sabato 30 maggio 2015

La fobia della metafisica e lo Stato


Con questo articolo inizia la collaborazione al nostro blog di Paolo Di Remigio. Paolo vive a Teramo e insegna Storia e Filosofia nel Liceo Classico "Melchiorre Delfico". Da tempo è impegnato in un lavoro di traduzione e interpretazione della "Scienza della Logica" di Hegel. Questo articolo è stato pubblicato anche su "Appello al popolo".
(M.B.)


LA FOBIA DELLA METAFISICA E LO STATO
di Paolo Di Remigio

Di recente i filosofi italiani sono stati scossi dalla pubblicazione di alcuni «Quaderni neri» di Heidegger, dai quali si evince, più che la sua adesione opportunistica al nazismo quale era nota da sempre, l’intima vicinanza alla distruzione degli ebrei e delle civiltà europee che il nazismo stava attuando. In un’intervista1, Gianni Vattimo, in Italia uno degli studiosi più accreditati di Heidegger, continua a non vedere un legame organico tra Heidegger e il nazismo, nonostante sia un esponente della sinistra libertaria particolarmente sensibile alla sorte delle vittime del sopruso, l’ultima persona che potrebbe essere accusata di simpatie per l’estrema destra.

Da Heidegger Vattimo ha adottato l’idiosincrasia per la metafisica. Egli l’ha identificata al totalitarismo, alla violenza (nell’intervista arriva a dirne che «è una schifezza» come se ciò fosse un’ovvietà); quindi ne ha constatato con sollievo la fine e insieme la fine della verità; da ultimo, nella proposta della filosofia come «pensiero debole» o come «interpretazione», ha guardato con favore a una nuova società in cui libertà e tolleranza, anziché da principi, sono garantite dai mass-media. Una proposta che può avere qualche apparenza di plausibilità solo in quanto chiunque, prima di cogliere il concetto di verità, potrebbe perdersi in due sue interpretazioni opposte. La definizione di verità è «adaequatio rei et intellectus», l’uguagliarsi di pensiero e realtà. La si può interpretare nel senso positivista dell’uguagliarsi del pensiero alla realtà, col risultato deprimente, fatto suo dal Wittgenstein del «Tractatus», che il pensiero sensato è estraneo agli interessi della vita umana, perché è una semplice raffigurazione di fatti casuali; oppure nel senso heideggeriano della differenza tra fatti ed essere, per cui il pensiero autentico può dispensarsi dallo studio dei fatti, che non sono adeguati alla sua sublimità, e dedicarsi a un più confortevole pascolo dell’essere. Interpretata la verità in questo secondo senso, il pensiero debole acquista un aroma di plausibilità: è prudente che il pensiero autentico si indebolisca e si limiti a giocare; potrebbe infatti accadere che, scivolando tra i fatti, si infili dalla parte sbagliata della realtà – proprio come è accaduto ad Heidegger. Così però Vattimo rischia di ridurre la professione filosofica a un passatempo e di ignorare il concetto di verità, che è l’elaborazione reciproca di pensiero e realtà, per cui quello si libera della sua irruenza, questa della sua ritrosia, superano la loro estraneità e si conciliano nell’idea – qualcosa che ha a che fare non tanto con la violenza, quanto con un corteggiamento fortunato. Non a caso i Greci, nostri maestri in tutto, sensibili al momento erotico della verità, fecero consistere la felicità nel raggiungerla.

Ancora sul PD

Un altro bell'intervento di Aldo Giannuli:


http://www.aldogiannuli.it/renzi-siamo-al-voto-di-scambio/




Per questa volta, non  ci sarà un post "elettorale", eventualmente scriveremo qualcosa di commento ai risultati. L'unica indicazione, ma pensiamo che con i nostri lettori non ce ne sia troppo bisogno, è ovviamente quella di non votare PD.
(M.B.)

Grecia: ultime battute del dramma?

