(M.B.)
Scuola, concorrenza, meritocrazia
Massimo Bontempelli
Dissentiamo con forza dal contenuto degli articoli di Michele Boldrin che vengono pubblicati, con una certa regolarità, sul “Fatto quotidiano”. Si tratta infatti, con tutta evidenza, di un signore allevato in quell'area conformista dell'accademia anglosassone, in cui si scambiano per realtà alcune astrazioni matematiche tratte dagli aspetti più superficiali del funzionamento dei mercati, e si scambiano per conoscenza saperi che hanno per oggetto segmenti isolati ed astratti della realtà. I risvolti storici, sociologici, di vita concreta e persino macroeconomici, delle questioni affrontate sono completamente ignorati. C'è poi negli articoli di Boldrin la presunzione di poter parlare ex cathedra di cose non conosciute, ma di cui si crede di avere un sapere esaustivo perché lo si è tratto dall'accademia.
Ci limitiamo qui a discutere quanto Boldrin ha detto sul problema della scuola nell'articolo sopra citato. I suoi ragionamenti su merito e concorrenza non sono solo ridicoli, ma anche eticamente riprovevoli. Dice infatti Boldrin che la concorrenza, mediante il mercato, è una gara sempre aperta, in cui anche se si è perso si può continuare a concorrere perché le gare aperte si susseguono continuamente, ed in ciascuna solo chi arriva ultimo è perdente, perché tutti gli altri, anche se non sono primi, ci guadagnano qualcosa. Peccato che gli operai di Pomigliano non leggano questi articoli, perché altrimenti capirebbero che, anziché resistere allo schiavismo di Marchionne, potrebbero mettersi a competere con lui e tra loro nella produzione di automobili, per la quale hanno tutte le competenze. L'articolo sembra ignorare il fatto che la possibilità di concorrere nel mercato presuppone quasi sempre risorse di vario tipo che si traggono dalla famiglia e dall'ambiente da cui si proviene. Non tener conto di questo è eticamente riprovevole perché significa colpevolizzare i perdenti nel mercato, inducendo loro l'idea falsissima che hanno perduto perché non sono stati abbastanza capaci. Viene ignorato anche l'altro fatto che la concorrenza produce sempre più beni inutili o addirittura nocivi, e distorce un sano orientamento psicologico delle persone. Come è stato detto, anche nei casi in cui produce le merci migliori, produce gli uomini peggiori. Certo, gli acuti economisti educati a una certa scuola anglosassone quando vedono le distorsioni prodotte dalla concorrenza dicono che quella non è la vera concorrenza, esattamente come alcuni comunisti disposti a riconoscere le malefatte dell'Unione Sovietica dicevano che quello non era il vero comunismo. Peccato che la concorrenza cosiddetta pura che si trova nei manuali dei cantori del cosiddetto libero mercato, a partire dal lontano Walras, proprio come il vero comunismo sognato dai comunisti utopici, non sia mai esistita nella storia. Nessun Boldrin che sapesse la storia potrebbe citare una sola regione del mondo di un solo tempo storico in cui sia esistita la concorrenza pura. La concorrenza concretamente esistente non è mai stata l'asettica concorrenza su costi e prezzi di cui parlano i corifei del cosiddetto libero mercato, ma è sempre stata condotta con tutti i mezzi, legali o illegali, disponibili nella società in cui si è svolta, tanto è vero che è stato anche proposto da diversi autori di modificate l'espressione «libero mercato» con quella più esatta di «mercato deregolamentato». Se non si viene da un altro pianeta, quando si parla della concorrenza, bisogna tener conto di quella realmente esistente. Nell'articolo sulla scuola, Boldrin, parlando della formazione che la scuola dovrebbe dare, non ha menzionato né l'educazione alla cittadinanza, né la conoscenza razionale della realtà storica in cui si vive, né la trasmissione da una generazione all'altra di fondamentali valori collettivi, cioè ha eliminato tutto l'essenziale, per ripiegare su un'angusta concezione pragmatica del sapere tipicamente anglosassone. Ha poi detto, scadendo nel ridicolo, che il successo formativo di una scuola può essere misurato, e che gli elementi che lo misurano sono le prove positive nei test standardizzati delle scuole successive e il successo poi ottenuto nei percorsi della vita. Quanto ai test, Boldrin ignora evidentemente la montagna di critiche che sono state argomentativamente rivolte al sistema dei test. Quanto al successo, dalla sua tesi si potrebbe dedurre che le migliori scuole italiane del dopoguerra erano quelle dei Salesiani frequentate da Silvio Berlusconi, il quale, come è noto, è l'uomo che ha avuto il massimo successo in Italia sia come imprenditore che come politico (e si potrebbero fare molti altri esempi simili). Anche sotto questo aspetto si può vedere come certe tesi, al di là della loro vacuità conoscitiva, siano anche eticamente riprovevoli. Infine, viene auspicato, come mezzo per migliorare l'istruzione, l'affidamento delle scuole a cooperative di insegnanti. Un'idea simile emerse in Italia, come è noto, all'indomani della legge Bassanini del 15 marzo 1997, il cui articolo 21 sembrava lasciare spazio anche ad una evoluzione verso un esito di tale tipo. Furono portate allora argomentazioni di ordine sociologico che dimostravano come una simile soluzione avrebbe avuto esiti profondamente negativi sulla trasmissione culturale nelle scuole, argomenti di cui il lettore dell'articolo è tenuto totalmente all'oscuro, e su cui pure esistono diversi buoni libri pubblicati negli ultimi anni del secolo scorso.
L'articolo di Boldrin mostra, una volta di più, come l'ideologismo neoliberista non abbia contatti con la realtà concreta. E non è affatto un caso, tra l'altro, che nessuno degli economisti neoliberisti, anglosassoni e non, abbia previsto la crisi mondiale, di cui avevano invece visto tutti i prodromi alcuni economisti meno ideologizzati. Per dei sostenitori di una concezione pragmatica del sapere non c'è male!