Seconda parte del mio saggio del 2007 sul linguaggio della sinistra radicale. La prima parte è qui.
(M.B.)
6.
Continuando ad esaminare le discussioni relative alla “piccola crisi” del governo Prodi, leggiamo un articolo di Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione alla Camera, pubblicato sul Manifesto.
Gennaro Migliore “Noi non vogliamo mollare. E voi?” (Il Manifesto 01-03-07).
“Quanto siete disposti a cedere in nome del governo? Quanto siete disposti a cambiare? Quanto siete già cambiati?”.
Sono queste, grossomodo, le domande che hanno circondato l’azione politica del mio partito nel corso degli ultimi eventi. Domande che ci hanno interrogato da più parti: dalle pagine dei giornali, borghesi o radicali, come dalle singole voci dei militanti o dei tanti uomini e donne che abbiamo incontrato all’indomani del trauma simbolico e concreto dell’interruzione, o meglio, della strana crisi del governo Prodi. Domande che hanno tradotto la volontà diffusa di esorcizzare un dato di realtà, facendo addirittura smarrire o, come nell’articolo di Ida Dominijanni sul Manifesto di sabato scorso, lasciando sullo sfondo la materialità del passaggio di fronte al quale ci troviamo
Il secondo governo Prodi si è formato in virtù di due condizioni essenziali: ha raccolto il diffuso sentimento contro Berlusconi e le destre; ha provato ad interpretare le domande e le esperienze di differenti soggettività manifestatesi nella lunga stagione dei movimenti, passando attraverso le primarie e raccontandosi nelle quasi trecento pagine del programma dell’Unione. Ecco, credo, se non ci fosse stata la seconda condizione il solo antiberlusconismo non avrebbe retto alle urne, il precario equilibrio numerico che, fin dai dati elettorali (al Senato la CdL ha preso più voti dell’Unione e solo grazie alla legge elettorale si è verificato uno stretto margine di vantaggio in seggi) ci ha detto che c’era una grande resistenza ai propositi di cambiamento dl centrosinistra. Non avrebbe retto e avrebbe lasciato lo spazio necessario al ritorno dei vecchi riti democristiani: larghe intese, governo istituzionale, grande coalizione e chi più ne ha più ne aggiunga.
Rifondazione è stata parte fondamentale della seconda condizione, ovvero del tentativo di costruire lo spazio pubblico in cui la politica si deve cimentare con la sua fonte di legittimazione, deve (o dovrebbe) uscire dal palazzo. E’ sicuramente questo il motivo per cui siamo così invisi alle mosche cocchiere del “riformismo”, a quelli che “la politica è una cosa seria, lasciateci lavorare”.
Le domande, talvolta le intimazioni, che vengono dalla sinistra le trovo fondate su argomentazioni che contestano questo nostro tentativo di fondo. Sia quelle che provengono da una cultura frontista, in cui il “sacrificio” del governo è, a mio modo di vedere, un’inutile resa alla realpolitik, sia quelle che ci descrivono come “antropologicamente incompatibili” con questa contraddizione.
Fra costoro c’è il mio vecchio compagno di partito Turigliatto. A Franco non contesto, come fanno in tanti, le sue convinzioni, ma l’aver impedito che le nostre democratiche decisioni avessero un effetto concreto. Gli contesto di aver rotto un patto di solidarietà e di aver stravolto il corso di una decisione che la comunità alla quale apparteneva aveva preso, non certo a cuor leggero. Quando c’era il Pci, voi del manifesto dovevate tacere, sparire dal dibattito. Esagerare nei paragoni rende caricaturali le critiche. Qui è la decisione di un singolo che rende diversa l’azione di tutti gli altri.
Ma in conclusione, sono io a fare qualche domanda. Vale o no la pena di provare a cambiare la politica oggi? E’ proprio poco aver contribuito ad un clima nel quale nessuno sta zitto e alla crescita di una grande domanda di partecipazione? Durante il primo governo Prodi, quello del 96, i sindacati erano paralizzati e di movimenti neanche l’ombra. Oggi c’è la Fiom nella manifestazione del 4 novembre. Ci sono tutti i sindacati che, nel mezzo della crisi, ci fanno sapere che le pensioni non si possono massacrare. Ci sono i comitati di Vicenza (a proposito, lì c’era scritto “Prodi ripensaci” e non “Prodi vattene”) e quelli della Valle Susa. Noi stiamo lì in mezzo, senza prendere parola per altri, ma cercando di passare dalla rappresentazione alla espressione della soggettività. Senza dubbio siamo “impigliati” in questo tentativo: rompere la dicotomia non già tra partiti e movimenti o tra puri e compromessi, ma tra alto e basso, tra inclusi ed esclusi. Abbiamo preso i 12 punti consapevoli della difficoltà. Non vogliamo mollare. E voi?
Analizziamo ora passo per passo il contenuto di questo articolo.
“Quanto siete disposti a cedere in nome del governo? Quanto siete disposti a cambiare? Quanto siete già cambiati?”.
Sono queste, grossomodo, le domande che hanno circondato l’azione politica del mio partito nel corso degli ultimi eventi. Domande che ci hanno interrogato da più parti: dalle pagine dei giornali, borghesi o radicali, come dalle singole voci dei militanti o dei tanti uomini e donne che abbiamo incontrato all’indomani del trauma simbolico e concreto dell’interruzione, o meglio, della strana crisi del governo Prodi. Domande che hanno tradotto la volontà diffusa di esorcizzare un dato di realtà, facendo addirittura smarrire o, come nell’articolo di Ida Dominijanni sul Manifesto di sabato scorso, lasciando sullo sfondo la materialità del passaggio di fronte al quale ci troviamo.
