Un piccolo esempio di questi problemi è
fornito, a mio avviso, dalla pubblicazione in Italia dell'ultimo
libro della celebre giornalista canadese Naomi Klein [1] e da alcune
delle reazioni che esso ha suscitato. Il libro è interamente
dedicato alla tematica del cambiamento climatico. La tesi
fondamentale dell'autrice è che l'attuale organizzazione sociale non
è ecologicamente sostenibile, e che, se vogliamo utilizzare davvero
il poco tempo che ci resta per minimizzare gli sconvolgimenti causati
dal cambiamento climatico ormai avviato, sono necessari mutamenti
drastici nella società e nell'economia, e in particolare è
necessario l'abbandono del modello socioeconomico neoliberista che è
stato dominante negli ultimi decenni.
Ora, qui ciò che conta è
naturalmente il fatto che una tesi simile sia sostenuta da una
giornalista brava, ma soprattutto conosciuta in tutto il mondo, come
Naomi Klein. Un personaggio simile, voglio dire, non è più una
semplice opinionista come tanti o tante: quello che dice contribuisce
a formare le convinzioni di una parte significativa dell'opinione
pubblica mondiale. E d'altra parte, quello che scrive Naomi Klein è
anche influenzato dalle evoluzioni dell'opinione pubblica. Basta
leggere i ringraziamenti alla fine del libro (riempiono sette pagine,
e pochissimi sono quelli strettamente privati) per capire che ciò
che scrive Naomi Klein è la sintesi di elaborazioni, esperienze,
lotte che vengono da tutto il mondo. Insomma, prese di posizione così
nette da parte di un personaggio come Naomi Klein sono indice
(insieme effetto e causa) di sommovimenti di grande importanza nella
coscienza di settori non trascurabili dell'umanità contemporanea.
Parti significative dell'opinione pubblica mondiale sono arrivate a
convincersi che vi sia ormai una incompatibilità di fondo fra il
capitalismo e il mantenimento di delicati equilibri ecologici, la
distruzione dei quali può portare ad una gravissima crisi di
civiltà; e che, di fronte ad una situazione “capitalism vs. the
climate” (che è il sottotitolo dell'edizione inglese), si tratti
ormai di scegliere.
Tutto questo è chiarito, fra l'altro,
dal capitolo del libro dedicato ai “negazionisti”, cioè alle
varie correnti di opinione, forti soprattutto negli USA, che appunto
intendono negare o le tesi sull'esistenza del cambiamento climatico
oppure le tesi che attribuiscono il cambiamento all'attività umana.
Negli Stati Uniti tali correnti di opinione sono fortemente legate a
vari settori del mondo conservatore. Il capitolo in questione è
intitolato “La destra ha ragione”, e quello che Naomi Klein
intende dire, con questo titolo, è che la destra USA si oppone alle
tesi sul cambiamento climatico perché avverte correttamente che esse
portano a mettere in discussione i principi del capitalismo
neoliberista, e ovviamente è contraria a questo esito.
Insomma, la coscienza che le tesi sul
cambiamento climatico portano a rivedere profondamente, e in senso
anticapitalistico, l'attuale organizzazione sociale, sembra essere
sempre più diffusa nel mondo, in tutto l'arco delle opinioni
politiche.
Se questo è davvero il senso del
libro, è abbastanza chiaro quale dovrebbe essere, di fronte al
movimento di coscienza di cui esso è segnale, l'atteggiamento di una
forza politico-sociale anticapitalistica, e degli intellettuali che,
marxisti o no, fanno riferimento ad una prospettiva di pensiero
critico nei confronti dell'attuale organizzazione economico-sociale.
Chiunque abbia una intenzionalità anticapitalistica dovrebbe
sforzarsi di dare la massima diffusione a queste tesi e dovrebbe
cercare di interagire con il movimento di opinione di cui esse sono
indice, per aiutarlo a crescere su tutti i piani: sul piano del
rigore intellettuale, su quello della capacità di proposta politica,
sul piano organizzativo. Mentre sarebbe ovviamente un segno di
immaturità politica mettersi a fare i maestri di marxismo che
sottolineano con la matita, non saprei se rossa o blu, gli eventuali
“errori”.
