Con questo articolo inizia la collaborazione al nostro blog di Paolo Di Remigio. Paolo vive a Teramo e insegna Storia e Filosofia nel Liceo Classico "Melchiorre Delfico". Da tempo è impegnato in un lavoro di traduzione e interpretazione della "Scienza della Logica" di Hegel. Questo articolo è stato pubblicato anche su "Appello al popolo".
(M.B.)
LA
FOBIA DELLA METAFISICA E LO STATO
di Paolo Di Remigio
Di
recente i filosofi italiani sono stati scossi dalla pubblicazione di
alcuni «Quaderni neri» di Heidegger, dai quali si evince, più che
la sua adesione opportunistica al nazismo quale era nota da sempre,
l’intima vicinanza alla distruzione degli ebrei e delle civiltà
europee che il nazismo stava attuando. In un’intervista1,
Gianni Vattimo, in Italia uno degli studiosi più accreditati di
Heidegger, continua a non vedere un legame organico tra Heidegger e
il nazismo, nonostante sia un esponente della sinistra libertaria
particolarmente sensibile alla sorte delle vittime del sopruso,
l’ultima persona che potrebbe essere accusata di simpatie per
l’estrema destra.
Da
Heidegger Vattimo ha adottato l’idiosincrasia per la metafisica.
Egli l’ha identificata al totalitarismo, alla violenza
(nell’intervista arriva a dirne che «è una schifezza» come se
ciò fosse un’ovvietà); quindi ne ha constatato con sollievo la
fine e insieme la fine della verità; da ultimo, nella proposta della
filosofia come «pensiero debole» o come «interpretazione», ha
guardato con favore a una nuova società in cui libertà e
tolleranza, anziché da principi, sono garantite dai mass-media. Una
proposta che può avere qualche apparenza di plausibilità solo in
quanto chiunque, prima di cogliere il concetto di verità, potrebbe
perdersi in due sue interpretazioni opposte. La definizione di verità
è «adaequatio rei et intellectus», l’uguagliarsi di pensiero e
realtà. La si può interpretare nel senso positivista
dell’uguagliarsi del pensiero alla realtà, col risultato
deprimente, fatto suo dal Wittgenstein del «Tractatus», che il
pensiero sensato è estraneo agli interessi della vita umana, perché
è una semplice raffigurazione di fatti casuali; oppure nel senso
heideggeriano della differenza tra fatti ed essere, per cui il
pensiero autentico
può dispensarsi dallo studio dei fatti, che non sono adeguati alla
sua sublimità, e dedicarsi a un più confortevole pascolo
dell’essere. Interpretata la verità in questo secondo senso, il
pensiero debole acquista un aroma di plausibilità: è prudente che
il pensiero autentico
si indebolisca e si limiti a giocare; potrebbe infatti accadere che,
scivolando tra i fatti, si infili dalla parte sbagliata della realtà
– proprio come è accaduto ad Heidegger. Così però Vattimo
rischia di ridurre la professione filosofica a un passatempo e di
ignorare il concetto
di verità, che è l’elaborazione reciproca
di pensiero e realtà, per cui quello si libera della sua irruenza,
questa della sua ritrosia, superano la loro estraneità e si
conciliano nell’idea – qualcosa che ha a che fare non tanto con
la violenza, quanto con un corteggiamento fortunato. Non a caso i
Greci, nostri maestri in tutto, sensibili al momento erotico della
verità, fecero consistere la felicità nel raggiungerla.