Segnaliamo un articolo da La Stampa:


http://www.lastampa.it/2015/05/30/economia/grecia-condannata-verso-il-crac-a-luglio-lfmi-si-chiama-fuori-P3GHVzr2M3d1rcppMdCAAO/pagina.html

mercoledì 27 maggio 2015

Da Platone alla decrescita

Segnalo un interessante (anche se non recente) contributo filosofico. L'autore è Fabio Bentivoglio, che ha insegnato Storia e Filosofia nei Licei e ha collaborato a lungo con Massimo Bontempelli. Il blog ospiterà in futuro altri interventi di Fabio.
(M.B.)

giovedì 21 maggio 2015

Il Movimento 5 Stelle ha un'occasione storica

Nel suo ultimo articolo, Marino Badiale ha chiarito quanto sia illusorio sperare che da quel che resta della sinistra politica italiana possa nascere una qualche forza capace di opporsi realmente alle forze dominanti.
Lo spazio politico che si è aperto alla sinistra del PD, sarà coperto da un soggetto politico formato da quelli con cui Renzi non vuol più avere a che fare. I vari Fassina, Civati, Vendola e Ferrero, capitanati da Cofferati (che si è accorto della degenerazione del PD solo dopo esser stato trombato) e sostenuti da Landini (che si è inventato per l'occasione una non meglio definita "coalizione sociale").

La domanda sorge spontanea: ma come è possibile che una tale accozzaglia di notabili senza credibilità possa dar vita ad un soggetto politico capace, probabilmente, di ottenere significativi risultati elettorali?

La risposta ha in parte a che fare con il famigerato "popolo di sinistra", i cui appartenenti hanno interiorizzato che essere di sinistra significa affermare di essere dalla parte dei lavoratori, della giustizia sociale, della pace, essendo però pronti a prendere a mazzate i lavoratori, devastarne i diritti e le condizioni di vita, e fare la guerra, non appena si raggiungono posti di potere.
Il "popolo di sinistra" è quindi ben disposto a votare quelli che fino a ieri, dentro al PD o alleati con esso, si sono resi corresponsabili di ogni nefandezza. 
Ma non è tutto qui.
Quel "popolo", infatti, è ormai ridotto al lumicino, ed elettoralmente è quasi irrilevante. Non possono essere certo né Fassina, né Civati, né Cofferati, a ridargli vigore. 
Tuttavia un ampio spazio politico ed elettorale "a sinistra del PD" si sta davvero aprendo. Renzi può essere accusato di tutto, ma non di nascondere i propri intenti. Il carattere antisociale del governo è ormai evidente ed anche molti fra quelli che non si fanno troppe illusioni sull'ennesima aggregazione di sinistra prossima ventura, in assenza di alternative, potrebbero votarla per cercare di indebolire l'esecutivo.
Una sconfitta alle elezioni regionali, in particolare in alcune realtà come la Liguria, costituirebbe un duro colpo per Renzi.

In questo quadro, appare evidente che il M5S sta gettando alle ortiche un'occasione storica.
Se l'ennesima operazione cosmetica della sinistra politica avrà un qualche successo, sarà perché esiste una quota non irrilevante di elettorato che ha a cuore valori tradizionali della sinistra, come la giustizia sociale, ma non è disposta a votare M5S nonostante esso sia vicino a quei valori, perché diffida (legittimamente) della sua contraddittoria organizzazione e della sua dipendenza dalla coppia di fondatori.

Il M5S è quindi di fronte ad un bivio: continuare a fare quel che ha sempre fatto, mantenendo la propria attuale identità, oppure lanciare il percorso verso un nuovo soggetto politico, aperto e partecipativo, capace di superare le tante ambiguità che il movimento ha mostrato di avere, a partire dal fatto di propugnare la democrazia diretta essendo però incapace di applicarne i principi al proprio interno, ed anzi essendo proprietà di due sole persone.

Purtroppo le scelte fatte in questa tornata elettorale indicano che il M5S ha imboccato la prima via, che a mio avviso può solo portare al declino del movimento stesso. 
La seconda strada, invece, porterebbe a conquistare lo spazio politico "a sinistra del PD" evitando che in esso si intrufolino i pezzi di ceto politico scartati da Renzi.
E' ovvio però che alla fine, i due fondatori del M5S perderebbero il loro potere. Ed è altrettanto ovvio che un tale percorso non vedrà mai la luce senza il loro consenso. 
Sta a loro scegliere se continuare a comandare il movimento, tenendolo sulla strada dell'irrilevanza, oppure se accompagnarlo in un percorso di emancipazione, al fine di costruire un soggetto politico di alternativa realmente partecipativo, le cui potenzialità sarebbero enormi.

martedì 19 maggio 2015

Ancora la nuova sinistra?