Le domande che “hanno circondato” Rifondazione non sono certo quelle che elenca Migliore, ma sono piuttosto del tipo: “e la base di Vicenza? E la guerra in Afghanistan?”. Sono cioè domande che vogliono risposte sulle scelte concrete fatte dal governo di cui fa parte Rifondazione, domande che esprimono il problema fondamentale sopra enunciato. Si tratta di domande semplici e, queste sì, molto materiali. Migliore comincia col rimuoverle, assieme al problema fondamentale, così da ridurre ogni questione ai problemi interni al ceto politico, gli unici che gli interessano.
Il secondo governo Prodi si è formato in virtù di due condizioni essenziali: ha raccolto il diffuso sentimento contro Berlusconi e le destre; ha provato ad interpretare le domande e le esperienze di differenti soggettività manifestatesi nella lunga stagione dei movimenti, passando attraverso le primarie e raccontandosi nelle quasi trecento pagine del programma dell’Unione. Ecco, credo, se non ci fosse stata la seconda condizione il solo antiberlusconismo non avrebbe retto alle urne, il precario equilibrio numerico che, fin dai dati elettorali (al Senato la CdL ha preso più voti dell’Unione e solo grazie alla legge elettorale si è verificato uno stretto margine di vantaggio in seggi) ci ha detto che c’era una grande resistenza ai propositi di cambiamento dl centrosinistra. Non avrebbe retto e avrebbe lasciato lo spazio necessario al ritorno dei vecchi riti democristiani: larghe intese, governo istituzionale, grande coalizione e chi più ne ha più ne aggiunga.
Migliore introduce un po’ di banalità, del tipo: per vincere le elezioni non basta dire che il proprio avversario è cattivo, ma è bene anche proporre qualcosa. Oppure: se circa metà dell’elettorato vota per gli altri vuol dire che “c’era una grande resistenza” a votare per te. O ancora: se le elezioni non ci avessero dato la maggioranza in Parlamento ci sarebbero state cose come le larghe intese o il governo istituzionale. Si tratta di discussioni tutte interne al ceto politico e che non toccano in nessun modo i problemi reali.
Rifondazione è stata parte fondamentale della seconda condizione, ovvero del tentativo di costruire lo spazio pubblico in cui la politica si deve cimentare con la sua fonte di legittimazione, deve (o dovrebbe) uscire dal palazzo. E’ sicuramente questo il motivo per cui siamo così invisi alle mosche cocchiere del “riformismo”, a quelli che “la politica è una cosa seria, lasciateci lavorare”.
Dentro o fuori il palazzo, a chi importa? La politica deve rispondere alle domande: fai la guerra oppure no? Fai la base a Vicenza oppure no? Ma Migliore parla d’altro, si dedica alle polemiche interne al ceto politico-giornalistico dei palazzi romani. Quanto più parla di uscire dal palazzo, tanto più ne è interno.
Le domande, talvolta le intimazioni, che vengono dalla sinistra le trovo fondate su argomentazioni che contestano questo nostro tentativo di fondo. Sia quelle che provengono da una cultura frontista, in cui il “sacrificio” del governo è, a mio modo di vedere, un’inutile resa alla realpolitik, sia quelle che ci descrivono come “antropologicamente incompatibili” con questa contraddizione.
Di cosa sta parlando? Probabilmente, ancora, di polemiche interne al mondo politico-giornalistico romano. Della realtà, nemmeno l’ombra.
Fra costoro c’è il mio vecchio compagno di partito Turigliatto. A Franco non contesto, come fanno in tanti, le sue convinzioni, ma l’aver impedito che le nostre democratiche decisioni avessero un effetto concreto. Gli contesto di aver rotto un patto di solidarietà e di aver stravolto il corso di una decisione che la comunità alla quale apparteneva aveva preso, non certo a cuor leggero. Quando c’era il Pci, voi del manifesto dovevate tacere, sparire dal dibattito. Esagerare nei paragoni rende caricaturali le critiche. Qui è la decisione di un singolo che rende diversa l’azione di tutti gli altri.
Che cosa ha fatto Turigliatto? Migliore non lo dice. Per farlo, dovrebbe pronunciare la parola “Afghanistan”, che lui e tutti i sostenitori del governo in questa vicenda evitano come la peste. Allora ricordiamolo noi. Turigliatto ha ha fatto mancare il suo voto sulla politica estera del governo, come protesta contro tale politica, con particolare riferimento alla guerra in Afghanistan. Per discutere quello che ha fatto Turigliatto bisognerebbe allora discutere della guerra in Afghanistan. Ma Migliore se ne guarda bene. L’imperativo è di parlare d’altro, e di parlare di cose che non interessano a nessuno se non al ceto politico: rompere il patto di solidarietà, stravolgere il corso della decisione, ecc. Cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che Turigliatto ha votato contro l’indicazione del partito, e che per non “rompere il patto di solidarietà” e non “stravolgere il corso della decisione” doveva votare come diceva il partito. Il che, ridotto in soldoni, vuol dire semplicemente che, secondo Migliore, i parlamentari di Rifondazione devono votare secondo le indicazioni del partito. Posizione del tutto legittima, ma detta così, in maniera chiara e semplice, suona un po’ troppo stalinista, e allora la sostanza concreta di quello che dice Migliore deve essere annegata in un po’ di chiacchiere.
