5. Che fare?
Dopo questo esame sulla natura del
fascismo, riprendiamo l’esame della situazione italiana. La domanda
naturale, a seguito delle analisi fin qui svolte, è naturalmente:
che fare? Come opporsi
al pericolo effettivo di dissoluzione
della società italiana? Se tale pericolo fosse quello del fascismo,
la risposta sarebbe chiara e dettata dalla storia: di fronte al
pericolo fascista occorre una
politica di unità antifascista, quel
tipo di politica che ha permesso la lotta del CLN e il trionfo
dell’antifascismo. E’ in sostanza questo il modello che viene
continuamente richiamato da molti
antiberlusconiani. Noi riteniamo che
questo modello sia oggi del tutto inapplicabile. Come l’attuale
capitalismo feudal-criminale, del quale il berlusconismo è
l’espressione più chiara, non è fascismo,
così l’opposizione alle dinamiche
distruttive di tale capitalismo non può definirsi antifascismo. Si
può anzi affermare che nell’attuale fase storica l’antifascismo
(in quanto, beninteso, pratica politica, e non assunto
etico-culturale) non sia più attuale. La tesi sull’esaurimento di
senso politico, nella realtà contemporanea, dell’opposizione
fascismo/antifascismo, si argomenta in maniera molto semplice.
L’antifascismo è definito dall’essere opposizione e contrasto
al fascismo e al nazismo. Ma il fascismo e il nazismo sono stati
sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale, e da allora non hanno più
alcuna esistenza storicamente significativa. Non c’è, da più di
sessant’anni, nessun fascismo da contrastare, e l’antifascismo
non ha quindi nessun senso. Le obiezioni a questa tesi possono
assumere forme molto diverse, ma in sostanza si riducono a due: in
primo luogo, si contesta l’assunto che oggi non esista più alcun
fascismo storicamente rilevante. In secondo luogo, si obietta che
difendere l’attualità dell’antifascismo significa in realtà
difendere gli ideali che hanno
ispirato la lotta antifascista e che
sono depositati nella Costituzione Italiana. Per cui chi riconosce il
valore di tali ideali (e fra questi vi sono gli autori di questo
saggio) perciò stesso riconosce l’attualità e il valore
dell’antifascismo. Esaminiamo allora queste due obiezioni.
La discussione sul fascismo svolta in
precedenza ci permette di capire in che senso affermiamo che oggi non
esiste nessun fascismo storicamente rilevante. Vogliamo dire che non
esiste nessun movimento politico storicamente rilevante che si
proponga un obiettivo di controllo politico totalitario della società
diretto alla mobilitazione e attivizzazione permanente delle masse
con lo scopo di coinvolgere le masse stesse in
una attiva politica di conquiste imperialistiche. Ovviamente, ci sono
oggi fascisti e nazisti, ma si tratta di piccole realtà
insignificanti. Nei casi in cui l’estremismo di destra è stato
coinvolto in progetti eversivi si è sempre trattato di piccole
realtà completamente subalterne a strategie organizzate e portate
avanti da forze di tutt’altra natura. La risposta a questi dati di
fatto, da parte di chi sostiene l’attualità dell’antifascismo,
sta in sostanza in un cambiamento del significato dei termini, per
cui si chiama “fascismo” ogni forza politica e ogni tendenza
culturale che abbia in comune col fascismo propriamente detto alcune
caratteristiche come la violenza, il rifiuto della democrazia e
dell’universalità dei diritti umani, il maschilismo, il sospetto
nei confronti della libertà della cultura e dell’elaborazione
intellettuale. Si tratta di una mossa abituale nella sinistra
italiana, nella quale è sempre stata operante la comoda tendenza a
qualificare come “fascista” chiunque esprimesse punti di vista
diversi da quelli egemoni all’interno della sinistra stessa. Questa
impostazione è chiaramente espressione di un errore logico,
paragonabile a quello contenuto nel seguente pseudo-ragionamento:
“tutti i salmoni sono pesci, quindi tutti i pesci sono salmoni”.