Le scelte del PD di Renzi, sempre più sfacciatamente antipopolari e antidemocratiche, fra distruzione dei diritti dei lavoratori e attacchi alla Costituzione, hanno aperto uno spazio politico alla sinistra del PD. È quasi certo che tale spazio verrà presto occupato da una forza politica che, possiamo immaginare, metterà assieme transfughi del PD, piccoli partiti come SEL e Rifondazione (oppure loro componenti), e singole personalità (come Cofferati), oltre, presumibilmente, a vari spezzoni della composita galassia di movimenti e associazioni della sinistra italiana.
Penso sia bene esprimere un giudizio preciso sul significato di una tale operazione. Nella sostanza si tratterebbe dell'ennesima riedizione di ciò che è stata prima Rifondazione e poi SEL. Il punto decisivo è che una tale nuova forza politica non avrebbe nessuna prospettiva strategica al di fuori di una alleanza col PD: che è stata esattamente la situazione di Rifondazione prima e SEL dopo. Ma poiché il PD, oggi come vent'anni fa (comunque si chiamasse allora) non è una forza di “sinistra riformista” (nel senso storico della parola “riformismo”), che si possa cercare di “condizionare”, ma è semplicemente una delle componenti di un ceto dominante che ha come prospettiva strategica la distruzione dei diritti e dei redditi dei ceti subalterni, oltre che della democrazia, ogni prospettiva di alleanza, oltretutto da una posizione minoritaria, non può che significare la resa incondizionata alle linee strategiche dei ceti dominanti. Resa che può essere decorata con bandiere rosse e pugni chiusi oppure con “narrazioni” sui diritti: la sostanza non cambia. E tale sostanza è esclusivamente questa: tutte queste forze di sinistra hanno rappresentato e rappresentano la “copertura a sinistra” del PD, rappresentano cioè un modo per portare al PD voti che potrebbero andare a forze di autentica opposizione, impedendo così la nascita di tali forze. Tutti questi partitini, da Rifondazione in poi, hanno quindi avuto un ruolo essenzialmente negativo, e sono da combattere come avversari da chiunque sia interessato a contrastare gli attuali ceti dominanti.

lunedì 18 maggio 2015

Le ultime giornate di Atene?

Carlo Bastasin, sul Sole 24 ore di ieri, interviene sulla situazione greca, che sembrerebbe arrivata alla stretta finale:


http://www.selpressmm.com/sole/immagini/170515e/2015051735804.pdf


(M.B.)

domenica 10 maggio 2015

Un passaggio non aggirabile

1. La casa editrice Jaca Book ha iniziato a pubblicare una collana di brevi testi intitolata ai “precursori della decrescita”. La collana è diretta da Serge Latouche, e ogni volumetto è formato da un saggio introduttivo e da una antologia di testi. Si tratta di una iniziativa che nasce a seguito di una analoga collana francese, sempre diretta da Latouche. L'uscita più recente della collana italiana è quella dedicata a Charles Fourier, uno dei più noti fra i “socialisti utopisti” del primo Ottocento. Il libro è curato da Chantal Guillaume, una filosofa che si interessa sia di Fourier (ha partecipato alla creazione della Association d'études fourieristes) sia di decrescita (ha fatto parte del comitato di redazione di “Entropia”, rivista dedicata appunto al pensiero della decrescita), ed è quindi senz'altro la persona più adatta per discutere sul tema “Fourier e la decrescita”.
Penso che una riflessione su questo tema sia un buon modo per discutere di un problema che mi sta molto a cuore, quello della creazione di un possibile nuovo movimento anticapitalista all'altezza dei problemi attuali, e del ruolo in esso del movimento della decrescita da una parte, e del pensiero marxista dall'altra. È noto che in genere i marxisti sono ostili, o quantomeno diffidenti, nei confronti della decrescita, ritenendo che si tratti di una realtà incapace di contrastare il capitalismo, o magari connivente con esso. Io ritengo invece che il movimento della decrescita abbia importanti potenzialità anticapitalistiche, e che in ogni caso un eventuale futuro movimento anticapitalista, se mai nascerà, non avrà sicuramente le caratteristiche che immaginano i marxisti, ma sarà appunto o il movimento della decrescita o qualcosa che gli assomiglierà. Questo mi porta a guardare al movimento della decrescita con occhi diversi rispetto a tanti marxisti, senza nascondermi i suoi punti critici ma cercando, appunto, di metterne in evidenza le potenzialità anticapitalistiche. Una riflessione su “Fourier e la decrescita” può forse aiutare a chiarire tutto questo.