Faccio solo un esempio: da quanto
scrive nel libro non è del tutto chiaro se Naomi Klein ritenga
necessario il superamento del capitalismo in quanto tale o piuttosto
della forma “neoliberista” che esso ha assunto negli ultimi
decenni. Si tratta di una questione un po' astratta, rispetto
all'urgenza dei problemi, ma che non può essere trascurata. La
scarsa chiarezza su questo punto potrebbe essere uno di quegli
aspetti di ingenuità teorica che spesso hanno i movimenti allo stato
nascente. Sarebbe però una ingenuità ancora maggiore quella di un
marxista che rifiutasse di interagire con queste tematiche per via di
tali insufficienze teoriche. Il compito di una realtà
anticapitalistica seria sarebbe invece quello di discutere queste
insufficienze, quando emergono, e soprattutto di mostrarne il
collegamento con la realtà concreta: di mostrare cioè come il
mantenere insufficienze e ambiguità teoriche sia alla fine di
ostacolo all'attività pratica.
Quanto fin qui detto non rappresenta, è
ovvio, nulla di particolarmente originale. L'intera tradizione
politica dei partiti anticapitalisti, socialisti o comunisti, porta
in questa direzione: di fronte all'emergere di una contraddizione nel
meccanismo di riproduzione del capitale, si cerca di lavorare sulle
linee di faglia che in tal modo si evidenziano per farne emergere le
potenzialità anticapitalistiche. Rispetto alla realtà descritta da
Naomi Klein, questa impostazione porterebbe appunto a quanto dicevamo
sopra: un movimento politico-sociale anticapitalistico dovrebbe
mettere la questione del cambiamento climatico al centro della
propria agenda e cercare rapporti costruttivi con tutte le realtà
(forze politiche, movimenti sociali, singoli intellettuali) che si
stanno muovendo in questa direzione. Compresa naturalmente la stessa
Naomi Klein.
Mi sembra si possa constatare che non è
questo ciò che sta avvenendo. Naomi Klein è certo molto nota anche
in Italia, il suo libro è stato recensito, e ne sono pure state
organizzate affollate presentazioni, con la partecipazione
dell'autrice. Non intendo cioè dire che essa venga ignorata. Quello
che intendo dire è che mi sembra sia mancata la spinta a inserire
tale questione nell'agenda da parte delle poche frange
anticapitalistiche residue. Mi è capitato di leggere alcune
recensioni piuttosto acide, da parte di intellettuali marxisti o
comunque “critici”[2], il cui contenuto era in sostanza il fatto
che l'anticapitalismo di Naomi Klein non appare conforme ai canoni
marxisti, oppure che essa non indica un programma concreto per un
eventuale movimento politico: come se questo non fosse appunto il
compito di tutti gli anticapitalisti, che essi non possono certo
delegare ad una giornalista, per quanto brava!
Questo tipo di reazioni induce
fortemente il sospetto che l'anticapitalismo delle poche frange
rimaste sia un semplice principio identitario inabile al
confronto col mondo, espressione di realtà incapaci di
elaborare una autentica prospettiva politica e probabilmente, in
fondo, anche scarsamente interessate ad una tale elaborazione.
La situazione è dunque questa: da una
parte un movimento che si origina da una delle fondamentali
contraddizioni del capitalismo contemporaneo, spesso senza avere
chiara coscienza teorica della natura del capitalismo stesso;
dall'altra realtà anticapitalistiche che avrebbero gli strumenti
intellettuali per interagire proficuamente con quel movimento, ma
invece lo snobbano, arroccandosi in chiusure identitarie.
È questa la situazione cui mi riferivo
all'inizio, parlando del “latitare del fattore soggettivo”.
Credo che questo blocco del “fattore
soggettivo” sia indice di un mutamento profondo nelle forme di
coscienza del nostro tempo, rispetto a quelle prevalenti nel
Novecento; e credo che questo mutamento sia la causa vera delle
difficoltà di costruzione di una seria forza politico-sociale di
resistenza anticapitalista. Su questo dovremo tornare.
(Marino Badiale)
[1] N.Klein, Una rivoluzione ci
salverà, Rizzoli 2015. La scelta del titolo italiano è
discutibile, il titolo originale This changes everything mi
sembra molto più efficace.