E’ poi incomprensibile il discorso sul “manifesto” fatto alla fine di questo passaggio. Forse, interpretando, Migliore vuol dire che le critiche fatte a Turigliatto nel PRC per il suo non-voto non devono essere paragonate all’espulsione del gruppo del “manifesto” dal Pci nel ‘69. Se è questo che Migliore vuol sostenere, non sarebbe stato male che lo argomentasse. Ma argomentare, ragionare, rispettare logica, buon senso e linguaggio non sono cose che un politico possa fare.
Ma in conclusione, sono io a fare qualche domanda. Vale o no la pena di provare a cambiare la politica oggi? E’ proprio poco aver contribuito ad un clima nel quale nessuno sta zitto e alla crescita di una grande domanda di partecipazione? Durante il primo governo Prodi, quello del 96, i sindacati erano paralizzati e di movimenti neanche l’ombra. Oggi c’è la Fiom nella manifestazione del 4 novembre. Ci sono tutti i sindacati che, nel mezzo della crisi, ci fanno sapere che le pensioni non si possono massacrare. Ci sono i comitati di Vicenza (a proposito, lì c’era scritto “Prodi ripensaci” e non “Prodi vattene”) e quelli della Valle Susa. Noi stiamo lì in mezzo, senza prendere parola per altri, ma cercando di passare dalla rappresentazione alla espressione della soggettività. Senza dubbio siamo “impigliati” in questo tentativo: rompere la dicotomia non già tra partiti e movimenti o tra puri e compromessi, ma tra alto e basso, tra inclusi ed esclusi. Abbiamo preso i 12 punti consapevoli della difficoltà. Non vogliamo mollare. E voi?
E’ importante capire quello che Migliore ci dice in questo passaggio. Egli ci dice che ciò che conta è che la gente protesti. Non che ottenga quello per cui protesta. Egli ci ricorda, per esempio, che ci sono i comitati di Vicenza. Bene, solo che essi chiedono di non fare la base, mentre il partito di Migliore fa parte di un governo che ha deciso di fare la base. Per Migliore questo è un dettaglio trascurabile. Infatti, ha a che fare con la realtà, e Migliore fa di tutto per allontanare la realtà.
È vero che alla manifestazione di Vicenza i comitati contro la base dicevano “Prodi ripensaci” e non “Prodi vattene”. Solo che Prodi non ci ha ripensato. La conseguenza ovvia la trae Cinzia Bottene, portavoce dei comitati contro la base: “l’unica cosa che si merita questo governo è di farsi mandare a casa” [9]. Ma Cinzia Bottene non è una politica, quindi può permettersi il lusso di ragionare. Migliore no, non può permettersi di produrre dei ragionamenti, deve produrre rumore molesto per impedire a chi lo legge di ragionare.
Alla fine di questo tour de force nel quale Migliore riesce a non pronunciare mai le parole “Afghanistan” o “base militare”, ci si può dedicare alle innocue frasi deliranti del tipo “cercare di passare dalla rappresentazione alla espressione della soggettività”. Il più è fatto, l’articolo è finito, l’Afghanistan è rimasto ben lontano, non s’è detto nulla, possiamo concludere. “Non vogliamo mollare”. Le poltrone, s’intende.
7.
Analizziamo adesso un articolo di Lidia Menapace, pubblicato circa un mese più tardi rispetto ai documenti fin qui esaminati, nel quale la senatrice eletta nelle liste di Rifondazione cerca di motivare il suo voto favorevole alle missioni militari italiane, cioè, in particolare, alla guerra che l’Italia sta conducendo in Afghanistan al seguito degli USA. Trattandosi di una nota esponente del movimento pacifista, essa ha di fronte un problema molto chiaro e semplice, che possiamo chiamare “problema fondamentale 2”:
Problema fondamentale 2: come ci si può dichiarare pacifisti e votare in Parlamento a favore della guerra?
Si tratta ovviamente solo di un’altra forma del problema fondamentale enunciato in precedenza. Di fronte ad un articolo intitolato “Perché voterò sì alla missione” dovremmo aspettarci un esame razionale del problema fondamentale 2. Leggiamo questo articolo.
Lidia Menapace “Perché voterò sì alla missione” (Il Manifesto 23-03-07).
Tra noi sembra talora non correre più parola, ma solo lingua e spesso di grado zero, automatica, meccanica, sicché ad alcune formule magiche segue una catena di espressioni prevedibili, non inventive. Sono invece convinta che la necessità di innovazione simbolica e politica sia oggi massima e rischiosissima: ma il riposante linguaggio degré zero non è meno pericoloso, anzi, e in più non aiuta a capire.
Mi rendo conto che è un inizio predicatorio: amen!
Ma sono così attaccata ad ascoltare tutti i fruscii, a scrutare le crepe, a guardare il minimo increspamento su una superficie di eventi politici tutti gommosi, grigi e insensati, che quasi mi metterei a ribattere con giudizi mali a chi obietta senza avere fatto una minima analisi del reale.
A me sembra -ad esempio- che fiumi di retorica scatenati ogni volta che si accenna a qualsiasi fatto patriottardo dicano -più di molte definizioni dottrinarie- che la cultura militarista e la scelta della guerra hanno fatto molti passi avanti in questi ultimi dieci anni e che la parola della pace è diventata flebile.