mercoledì 6 maggio 2015

Facile a dirsi


Dopo aver portato all'attenzione dei lettori un mio vecchio saggio sul linguaggio della sinistra radicale (qui e qui) volevo proporre qualche rapida riflessione. Mi è venuta l'idea di ripubblicare il saggio quando ho letto che Gennaro Migliore era il relatore del PD sulla nuova legge elettorale. Nel saggio, scritto, lo ricordo, nel 2007, analizzavo fra gli altri documenti anche un suo articolo. Ora, credo si possa intuire, senza che io debba spendere molte parole, quale sia adesso il mio giudizio su questo personaggio che è passato con grande disinvoltura da Rifondazione a SEL al PD. Non vorrei però si pensasse che io consideri tutte le persone nell'ambito della sinistra radicale allo stesso livello di Migliore. Per esempio, nel saggio in questione sono molto critico anche nei confronti di un intervento di Haidi Giuliani, che giudico però una persona ben diversa da Migliore. Il problema, nel mondo della sinistra radicale, sta nel fatto che le persone come Haidi Giuliani convivono tranquillamente con le persone come Gennaro Migliore, e che alla fine sono sempre i Gennaro Migliore a prevalere. Penso che questo sia un problema molto serio e grave. Se mai nascerà in futuro una vera forza politica e sociale anticapitalistica, essa si troverà di fronte a questo stesso problema, e dovrà riuscire a risolverlo, per non fare la fine della “sinistra radicale” italiana. Vale quindi la pensa di ragionarci. Quello che mi sforzo di mostrare nel saggio è il carattere vuoto, retorico, irreale, illogico, dei discorsi che vengono normalmente prodotti nell'ambito della sinistra radicale. Per usare un neologismo che trovo molto efficace, quello che cerco di mostrare è che i discorsi prodotti in quel mondo sono in buona parte fuffa. Ora, il punto importante secondo me è questo: la fuffa è l'ambiente vitale dei Gennaro Migliore, l'ambiente nel quale essi crescono e prosperano, fino ad averla sempre vinta sulle tante brave persone come Haidi Giuliani. Come spiego nel saggio, i personaggi di quel tipo hanno bisogno della fuffa perché hanno bisogno di un linguaggio manipolabile a piacere, hanno bisogno che le parole non significhino nulla, per non essere mai impegnati seriamente da quello che dicono. Sembra allora facile trovare il modo per tenere lontani i Gennaro Migliore da un futuro movimento anticapitalista: basterà evitare la fuffa. Questa semplice deduzione purtroppo non risolve il problema perché ci porta ad un'altra domanda: come si fa a tener lontana la fuffa? E questa domanda ci porta alla successiva: perché mai la fuffa è così diffusa, nel mondo della sinistra radicale? Si potrebbe naturalmente osservare che essa è abbondantemente diffusa anche altrove, ma noi adesso stiamo parlando di un possibile futuro movimento anticapitalista, e siamo allora obbligati a confrontarci con le attuali realtà che si pretendono anticapitaliste, per individuarne i limiti e provare a immaginare come evitarli in futuro. Torniamo allora alla domanda: perché tanta fuffa? Se è così diffusa, vuol dire che la fuffa serve. La sua utilità per i Gennaro Migliore è ovvia, e ne abbiamo appena parlato. Ma a cosa serve la fuffa alle persone come Haidi Giuliani che (così mi ostino a pensare) sono pur sempre in maggioranza, in quegli ambiti, rispetto ai Gennaro Migliore? Propongo all'attenzione dei lettori un'ipotesi: la fuffa rappresenta una forma di difesa di un'identità minacciata. La crisi della sinistra, della quale si parla da decenni, è senz'altro anche la crisi di meccanismi identitari che per molte persone sono importanti, sono parti significative della vita. Un linguaggio che si confronti razionalmente con la realtà costringerebbe ad affrontare la realtà della sinistra, il che vuol dire la realtà del sostanziale abbandono, da parte di tutto il ceto politico di sinistra, degli aspetti essenziali di ciò che è stata la sinistra storica. Questo confronto metterebbe in crisi, per molte persone, la propria appartenenza alla “comunità della sinistra”. La fuffa serve ad evitare tutto questo, serve per continuare a credersi parte di una comunità di brave persone che lottano seriamente per dei grandi ideali. E questo è naturalmente quello che molte di queste persone davvero sono, sul piano soggettivo. Solo che, per queste persone, il piano soggettivo non entra mai in contatto col piano della realtà oggettiva. Per riassumere con una formula, la fuffa è il prodotto di una comunità che ha scelto l'identità contro la verità, quando tale comunità deve confrontarsi con qualcosa che potrebbe mettere in crisi quella identità. L'indicazione per il futuro, usando queste formule piuttosto astratte, sarebbe allora di costruire una comunità politica che metta sempre la verità al primo posto (e l'identità, eventualmente, al secondo). Purtroppo si tratta di una formula che è facile da enunciare, ma che non sappiamo come mettere in pratica. Può essere però un buon inizio di riflessione.
(M.B.)