[2] Per esempio queste:
Un intellettuale di spessore come Stefano Azzarà riporta, nel suo blog sempre interessante, una recensione poco simpatetica col libro e liquida il libro stesso con una battuta:
Questo post è pubblicato anche su "Appello al popolo": http://www.appelloalpopolo.it/?p=13347
Se mi posso permettere.... Il post mi ha fatto ripensare ai motivi del successo travolgente di Grillo, del M5S. Con tutte le ambiguità, gli errori anche gravissimi, il M5S "tiene". I sondaggi lo danno stabilmente oltre il 20%.
RispondiEliminaLe analisi giornalistiche parlano degli scandali e di come il M5S sia percepito "puro".
Non penso basti a spiegarne prima il successo poi la tenuta. Il punto, IMHO, è la sempre più dimenticata e bistrattata "partecipazione". Una buona fetta della società vuole partecipare, vuole aiutare in qualche modo. Glillo gliene ha dato la possibilità (a volte l'illusione).
L'intellettuale di oggi (a parte i presenti!) è autoreferenziale, parla ad altri intellettuali, e non si sporca le mani con la vita vera. E viene sostenuto dai media, pubblicato e pubblicizzato, perché funzionale a far sentire alle persone comuni la distanza. Per farci sentire impotenti (si può scrivere "delle merde"?).
Poi ci stupiamo se non nasce alcuna opposizione organizzata e seria mentre ogni giorno stiamo peggio. Ognuno per sé, senza nemmeno più Dio per tutti.
Una signora di campagna con la quinta elementare, ricordando il padre socialista, oggi mi ha detto che una volta "erano più duri", intendendo meno inclini ai compromessi.
A 86 anni, senza né studi né esperienze politiche significative, guardando tutti i giorni la TV senza aver mai dimostrato particolare spirito critico, questa signora, sollecitata dalle domande di un bambino di otto anni che le chiedeva della sua scuola per una ricerca scolastica, ha ricordato che doveva leggere il libro della quinta classe elementare L'Impero d'Italia di nascosto dal padre socialista. "Una volta erano più duri" ha commentato.
L'ho trovata l'analisi migliore del perché dopo 7 anni di crisi economica siamo ancora al punto di non avere una opposizione decente allo smantellamento delle conquiste sociali del secolo scorso.
Per quel che riguarda la psico-patologia: buona parte dei "marxisti" contemporanei, sia nella variante stalinista (Azzarà) sia in quella anarco-solipsistica (Isaia), è costituita da soggetti follemente innamorati del proprio essere speciale. Si tratta di persone intimamente settarie, pronte a schifare qualsiasi fenomeno avente dimensione di massa, proprio perché è di massa.
RispondiEliminaPer quanto riguarda la politica: la linea d'azione proposta dalla Klein, in rraltà, è chiarissima. E' il tipico modo "grassroot" di influenzare politica, attraverso la mobilitazione degli attivisti, le campagne di informazione, e oggi il social-networking. E' un modo molto "americano" di far politica, e non si può dire che non funzioni: basti pensare al successo delle grandi campagne per i diritti civili delle minoranze degli anni '60-70. O magari ai successi ottenuti dalle organizzazioni di destra per quel che concerne il diritto a girare armati.
Ora, le campagne per la promozione dei diritti civili hanno avuto successo perché, in fin dei conti, portano a esiti compatibili con il regime capitalista; anzi, a ben guardare non erano altro che la richiesta di integrare nel regime capitalista anche le minoranze. Lungi da me volerne sminuire l'importanza, sia chiaro.
Il punto sta nel capire se la lotta ai cambiamenti climatici porti a esiti necessariamente incompatibili con il capitalismo; se quello che vorrebbe Naomi Klein (e tutti noi) possa essere ottenuto da una forma di capitalismo "verde" e "umano". In questo secondo caso, la strategia di Klein (il metodo "grassroot") potrebbe avere successo, riuscendo a influenzare in misura decisiva la classe politica. Ma se risultasse evidente che, davvero, il contrasto ai cambiamenti climatici impone trasformazioni tali del sistema delle attuali relazioni sociali di produzione da implicare una fuoriuscita dal capitalismo, allora è molto probabile che il "metodo Klein", con tutta la buona volontà, non sia sufficiente.