Proprio per questo bado in modo ossessivo a qualsiasi crepa si apra nel compatto orizzonte bellico violento razzista prefascista che ci sta a fianco e intorno.
Ad esempio i minimi spostamenti dell’opinione statunitense sono una di queste crepe, e hanno carattere complesso perché mettono insieme pacifisti e veterani, un popolo composito e incerto, ma visibile. Ad esempio la precisa costituzionale protesta di militari germanici è un’altra di altri non sommabili caratteri. E il Libano è una fragile cesura che regge, e ripete e consolida lo jato. E la conferenza di Baghdad e l’annuncio delle conferenza in Afghanistan.
Sono eventi sommabili? No, ma nemmeno sono disomogenei e la costruzione di un tessuto comune è una difficile operazione non immaginaria. Da loro e per questo il Libano è una fragile incrinatura e un argine che consolida la piena, e forse fa sperare che si possa mettere un freno al massacro.
Se insieme in più punti sensibili si palesano crepe e falde e faglie e qualche apertura si vede, credo sia assolutamente necessario aiutarla, assisterla, alitarci intorno: è una cosa preziosa, insidiata.
Se tra noi e il popolo afgano cadessero sangue e vendette, la situazione precipiterebbe in un punto importantissimo.
Ma se, insieme alcuni paesi europei, un po’ di opinione statunitense, una serie di studiosi e analisti, donne afghane, irachene, palestinesi, israeliane, siriane, libanesi inventano una qualche lenta via d’uscita dobbiamo fare di tutto perché le prime movimentazioni che avvengono in vari punti si saldino almeno in qualche angolo e aprano un piccolo varco.
E’ una cosa certa? Di certo non vi è nulla e il rischio è altissimo.
Ma se non ci buttiamo dietro le spalle parole magiche ripetute come giaculatorie e coazioni a ripetere un passato che è rovinoso sia che fosse di vergogna o di gloria, non ce la faremo.
Sembrerà strano, ma è questa la ragione fondamentale per la quale voterò le proposte del governo, in ordine alle missioni e mi butterò a lavorare per tracciare collegamenti, tenere aperte porte, e ponti e colloqui e conferenze, non potrei fare altro, da niente altro potrei concepire una qualche speranza.
Vediamo di analizzare anche questo articolo come abbiamo fatto per il precedente. Teniamo presente che Menapace dovrebbe fornirci qualche chiarimento sul problema fondamentale 2, che è un problema molto chiaro e semplice da enunciare.
Tra noi sembra talora non correre più parola, ma solo lingua e spesso di grado zero, automatica, meccanica, sicché ad alcune formule magiche segue una catena di espressioni prevedibili, non inventive. Sono invece convinta che la necessità di innovazione simbolica e politica sia oggi massima e rischiosissima: ma il riposante linguaggio degré zero non è meno pericoloso, anzi, e in più non aiuta a capire.
Mi rendo conto che è un inizio predicatorio: amen!
Vuoto pneumatico. Di cosa sta parlando? Di discussioni fatte fra “noi”, ma non ci dice chi sono questi “noi”, e nulla si capisce della sostanza di queste discussioni. La stessa Menapace sembra rendersi conto che si tratta di un inizio insensato (lei dice “predicatorio”), ma invece di cancellare e riscrivere va avanti.
Ma sono così attaccata ad ascoltare tutti i fruscii, a scrutare le crepe, a guardare il minimo increspamento su una superficie di eventi politici tutti gommosi, grigi e insensati, che quasi mi metterei a ribattere con giudizi mali a chi obietta senza avere fatto una minima analisi del reale.
Continua a non dire nulla. Però accenna alla “analisi del reale”, e noi non aspettiamo altro.
A me sembra -ad esempio- che fiumi di retorica scatenati ogni volta che si accenna a qualsiasi fatto patriottardo dicano -più di molte definizioni dottrinarie- che la cultura militarista e la scelta della guerra hanno fatto molti passi avanti in questi ultimi dieci anni e che la parola della pace è diventata flebile.
Aspettiamo speranzosi l’analisi del reale. Nel frattempo, scopriamo che la scelta della guerra ha fatto passi in avanti. Non c’è dubbio, grazie anche a chi in Parlamento vota a favore delle guerre.
Proprio per questo bado in modo ossessivo a qualsiasi crepa si apra nel compatto orizzonte bellico violento razzista prefascista che ci sta a fianco e intorno.
Cosa c’entrano il fascismo o il prefascismo (qualsiasi cosa esso sia)? La guerra per la quale Menapace ha votato non ha niente di fascista o di prefascista. Mica è detto che le guerre le fanno solo i fascisti. Ma una botta al fascismo serve sempre a guadagnare qualche simpatia fra il pubblico di sinistra. Bisogna parlare d’altro, distrarre, deviare l’attenzione.
Ad esempio i minimi spostamenti dell’opinione statunitense sono una di queste crepe, e hanno carattere complesso perché mettono insieme pacifisti e veterani, un popolo composito e incerto, ma visibile. Ad esempio la precisa costituzionale protesta di militari germanici è un’altra di altri non sommabili caratteri. E il Libano è una fragile cesura che regge, e ripete e consolida lo jato. E la conferenza di Baghdad e l’annuncio della conferenza in Afghanistan.