lunedì 4 maggio 2015

Rumore molesto/2

Seconda parte del mio saggio del 2007 sul linguaggio della sinistra radicale. La prima parte è qui.
(M.B.)





6.
Continuando ad esaminare le discussioni relative alla “piccola crisi” del governo Prodi, leggiamo un articolo di Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione alla Camera, pubblicato sul Manifesto.


Gennaro Migliore “Noi non vogliamo mollare. E voi?” (Il Manifesto 01-03-07).
“Quanto siete disposti a cedere in nome del governo? Quanto siete disposti a cambiare? Quanto siete già cambiati?”.
Sono queste, grossomodo, le domande che hanno circondato l’azione politica del mio partito nel corso degli ultimi eventi. Domande che ci hanno interrogato da più parti: dalle pagine dei giornali, borghesi o radicali, come dalle singole voci dei militanti o dei tanti uomini e donne che abbiamo incontrato all’indomani del trauma simbolico e concreto dell’interruzione, o meglio, della strana crisi del governo Prodi. Domande che hanno tradotto la volontà diffusa di esorcizzare un dato di realtà, facendo addirittura smarrire o, come nell’articolo di Ida Dominijanni sul Manifesto di sabato scorso, lasciando sullo sfondo la materialità del passaggio di fronte al quale ci troviamo
 Il secondo governo Prodi si è formato in virtù di due condizioni essenziali: ha raccolto il diffuso sentimento contro Berlusconi e le destre; ha provato ad interpretare le domande e le esperienze di differenti soggettività manifestatesi nella lunga stagione dei movimenti, passando attraverso le primarie e raccontandosi nelle quasi trecento pagine del programma dell’Unione. Ecco, credo, se non ci fosse stata la seconda condizione il solo antiberlusconismo non avrebbe retto alle urne, il precario equilibrio numerico che, fin dai dati elettorali (al Senato la CdL ha preso più voti dell’Unione e solo grazie alla legge elettorale si è verificato uno stretto margine di vantaggio in seggi) ci ha detto che c’era una grande resistenza ai propositi di cambiamento dl centrosinistra. Non avrebbe retto e avrebbe lasciato lo spazio necessario al ritorno dei vecchi riti democristiani: larghe intese, governo istituzionale, grande coalizione e chi più ne ha più ne aggiunga.
Rifondazione è stata parte fondamentale della seconda condizione, ovvero del tentativo di costruire lo spazio pubblico in cui la politica si deve cimentare con la sua fonte di legittimazione, deve (o dovrebbe) uscire dal palazzo. E’ sicuramente questo il motivo per cui siamo così invisi alle mosche cocchiere del “riformismo”, a quelli che “la politica è una cosa seria, lasciateci lavorare”.
Le domande, talvolta le intimazioni, che vengono dalla sinistra le trovo fondate su argomentazioni che contestano questo nostro tentativo di fondo. Sia quelle che provengono da una cultura frontista, in cui il “sacrificio” del governo è, a mio modo di vedere, un’inutile resa alla realpolitik, sia quelle che ci descrivono come “antropologicamente incompatibili” con questa contraddizione.
Fra costoro c’è il mio vecchio compagno di partito Turigliatto. A Franco non contesto, come fanno in tanti, le sue convinzioni, ma l’aver impedito che le nostre democratiche decisioni avessero un effetto concreto. Gli contesto di aver rotto un patto di solidarietà e di aver stravolto il corso di una decisione che la comunità alla quale apparteneva aveva preso, non certo a cuor leggero. Quando c’era il Pci, voi del manifesto dovevate tacere, sparire dal dibattito. Esagerare nei paragoni rende caricaturali le critiche. Qui è la decisione di un singolo che rende diversa l’azione di tutti gli altri.
Ma in conclusione, sono io a fare qualche domanda. Vale o no la pena di provare a cambiare la politica oggi? E’ proprio poco aver contribuito ad un clima nel quale nessuno sta zitto e alla crescita di una grande domanda di partecipazione? Durante il primo governo Prodi, quello del 96, i sindacati erano paralizzati e di movimenti neanche l’ombra. Oggi c’è la Fiom nella manifestazione del 4 novembre. Ci sono tutti i sindacati che, nel mezzo della crisi, ci fanno sapere che le pensioni non si possono massacrare. Ci sono i comitati di Vicenza (a proposito, lì c’era scritto “Prodi ripensaci” e non “Prodi vattene”) e quelli della Valle Susa. Noi stiamo lì in mezzo, senza prendere parola per altri, ma cercando di passare dalla rappresentazione alla espressione della soggettività. Senza dubbio siamo “impigliati” in questo tentativo: rompere la dicotomia non già tra partiti e movimenti o tra puri e compromessi, ma tra alto e basso, tra inclusi ed esclusi. Abbiamo preso i 12 punti consapevoli della difficoltà. Non vogliamo mollare. E voi?