La questione è tutta qui. Ed è una questione a cui è veramente difficile dare una risposta che sia all'altezza. I nostri "marxisti" non ci provano neanche ma, l'ho già detto, loro si muovono nel campo della psicopatologia, non della politica.
Grazie a Claudio per l'interessante commento. Non condivido il parlare di "psicopatologia": vorremmo cercare davvero di evitare in questo blog ogni forma di inutile aggressività.
RispondiEliminaLa scelta di "cosa produrre e con quali costi ambientali" è nelle mani degli interessi privati, siano essi grandi concentrazioni di capitale o diffuse scelte individuali nei paesi a maggior benessere. Questo comporta una convergenza di interessi che contribuisce a delimitare e circoscrivere la tematica ambientalista in ambiti ristretti.
RispondiEliminaLa conseguenza di questo stato delle cose è che è impossibile organizzare un'opposizione globale prima che molti enormi disastri si siano verificati. In altre parole, denunciare i pericoli per l'ambiente del modo di produzione (e distribuzione) capitalistico, cioè denunciare i "sintomi" sperando che ciò riesca a mobilitare le coscienze, è illusorio.
E' molto più proficuo, io credo, mobilitare gli interessi attualmente colpiti dall'ingiustizia di classe, i quali sono numerosi e diffusi sebbene non omogenei (lavoratori salariati e autonomi, pensionati, giovani precari, piccolo borghesi in via di impoverimento...).
La difficoltà consiste nel sottrarre questi ceti alla propaganda politica dei partiti di sistema, e nel formare un blocco sociale che interiorizzi la consapevolezza che, per difendere i propri interessi, è necessario che la scelta di "cosa produrre e con quali costi ambientali" deve essere sottratta agli interessi privati e restituita al confronto democratico.
In definitiva il mio pensiero è che le tematiche ambientaliste, sebbene oggettivamente urgenti per il potenziale catastrofico implicito in una loro sottovalutazione, ciò nonostante non possano che svolgere un ruolo "ancillare" nella battaglia politica. Credo che la diffidenza con cui viene accolto il contributo di Naomi Klein derivi da questo tipo di valutazioni.
Tuttavia ti devi misurare con il fatto che le mobilitazioni popolari più importanti degli ultimi anni hanno avuto a che fare con tematiche di tipo ambientale. Il caso dei no-tav è solo l'esempio più evidente (interessantissima l'esperienza di Taranto).
EliminaAnzi, ci sono molti dati che ci suggeriscono che i temi ambientali attirano l'attenzione delle masse ancor più di quelli sociali. Basti confrontare ai gli esiti dei referendum del 2003 sull'estensione dell'art. 18 con quelli sul nucleare del 2011.
Oggi il mainstream sul piano delle tematiche "classiche" attinenti al conflitto capitale-lavoro è fortissimo. Su quello delle tematiche ambientali è invece vulnerabile.
Ragionando sui numeri della partecipazione hai ragione, ma resta un approccio sbagliato. Quello giusto è il campo del conflitto capitale-lavoro. Soprattutto qui ed ora, in un momento in cui la crisi è sistemica e non congiunturale.
EliminaSe mi permettete un'ossevazione, non sono i temi che mancano, quello che manca è un'elite illuminata.
RispondiEliminaVi riporto un aneddoto sul famoso impresario circense Barnum. Barnum ad un intelllettuale che gli rimproverava la qualità del suo spettacolo, Barnum chiese: "Secondo lei qual'è la percentuale delle persone intelligenti sul totale della popolazione?" Il critico rispose: "non più del 5%". "bene-disse Barnum- io lavoro per tutti gli altri".
Sino a quando continueremo a credere nel potere taumaturgico delle masse, ma non saremo in grado di parlare alle masse con più efficacia non riusciremo a raggiungere nessun risultato.
Caro Marco, con tutto il rispetto il tuo commento mi sembra contraddittorio. Prima dici che "quello che manca è un'élite illuminata", poi concludi affermando che sino a quando "non saremo in grado di parlare alle masse con più efficacia non riusciremo a raggiungere nessun risultato".