Cosa dice Menapace in riferimento al problema fondamentale 2? Ci parla di vari aspetti di rifiuto della guerra nel mondo. Bene, ma qual è il collegamento con il suo voto favorevole alla guerra? Non ci viene spiegato. E’ possibile che intenda dire che il suo voto favorevole alla guerra in qualche modo aiuta, per esempio, il movimento pacifista statunitense? Non si capisce in che modo. Proviamo ad immaginare i pacifisti statunitensi che, alla notizia che il Parlamento italiano ha approvato il proseguimento del coinvolgimento dell’Italia nella guerra in Afghanistan, si congratulano per il grande aiuto che questo dà alla loro lotta. Sembra una scena piuttosto irrealistica. Ma se Menapace non ci spiega in che modo il suo voto favorevole alla guerra aiuta le varie realtà che lei cita, cosa le cita a fare?
Menapace accenna poi alla possibilità di una conferenza di pace in Afghanistan. Si potrebbe allora interpretare che la sua risposta al problema fondamentale 2 sia più o meno come segue: “Menapace vota a favore della partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan perché la nostra presenza in quel paese favorisce la possibilità di una conferenza di pace”. Se è così, allora Menapace dovrebbe fare quella preziosa “analisi del reale” cui sopra si accennava, e cioè spiegarci quali siano realisticamente le possibilità che si faccia una tale conferenza e rispondere alle obiezioni che a tutti possono venire in mente: per esempio, che una conferenza di pace senza i Taliban non ha senso (la pace si fa con chi fa la guerra, non con gli altri), che gli USA non vogliono i Taliban ad una eventuale conferenza, e che non si capisce come l’Italia possa riuscire ad imporre agli USA una conferenza di pace con la partecipazione dei Taliban. Ma Menapace si guarda bene dal parlarci di queste cose concrete. L’analisi del reale continua a latitare.
Sono eventi sommabili? No, ma nemmeno sono disomogenei e la costruzione di un tessuto comune è una difficile operazione non immaginaria. Da loro e per questo il Libano è una fragile incrinatura e un argine che consolida la piena, e forse fa sperare che si possa mettere un freno al massacro.
Menapace ci parla delle sue speranze. Ma a sperare sono capaci tutti, da chi siede nel Parlamento della Repubblica ci si aspetta qualcosa di più.
Se insieme in più punti sensibili si palesano crepe e falde e faglie e qualche apertura si vede, credo sia assolutamente necessario aiutarla, assisterla, alitarci intorno: è una cosa preziosa, insidiata.
E in che modo la guerra in Afghanistan, guerra a favore della quale Menapace ha votato, aiuta la crescita di un movimento pacifista internazionale (perché è di questo che Menapace sta parlando, in modo contorto)? A questa semplice domanda non si può rispondere, quindi Menapace si guarda bene dal farsela.
Se tra noi e il popolo afgano cadessero sangue e vendette, la situazione precipiterebbe in un punto importantissimo.
Eccoci passati dal linguaggio vuoto alla pura e semplice menzogna. “Se fra noi e il popolo afgano cadessero sangue e vendette”: usare questa espressione nel contesto della frase significa ovviamente suggerire che il sangue ancora non sia corso, fra noi e il popolo afgano. Ma è falso. Il nostro esercito, la nostra missione militare, a favore della quale Menapace ha votato, fa parte di un esercito di occupazione che bombarda e uccide [10]. E soldati italiani sono caduti in Afghanistan. Certo, forse nessun soldato italiano ha (ancora) ucciso un civile afgano. Ma questo che differenza fa? Si immagina davvero che chi è invaso faccia differenza fra statunitensi, spagnoli, inglesi o italiani? Se una coalizione degli eserciti dei paesi centroasiatici invadesse l’Italia, uccidesse e bombardasse, qualcuno si preoccuperebbe di sapere se il soldato che gli ha ucciso madre o padre è tagiko, uzbeko o kazako?
Ma se, insieme alcuni paesi europei, un po’ di opinione statunitense, una serie di studiosi e analisti, donne afghane, irachene, palestinesi, israeliane, siriane, libanesi inventano una qualche lenta via d’uscita dobbiamo fare di tutto perché le prime movimentazioni che avvengono in vari punti si saldino almeno in qualche angolo e aprano un piccolo varco.
Menapace svaria sul mondo intero, pur di non parlarci dell’Italia, del Parlamento italiano e di quello che lei fa nel Parlamento. Non è semplicemente in grado di dirci in che modo il votare a favore della guerra in Afghanistan possa aiutare le donne afgane irachene ecc.ecc. Stiamo ancora aspettando l’analisi del reale.
E’ una cosa certa? Di certo non vi è nulla e il rischio è altissimo.
Menapace mette le mani avanti. Se, come è probabile, di tutte queste chiacchiere pacifiste non resterà nulla, mentre l’unica cosa concreta sarà il suo voto favorevole alla guerra, lei non intende assumersi nessuna responsabilità. La situazione è complessa, di certo non vi è nulla, io cosa ci posso fare?
Ma se non ci buttiamo dietro le spalle parole magiche ripetute come giaculatorie e coazioni a ripetere un passato che è rovinoso sia che fosse di vergogna o di gloria, non ce la faremo.
Di cosa sta parlando? Quali parole magiche? Quale passato? Non si sa, meglio lasciare le cose vaghe, fa fine e non impegna. E l’analisi del reale?
Sembrerà strano ma è questa la ragione fondamentale
Ragione? Menapace ci ha fornito finora una sola ragione, cioè una argomentazione ragionevole, a favore delle sue scelte?
per la quale voterò le proposte del governo, in ordine alle missioni
Non può dire, ovviamente, “voterò a favore della guerra”, perché sarebbe imbarazzante come la verità.