Analizziamo ora passo per passo il contenuto di questo articolo.

sabato 2 maggio 2015

Sapir su Grecia e arroganza europea

Segnaliamo un intervento di J.Sapir, che ci sembra riassuma la situazione greca in maniera molto lucida e chiara. Noi condividiamo la sua analisi, con la conclusione che non vi siano nella sostanza margini di trattativa fra il governo greco e le oligarchie eurocratiche, e, di conseguenza, gli unici esiti prevedibili siano la totale resa dei greci o la rottura. Siamo inoltre convinti, anche qui d'accordo con Sapir, che non passerà molto tempo prima che questa analisi venga sottoposta alla prova dei fatti. Vedremo.
(M.B., F.T.)

venerdì 1 maggio 2015

Rumore molesto/1

Ripubblico, in due puntate, un saggio del 2007. Si tratta del mio contributo ad un'opera a più mani, curata da Roberto Massari, "I Forchettoni rossi". Occorre naturalmente situare lo scritto nel contesto dell'epoca, che era quello del secondo governo Prodi, sostenuto in Parlamento da una nutrita rappresentanza di Rifondazione. Il mondo della "sinistra radicale" era attraversato da forti tensioni dovute al sostanziale appoggio che il governo Prodi forniva alle iniziative belliche USA, dalla guerra in Afghanistan all'ampliamento della base di Vicenza. Nelle discussioni su questi temi appariva evidente, a mio parere, il carattere vuoto e retorico di gran parte dei discorsi pronunciati nell'ambito della "sinistra radicale". Cercai in questo saggio di analizzare questo vuoto e questa retorica, perché, al di là delle occasioni contingenti, mi sembravano, e mi sembrano tuttora, uno degli elementi che bloccano la costruzione di un autentico soggetto sociale e politico di resistenza antisistemica.
(M.B.)