RispondiEliminaMi chiarisci "CHI" dovrebbe parlare alle masse? Un'élite illuminata? Non basta un dibattito corretto e aperto, che guarda un po' è proprio quello che è venuto a mancare nel M5S, nelle cui file entrambi siamo transitati? In un dibattito corretto e aperto ci sarebbe spazio per "quelli che sanno poco" (e sono molti) ma anche per quelle che tu chiami "menti illuminate", o no? I primi, allora, potrebbero trasmettere alle masse ciò che apprendono da chi ne sa di più. Ovvio che il dibattito deve prevedere meccanismi di selezione delle idee che emergono come vincenti, guarda caso proprio quello che è venuto a mancare nel M5S, sia pure al netto di (recenti) posizioni che in parte sono giuste.
Insomma, caro Marco, qui e in altri luoghi da tempo si discute, mi sembra senza sbattere la porta in faccia a nessuno. Il problema, semmai, è un altro: perché tanti si attardano a pensare che basti proporre una collezione di provvedimenti condivisibili e popolari per fare una piattaforma politica?
Poi arriva uno da Rignano sull'Arno e frega tutti! Cosa vuoi che importi, a chi comanda, di togliere qualche privilegio ai suoi maggiordomi? Il popolo vuole facce nuove? No problem. Vuole meno corruzione? Vuole la mancetta per non sfasciare tutto? No problem. L'importante è che non pretenda di essere ben pagato e, soprattutto, di metter bocca nei giochi dei grandi.
Mi sembra che si stiano confondendo due piani completamente diversi l’uno dall’altro. Uno riguarda la Natura, l’altro riguarda i rapporti sociali. Il primo è “oggettivo”, indagabile mediante le scienze naturali, appunto. L’altro riguarda l’organizzazione della società, i rapporti di potere e i feticci che rappresentano gli elementi fondativi di una certa società.
RispondiEliminaUn modo di produzione ha sicuramente impatto sulla natura. Si può definire come il modo che l’umanità interagisce con la natura. La ricchezza, nel senso di Adam Smith (le cose utili e comode della vita) dipendono da due fattori: le risorse naturali e il lavoro umano. Il lavoro umano è la “forza ordinatrice”, cioè l’attività di pensiero e di manualità necessaria a creare i beni da consumare. Il minerale di ferro, così com’è presente in natura, non è utilizzabile. Occorre estrarlo, frantumarlo, separarlo, fonderlo secondo certi criteri, stamparlo, laminarlo, lavorarlo. Alla fine del ciclo, tenderà a ritornare nel suo stato di natura, ossidandosi, sbriciolandosi e combinandosi con altri elementi.
Quindi, l’organizzazione che una parte di umanità ha scelto per affrontare questo problema (il problema di sempre), storicamente è il capitalismo. Io credo che sia uno stadio evolutivo. Darwinianamente, l’evoluzione avviene quando ci si trova davanti a problemi che il vecchio assetto non è in grado di affrontare.
Non c’è dubbio che il capitalismo sia un sistema che ha tratto forza dal fatto di essere capace di sfruttare la natura come mai nessun altro sistema precedente. Un vincolo esterno che costringe l’umanità a logorarsi per produrre sempre più merci. Sono i meccanismi interni di questo sistema che portano a questa evoluzione. Involuzione si potrebbe dire quando oltrepassa i limiti di quello che è socialmente utile e di quello che è sopportabile dalla natura.
Tanto per rispondere alla domanda, e cioè per quale motivo, di fronte a questo sfacelo della natura (la California è senza acqua) non nasca un’opposizione sociale, la risposta sta nelle proposizioni precedenti. È chiaro che quella della Natura è una contraddizione di questo modo di produzione (l’altra riguarda i rapporti sociali). È altrettanto chiaro che non è affatto detto che andare oltre il capitalismo a causa di questa contraddizione, non vuol dire che si vada incontro ad un sistema umanamente accettabile. SI potrebbe pensare ad un sistema tirannico ad esempio (basta vedere cosa dice la Nestlé a proposito della gestione dell’acqua).
Orwell 1984