E mi butterò a lavorare per tracciare collegamenti, tenere aperte porte, e ponti e colloqui e conferenze, non potrei fare altro, da niente altro potrei concepire una qualche speranza.
La risposta di Menapace al problema fondamentale 2 è dunque “voterò a favore della guerra ma poi lavorerò per la pace”. Che è come dire “mangerò un chilo di cioccolatini al giorno ma poi cercherò di non ingrassare”, oppure “picchierò mia moglie ma poi le porterò un mazzo di rose”. Come analisi del reale, non sembra un granché.
Appare evidente, per concludere, che questo articolo presenta le caratteristiche tipiche del linguaggio ridotto a rumore molesto: scissione con la realtà, assenza di logica, parlare d’altro rispetto ai problemi veri.
8.
Spostiamoci ancora in avanti di qualche mese, ed esaminiamo l’appello lanciato per una “manifestazione unitaria” il 9 giugno a Roma. Ricordiamo che il 9 giugno 2007 G.W.Bush è stato a Roma in visita ufficiale. Una miriade di organizzazioni, movimenti e personalità si sono mobilitate per protestare contro la sua presenza. Si è avuta una divisione fra i coloro che contestavano sia Bush sia Prodi, che hanno sfilato in manifestazione, e coloro che intendevano contestare Bush senza attaccare il governo Prodi, che si sono dati appuntamento in Piazza del Popolo. Quello che esaminiamo è il testo dell’appello che invitava a partecipare a questa seconda manifestazione [11].
APPELLO PER UNA MANIFESTAZIONE UNITARIA CONTRO BUSH
Il prossimo 9 giugno Bush verrà in visita in Italia.
Il Presidente degli Stati Uniti rappresenta, più di ogni altro, la nefasta politica di guerra del governo Usa, un artefice decisivo della teorizzazione e della pratica della “guerra preventiva, infinita e permanente”, che tanta morte, orrore e dominio brutale sui popoli ha già disseminato nel mondo.
Chiediamo che i partiti, i soggetti della sinistra, le associazioni, i movimenti, le organizzazioni del movimento operaio e sindacale, l’intero movimento per la pace, si mobilitino - da qui al 9 giugno - per garantire una grande ed unitaria manifestazione contro Bush e le sue politiche di guerra, che possa favorire una positiva evoluzione delle politiche di governo.
Il movimento per la pace, di fronte alla permanente aggressività del governo Usa e agli aumentati pericoli internazionali, vive una fase difficile e la riuscita unitaria della manifestazione del 9 giugno può rappresentare un motivo di rilancio. Anche rispetto a ciò vogliamo lavorare e vorremmo si lavorasse affinché si costituisca, tra i soggetti diversi del movimento contro la guerra, la massima unità, giungendo ad una manifestazione unica, unitaria e plurale, com’è nella migliore e più efficace tradizione del movimento per la pace.
Vediamo qui all’opera uno degli strumenti principali dello svuotamento del linguaggio tipico dei politici: la rimozione. Gli autori del testo chiamano alla protesta contro Bush e le sue guerre, ma rimuovono completamente il fatto che siamo in Italia, e che il governo italiano sta collaborando alle guerre di Bush. La cosa è completamente assurda. I cittadini di un paese democratico sono responsabili di ciò che fa il proprio governo, non il governo di un altro paese. Se il governo Prodi fa la guerra assieme a Bush, noi, in quanto cittadini italiani, dobbiamo per prima cosa protestare contro il governo Prodi.
Per capire questo punto, facciamo un esempio: supponiamo che negli anni Sessanta del Novecento il Presidente italiano Giuseppe Saragat vada in visita nell’Eire e vi venga accolto da grandi manifestazioni di protesta per il fatto che in Italia le leggi non consentono il divorzio. Proteste più che sensate, visto che tutti oggi consideriamo la legge sul divorzio come uno dei passi di civiltà che ha fatto questo paese. Ma se Saragat scoprisse che neppure nell’Eire c’è il divorzio e che nessuno protesta per questo, cosa dovrebbe pensare dei manifestanti?
Per capire come le posizioni espresse in questo appello offendano la logica, facciamo questa semplice deduzione:
1. Sono contrario alla guerra perpetua di Bush
2. Il governo Prodi collabora alla guerra perpetua di Bush
3. Quindi, sono contrario al governo Prodi.
C’è qualche errore, nel passare da 1 e 2 a 3? A me sembra di no, mi sembra che il passaggio logico sia semplice e incontrovertibile. Ma chi ha scritto quel documento, chi ha voluto la manifestazione “governista” anti-Bush, deve appunto allontanare la mente delle persone dalla semplice logica che abbiamo appena esposto. Deve quindi parlare d’altro. Per prima cosa, occorre non nominare neppure il governo Prodi, che infatti appare solo di sfuggita come critico dell’unilateralismo USA (abbiamo già discusso la sciocchezza di considerare importante il problema dell’unilateralismo contrapposto al multilateralismo). Occorre in particolare non formulare alcuna richiesta nei confronti del governo Prodi. Infatti, la sia pur minima richiesta sensata, in un discorso che si vuole pacifista, sarebbe sempre troppo: il governo non la accetterebbe e bisognerebbe allora protestare contro il governo perché non accetta le nostre richieste. Meglio non farle nemmeno, è più sicuro.