1. Le parole dei politici non hanno alcun significato razionale, se non quello di rappresentare messaggi in codice interni al ceto politico. I politici o dicono menzogne, o dicono sciocchezze, o si lanciano messaggi tra di loro. Questo fatto deve essere considerato un dato di partenza per ogni discussione sulla politica contemporanea. Esso appare in qualche modo acquisito dal senso comune. Nessuno sembra fare più caso alle promesse dei politici, nessuno pensa che l’impegno formalmente preso da uno di loro abbia qualche valore dopo un anno, un mese, o anche dopo cinque minuti. Per comprendere questi fatti, occorre capire che la nozione di politica ha cambiato completamente significato. Fino a qualche decennio fa la politica era l’attività umana che governava e indirizzava la polis, che lo facesse in senso conservatore o progressista, moderato o radicale, riformista o rivoluzionario. Oggi non è più la politica a governare e indirizzare la polis, ma l’economia, una economia che finalizza l’intera vita sociale al profitto.  Estromessa dall’ambito suo proprio, la politica si riduce a semplice amministrazione delle ricadute sociali dell’economia del profitto. Rinunciando a indirizzare la vita sociale,  la politica si è ridotta a puro scontro di cordate di amministratori, finalizzato unicamente alla crescita di potere (e danaro) della propria cordata.
Questo non significa, si badi bene, che la politica sia autonoma dalla realtà sociale. Al contrario, è proprio nella sua autoreferenzialità che la politica è funzionale alla logica profonda della fase attuale dell’economia capitalistica. Infatti, come abbiamo detto, la fase contemporanea è quella in cui l’economia del profitto si estende a tutti gli ambiti della realtà sociale, piegandoli alla propria logica. La politica autoreferenziale non fa che giocare i propri giochi di potere, usando le carte che questa situazione le fornisce, e abbandonando così l’intera realtà sociale all’invasione devastante della logica del profitto. L’autoreferenzialità della politica è dunque, nella situazione attuale, la migliore garanzia del procedere indisturbato dell’economia capitalistica [1].
I difetti così evidenti dei politici attuali derivano da questa situazione di fondo, e non sono quindi emendabili con un semplice cambiamento delle persone. In particolare, da qui derivano le caratteristiche del linguaggio dei politici.

