenze ovvie di quella premessa.
Non mi risulta che la questione della trasformazione delle scuole in
Fondazioni, o in analogo statuto, sia stata sollevata in termini
dirimenti, eppure è la madre di tutte le altre questioni.
Una
proposta: sciopero nazionale dei contributi volontari
Da
quando è stata inaugurata la scuola dell’autonomia sono state
prodotte tante analisi accurate sulla trasformazione genetica della
scuola, così come tante sono state le proteste e le manifestazioni
che hanno visto protagonisti i docenti, gli studenti e anche le
famiglie. Questa mobilitazione intellettuale e sociale, però, non ha
mai condizionato nella sostanza il progetto di cui si è detto; nelle
scuole non sono mai stati messi in discussione, con pratiche
incisive, i meccanismi attraverso cui questo gigantesco progetto di
disarticolazione del sistema statale dell’istruzione prendeva
corpo. Anzi, diciamoci la verità: c’è stata, complessivamente,
collaborazione da parte di tutte le componenti del mondo scolastico.
Che sia stata collaborazione attiva o passiva, consapevole o
inconsapevole non modifica lo stato delle cose. Ora arriva il conto e
come si può intuire il tempo delle analisi è scaduto.
Che
fare, allora, oltre a manifestare il dissenso con sacrosante proteste
e scioperi? Ad esempio è ormai costume che le famiglie, per
sostenere le spese della scuola frequentata dai propri figli,
prendano iniziative per l’acquisto di materiali vari o concordino
di fare la spesa in quei supermercati che in cambio si impegnano a
“regalare” carta o qualche PC alla scuola. Quest’apparente
buonismo - che sotto altre forme anima purtroppo anche parte del
corpo docente - è il segnale che chi sta in alto ha stravinto,
perché ha fatto interiorizzare a chi sta in basso un’idea di
scuola analoga a quella della Caritas. Come ultimo atto di resistenza
culturale, civile e democratica che possa davvero incidere, famiglie,
docenti e studenti potrebbero ad esempio promuovere uno sciopero
nazionale dei contributi volontari, rifiutandosi di pagare, in nome
della Costituzione, un prelievo coatto sui redditi delle famiglie. Si
obietterà: così le scuole in pratica chiudono! Appunto: è la
verifica sperimentale di quanto detto sopra. Si proceda allora alla
modifica della Costituzione così, almeno, il dibattito ne guadagnerà
in chiarezza.
Scusami Marino. Non volevo tornare a rompere le palle ma, quando leggo:
RispondiElimina"Questo esito culturalmente catastrofico, però, è logica conseguenza dell’assunzione dogmatica delle premesse-postulato di cui si è detto sopra: se assumo i postulati e gli assiomi della geometria euclidea, non posso poi protestare per i teoremi che ne conseguono".
non resisto e ti chiedo:
"noi, invece, da quali postulati partiamo"?
ciao! ^_^
carlo (quello del flauto)
Quando dice che la scuola è l'antidoto alla disoccupazione, il governo scade nel grottesco, certo, ma nel contempo addita all'opinione pubblica un capro espiatorio. Le sue politiche obbedienti alle indicazioni della UE aumentano la disoccupazione per sanare gli squilibri delle partite correnti; è naturale che si preoccupi anche di allontanare i sospetti e indicare un colpevole. Nello stesso tempo fa credere che l'inefficienza della scuola sia effetto non della riforma, che come ricorda giustamente Fabio, si avvicina ormai ai vent'anni, ma della mancata riforma - proprio come il disastro dell'Italia è imputato non alle riforme, ma alla riforme non fatte. Invece no. La riforma c'è stata, e gli insegnanti l'hanno accettata: la scuola-azienda c'è già. Il suo lato più distruttivo è la trasformazione dell'alunno in cliente. Poiché il cliente in quanto tale acquista, non lavora, all'alunno non è più richiesta fatica: i nuovi metodi richiesti agli insegnanti sono quelli che esentano gli alunni dal ripetere, dall'esercitarsi. Così si finisce alla scuola pubblica anglosassone, dove pare che si inizi a studiare al dottorato. - La domanda di Carlo sembra presupporre che la scuola di oggi non sia il frutto della riforma, che vada male perché non sia più adeguata ai tempi, che quindi ci sia bisogno di postulati per fare la riforma giusta. Non è così. Occorre annullare la riforma dell'autonomia, restituire all'alunno la sua natura di LAVORATORE e fare quello che si è sempre fatto: elevarlo gradualmente al linguaggio e alle scienze.
RispondiEliminaGrazie della risposta Paolo. Quindi, diciamo, tornare a far essere lo studente un lavoratore piuttosto che un cliente (ma potrebbe anche venir da usare la parola "cosumatore" di un "servizio scolastico"?)
RispondiEliminaOK. Però questo "lavoro" che dovrebbe far di noi -studenti o meno- "lavoratori" alla perfine che cos'è? :)