Il passaggio successivo, sempre per distrarre le persone dalla logica elementare che abbiamo descritto sopra, è quello di appellarsi all’unità del movimento pacifista. Ma se si fa sparire l’oggetto primo del contendere politico in una democrazia, cioè il governo del paese, è chiaro che questa unità non ha nessun valore. Unirsi per fare cosa? Una scampagnata nel centro di Roma?
Collegata alla rimozione maggiore vi è quella minore: il documento parla delle difficoltà del movimento pacifista, ma ovviamente deve rimuovere il fatto che tali difficoltà, la vera e propria spaccatura che si è verificata nel movimento, sono legate proprio alla questione cruciale del governo Prodi, dell’atteggiamento da tenere nei suoi confronti.
Infine, dopo le rimozioni, le piccole menzogne: il documento parla infatti dell’”efficacia” del movimento pacifista. Ora, il movimento pacifista avrà tutti i meriti che si vogliono, ma una cosa è certa: non ha mai impedito una guerra, non ha mai neppure ritardato di un solo minuto l’inizio di una qualsiasi delle guerre recenti. Invece di pensare alla sua pretesa efficacia il movimento pacifista dovrebbe riflettere su quali siano i limiti che ne hanno reso così radicalmente inefficace l’azione. Ma per farlo, dovrà per prima cosa liquidare le menzogne e le rimozioni, e allontanarsi da chi se ne fa portatore.
9.
Conclusioni. Gli esempi che abbiamo portato mostrano come le caratteristiche del linguaggio dei politici, il linguaggio come rumore molesto, si ritrovino abbondantemente nel linguaggio della sinistra cosiddetta radicale. La sinistra radicale parla un linguaggio nella sostanza simile a quello del resto del mondo politico, anche se diverso negli aspetti superficiali.
E’ facile la deduzione che la sinistra radicale parla lo stesso linguaggio perché è del tutto omologata alla logica del ceto politico italiano contemporaneo. Questo suggerisce che, come si diceva all’inizio, la rapidissima trasformazione in senso neoliberista e pro-guerra della sinistra radicale non sia che la manifestazione di questa sua omologazione.
Una forza politica che voglia farsi carico dei problemi del nostro paese deve operare un distacco radicale dall’insieme del ceto politico contemporaneo. Una tale forza politica dovrà anche abbandonare il linguaggio vuoto, ridotto a rumore molesto, di tale ceto politico, e tornare a parlare un linguaggio di contenuti e di raziocinio.
[9] Il Manifesto, 15 giugno 2007, p.7.
[10] Gli studiosi seri, ai quali più sotto Menapace accenna, lo sanno bene. "Noi siamo (...) schierati dalla parte degli Usa. Dai quali non siamo in nulla distinguibili (...) non abbiamo una nostra visibilità che ci distingua dagli angloamericani presso la popolazione afghana. Siamo visti solo come Isaf. Ci siamo confusi con gli Usa, che diventano di giorno in giorno più impopolari" (Margherita Paolini, Per non perdere in Afghanistan, in Limes n.3/2007, pp.132 e 135).
[11]
Il
testo si può trovare in vari siti, per esempio al
seguente indirizzo (visitato il 21-06-07):
http://www.lsmetropolis.org/2007/03/08/appello-per-una-manifestazione-unitaria-contro-bush/
http://tonymusings.blogspot.it/2013/02/lord-dorwin-speaks.html
RispondiElimina... omissis
In summation, there was also an incredible amount of waffle, and a lack of focus. It reminded me of the Imperial Functionary, Lord Dorwin, in Isaac Asimov's "Foundation" series, where all the utterances by Lord Dorwin are subjected to logical analysis to ensure that they can eliminate "meaningless statements, vague gibberish, and useless qualifications - in short, all the goo and dribble". The result is that "in five days of discussion, [Lord Dorwin] didn't say one damned thing, and said it so that you didn't notice."
...omissis
Anche se alla fine dice di esser riuscito a trovare qualche brandello di senso si potrebbe forse opinare che il problema non è strettamente italico ma appare d'ordine generale.
Sarà senz'altro come dice @Carlo, nel senso che l'umanità è tale dappertutto, ma qui Badiale voleva far risaltare lo scollamento della nostra (?) sinistra dalla realtà, per far riflettere sul linguaggio/comportamento/habitus mentale che(avevano)/ hanno questi "qui", proprio "costoro" e i loro gruppini o grupponi, in casa nostra.
RispondiEliminaVoleva fa riflettere, credo, su ciò che abbiamo in casa e come e perché guardarcene.
Insomma, questa gente mente, intendendo che non parla della "realtà" - perché ciò porterebbe a dover interrogarsi su una qualche magari opinabile "verità", cioè porterebbe a dover pensare non (solo) a se stessa.
Mente artisticamente, senza dire bugie. e l'analisi dei discorsi conferma, con le ricorrenze (molte) e le variazioni (poche o nulle), che non dice bugie (solo) perché del reale non parla.
Dato che non vorrei anch'io parlare senza dir nulla come i parlatori di cui sopra, chiedo a Badiale e/o a Tringali di indicarmi che cosa e dove potrei aver frainteso, beninteso "a mia insaputa".
"A mia insaputa" è ormai tormentone di sicuro effetto e di poca spesa (tranne una casa o parte di essa), può applicarsi a qualunque cosa e fa apparire perfino candidi e volenterosi.
Per dire.
Credo di aver capito la tua obiezione @Adriana. Tuttavia, se il problema derivasse da uno scollamento dalla realtà della nostra sinistra, questo sembrerebbe implicare, su un piano metodologico, che ce ne sia una riconoscibile da tutti a partire dalla quale pervenire alla valutazione dello scostamento stesso. Riconoscibile da tutti come?