Nel dopoguerra i vari partiti politici erano ancora espressione dei diversi gruppi sociali e ne rappresentavano gli interessi. In questa situazione, il linguaggio pubblico dei politici non poteva staccarsi completamente dalla realtà: nel momento in cui c’è un riferimento sociale esterno alla politica, al quale in qualche modo occorre rendere conto del proprio operato, il linguaggio deve conservare un po’ di concretezza. Ma negli ultimi decenni, come s’è detto, la politica perde ogni riferimento a realtà sociali esterne e diventa totalmente autoreferenziale. I politici non esprimono più, se non per finzione retorica, interessi estranei alla propria sfera. D’altra parte, le dinamiche sociali ed economiche che hanno operato nei paesi occidentali negli ultimi decenni, riassunte normalmente sotto il concetto un po’ impreciso di “globalizzazione” [2], comportano una enorme accelerazione dei processi di mutamento dell’economia, e quindi della società. Cambia continuamente, ad un ritmo molto più veloce che in precedenza, l’ambiente nel quale si svolgono le lotte di potere dei politici. Il politico è dunque lanciato in una giungla nella quale succedono continuamente cose nuove: nuovi pericoli e, certo, anche nuove opportunità di potere e di carriera. In questa situazione, occorre essere sempre pronti a schivare i nuovi pericoli e a cogliere le nuove opportunità. Ma per fare questo non si può essere legati dai vincoli di impegni assunti in precedenza. Ora, quando un politico prende la parola in pubblico corre appunto il rischio di impegnarsi in qualcosa: se dice di essere favorevole all’idea x, o sostiene che è bene aiutare il gruppo sociale y, prende degli impegni che può essere gravoso mantenere, se solo un mese, un giorno o cinque minuti dopo scopre che è più conveniente, nelle lotte di potere, sostenere l’idea z o il gruppo sociale w.
L’unico modo per evitare questo grave rischio è allora non dire mai nulla, cioè usare un linguaggio completamente privo di contenuti razionali. Ai politici serve un linguaggio malleabile, manipolabile, piegabile all’esigenza del momento. I politici hanno bisogno di un linguaggio-argilla, che non faccia resistenza. Ora, ciò che fa resistenza alla manipolazione sono i contenuti razionali. Occorre quindi svuotare il linguaggio di ogni contenuto razionale. Come si fa? I contenuti razionali del linguaggio sono veicolati essenzialmente in due modi: dal collegamento delle parole con la realtà, e dalla logica. Rapporto con la realtà e logica danno rigidità agli impegni assunti e impediscono che il linguaggio diventi un’argilla plasmabile a seconda dell’interesse del momento. Se nostro figlio ci chiede di acquistargli un cane da tenere in casa, e noi gli diciamo che si può fare purché egli si assuma la responsabilità di badare all’animale, questo impegno ha un senso rigido perché le parole “cane” e “badare al cane” hanno un legame preciso con la realtà: un cane è un essere ben determinato, che fa una serie di cose (come mangiare e defecare) che implicano una serie di azioni in cui consiste il “badare al cane”. Stesso discorso per la logica: se nostro figlio esce con 20 euro per fare la spesa e torna a casa con uno scontrino di 15 euro e 3 euro di resto, noi gli chiediamo che fine hanno fatto gli altri 2 euro, e vogliamo una risposta precisa. La logica è rigida.
Se questo è chiaro, è anche chiaro cosa occorre fare per ridurre il linguaggio allo stato di argilla manipolabile a piacere: occorre eliminare il contatto del linguaggio con la realtà, e occorre eliminare la logica.
L’eliminazione del contatto con la realtà è legata ad un altro aspetto del linguaggio dei politici (e dei media): il parlare d’altro. Se infatti si deve parlare, e non si può mai parlare della realtà, dei problemi veri,  è chiaro che bisogna parlare dell’irreale e dei problemi falsi: bisogna inventarsi discussioni e problematiche assolutamente slegate dalla realtà, per riempire i propri discorsi. Questa deviazione costante e massiccia permette di definire il complesso del discorso pubblico in cui siamo immersi come una enorme “arma di distrazione di massa”.
Un linguaggio al quale siano sottratti logica e rapporto con la realtà è un linguaggio nel quale non si possono esprimere argomentazioni razionali. Si possono però esprimere opinioni. Se facciamo attenzione al linguaggio pubblico che ci viene proposto da giornali e televisioni (cioè il linguaggio dei politici, ma non solo), vediamo che quasi sempre esso ci propone opinioni, e mai o quasi mai argomentazioni razionali. Purtroppo questa è una caratteristica del linguaggio dei media che sembra penetrata nel senso comune, per cui oggi, anche nei contesti comunicativi non direttamente dipendenti dai media (per esempio in internet), è molto difficile sviluppare discussioni nelle quali si confrontino argomentazioni razionali.
Proseguendo l’analisi, ricordiamo che ai politici interessano unicamente le lotte di potere interne ai gruppi dominanti (politici ed economici). Gli unici contenuti reali che essi intendono esprimere, quando prendono la parola, sono quelli relativi a tali lotte: attacchi ai gruppi di potere avversi, segnali ai propri alleati, richieste di fette maggiori della torta. Sono questi i contenuti reali del loro linguaggio.

Riassumendo, nel linguaggio dei politici ci aspettiamo di trovare mancanza totale di legami con la realtà esterna al loro mondo, spostamenti rispetto ai problemi veri, mancanza di logica, e i riferimenti alle lotte interne ai ceti dominanti come unico contenuto reale.
Un’ultima osservazione: un linguaggio di questo tipo non veicola contenuti razionali, come s’è detto. Si configura piuttosto come un rumore, e anzi come un rumore molesto, perché occupando l’intero spazio della comunicazione pubblica rende difficile o impossibile il dialogo razionale. È faticoso comunicare in un ambiente rumoroso. Il rumore molesto dei politici (e più in generale, l’intero discorso dei media) ha in ultima analisi proprio questa funzione: impedire il dialogo razionale fra le persone [3].

Nel resto di questo saggio mostreremo esempi di questo tipo di linguaggio, traendoli dal settore della cosiddetta “sinistra radicale”, cioè dell’area dell’estrema sinistra che ha scelto l’allenza col centrosinistra e a partire dal 2006 appoggia il governo Prodi. E’ interessante esaminare quest’area, che in questo libro è stata etichettata con l’espressione “forchettoni rossi”, perché la trasformazione dei suoi aderenti da critici radicali del capitalismo e della guerra a zelanti sostenitori di un governo liberista in politica economica e favorevole alle guerre in politica estera è stata rapidissima. Cercherò di mostrare come tale trasformazione sia stata possibile anche grazie ad un linguaggio svuotato di razionalità e di realtà.