RispondiElimina@Carlo
RispondiElimina"che ce ne sia una riconoscibile da tutti": che cosa, realtà o sinistra?
In "realtà" penso che Badiale con le sue fonti volesse solo far riflettere che quando si dovrebbe parlare di una cosa si fanno discorsi vani e distraenti, che, appunto, non tengono conto della "realtà" - quel singolo specifico fatto e, nel caso, una guerra e non un fatterello - che sembra il tema di una riunione e del quale si fa finta di discutere.
Chiamiamolo "argomento" o "tema", e così ci si intende.
Aggiungo: anche fosse una "irrealtà" riconoscibile e conclamata da coloro che dicono di voler parlarne, dovrebbero parlare di quella e non d'altro, in termini il più possibile diretti, chiari e fuori dal lessico politico-burocratese-ermetico.
Come dire, parliamo pure dell'unicorno - che sembra non esistere - ma parliamo di quello con parole che siano il più vicino possibile a "quello", esistente o no, tali che anche uno fuori dal cerchio magico dei parlanti possa capire di che cosa si stia parlando.
Personalmente ne faccio una questione di onestà.
Che la cosa sia pertinente in particolare alla sinistra nostra non saprei dire, ma gli esempi di Badiale riguardano questa e di questa credo si debba intendere, al di là di quanto accade nell'universo mondo e delle eventuali palle che "anche" gli altri raccontano.
@Adriana hai ragione. scusami. Mi sono reso conto dopo - e tu me ne hai dato conferma - che la formulazione era ambigua potendo avere un duplice riferimento indecidibile dall'interlocutrice. Ti preciso dunque che, nelle mie intenzioni, voleva riferirsi proprio alla realtà, non ad una sinistra (o ad una destra). Rifrasando: se ci dovesse essere una realtà riconoscibile da tutti (che sembra essere l'assioma di partenza/ciò che è dato per scontato), come potrebbe essere possibilie questo?
RispondiEliminaNotevole analisi, oltretutto molto divertente. Aggiungo una postilla: quando le bombe piovono in testa a te e ai tuoi cari, le menti si illuminano di una chiarezza cartesiana.
RispondiElimina@Carlo
RispondiEliminaGrazie della precisazione.
Per il resto: capisco, mi pare, il tuo ragionamento in senso generale e provo a tradurre: non si può accusare nessuno di scollamento dalla realtà, dato che per ciascuno essa è diversa.
Sì sì.
Ma...
se l'argomento concordato per una discussione è "quello", uno anche irreale come l'unicorno - cioè, considerato concordemente irreale come l'unicorno - i parlanti dovrebbero attenersi al tema "unicorno" e quindi parlare di animale, corno, confronto con altri animali, corni e corna nella diacronia e nella sincronica, e poi, se vogliono, ragionarne per metafore chiarendo che cosa ciascuno metaforizzi e magari ripescare delicati e profondi ricordi dell'infanzia appunto sull'unicorno.
Cioè parlare di quello, assunto come "realtà" da almeno due che ne parlino.
Che non svicolino, non cammuffino, non facciano finta che.
Mi accontenterei di questo.
Se, poi, la "realtà" è la guerra o la fame o la sofferenza o la sopraffazione e la si nasconde raccontando "altro" o la si evita sentendola come "altro", a maggior ragione questo lo chiamo essere scollegati dalla realtà.
O malafede o anaffettività, che è una patologia e ciò dà da pensare.
Ma sfuggire all'argomento anche "solo" come vezzo che fa fico, mi dà a pensar male e il vezzo può essere maniera psicopatica: pertanto, al di là di un comprensibile "Dov'è finita la sinistra?" sarebbe più opportuno chiedersi "Dove siamo finiti noi, che abbiamo continuato a votarli?", se, in effetti, abbiamo continuato a votarli.
Mi sembra di essere complessivamente d'accordo @Adriana. Senza invocare categorie di non facile determinazione come "realtà", "anaffettività" o psicopat(olog)ia potremmo forse limitarci, almeno in via provvisoria/preliminare, ad un condiviso impegno di coerenza/non contraddizione con determinate premesse condivise.
RispondiEliminaCiao!
P.S. Attendo comunque il post promessoci al proposito.
@Carlo
RispondiEliminaPiacere di aver fatto la tua conoscenza.
Attendo anch'io.
Grazie @Adriana. Il piacere è mio. Ci siamo già incrociati sul blog di Alberto dove sono apparso saltuariamente sotto il nome di carlo (quello del flauto) e dove ho rinunciato programmaticamente a fare interventi di questo tipo per ragioni che potrebbero essere ovvie ad entrambi.
RispondiEliminaCiao!
@Carlo
EliminaCapisco.
Ciao!
Che dire, egregio Badiale: magari avessi incontrato prima le sue analisi!
RispondiEliminaFui tra quelli che stigmatizzarono il comportamento di Turigliatto e Rossi (memorabile, in negativo, lo sketch che fece Crozza a Ballarò all'epoca per esporli al pubblico ludibrio).
E non vale come attenuante il fatto che al tempo le mie fonti di formazione ed informazione fossero Repubblica i talk-show della sera. Se avessi tra le mani il mio io di allora lo prenderei a (meritatissimi) ceffoni!
Ad ogni modo grazie ancora per la consapevolezza che mi avete regalato oggi.
Michele da Bergamo