Se è chiaro l’errore contenuto nella frase appena enunciata,
dovrebbe anche essere chiaro come un errore dello stesso tipo sia
contenuto negli pseudo-ragionamenti di chi afferma che, poiché il
fascismo attacca la democrazia, allora chi attacca la democrazia è
fascista (per concludere magari che Berlusconi è fascista), e poiché
il fascismo è violento, allora chi è violento è fascista, e poiché
il fascismo è maschilista, allora chi è
maschilista è fascista. Questo errore
logico porta ad un sostanziale svuotamento della nozione di
“fascismo”, ridotta ad una astrazione priva di determinazioni
storiche.
L’altro argomento fondamentale di chi difende l’attualità
politica dell’antifascismo sta, come si è detto, nel rivendicare
l’attualità e il valore dei principi ideali che hanno ispirato la
lotta antifascista. Questo argomento ha un nocciolo di verità (che
è, appunto, il valore più che mai attuale dei principi emersi nella
lotta
antifascista e trasfusi nella nostra
Costituzione), ma si può mostrare come anch’esso contenga un
errore logico, dovuto in questo caso alla confusione di piani
diversi. E’ lo stesso errore che commetterebbe chi, volendo
difendere il valore dell’unità italiana, si definisse oggi
antiaustriaco, con la motivazione che storicamente l’unità
d’Italia è stata ottenuta con la lotta contro l’Austria.
L’errore sta nel confondere l’attualità di un certo insieme di
valori ideali con la contingenza storica nella quale quei valori si
sono concretamente affermati. E’ verissimo che in Italia alcuni
valori fondamentali di libertà si sono storicamente affermati nella
lotta antifascista, come è pure vero che il valore dell’unità
italiana si è affermato nella lotta contro l’impero
austroungarico. Ma da questo non ne discende che chi ritiene attuali
i valori in questione debba dichiararsi antifascista o antiaustriaco.
L’attualità di un insieme di valori va difesa contro chi li
minaccia, ma la minaccia
può essere diversa nelle diverse fasi
storiche. Così, chi oggi difende l’unità e la sovranità italiane
si dichiarerà forse antileghista, forse antieuropeista, o forse
qualcos'altro ancora: ma certamente non antiaustriaco. Allo stesso
modo, chi difende i valori che hanno ispirato la lotta antifascista,
e che sono stati depositati nella Costituzione italiana, deve
difenderli contro chi li minaccia: ma poiché, come s’è detto, non
c’è oggi nessun fascismo che minacci quei valori, non ha senso che
chi in essi si riconosce basi la sua identità politica attuale
sull'antifascismo. Non è difficile indicare concretamente da dove
vengono le minacce agli ideali che hanno animato la lotta contro il
nazifascismo. Basta ricordare che si tratta dei valori fondamentali
che si sono depositati nella nostra Costituzione: da una parte i
diritti liberaldemocratici tipici della tradizione moderna dello
Stato di
diritto, dall’altra i diritti sociali
rivendicati dalle lotte popolari e socialiste. Per cui nella nostra
Costituzione compaiono da una parte la sovranità popolare e i
diritti individuali, dall’altra, in varie
forme, i principi della giustizia
sociale e l’idea che l’economia deve svolgersi rispettando
principi di coesione sociale. Ricordiamo infine il ripudio della
guerra di aggressione, stabilito dall’art.11 della
nostra Costituzione. Esso contiene un
rifiuto dell’imperialismo, visto che quest’ultimo non può mai
prescindere dall’uso o dalla minaccia dell’aggressione militare.
Poniamoci la domanda: da dove vengono oggi le minacce a questi
valori? Abbiamo visto in questi ultimi decenni, in Italia e nei paesi
occidentali, un attacco generalizzato alle conquiste che i lavoratori
e in generale i ceti subalterni avevano ottenuto nella fase
precedente, quella del trentennio seguito alla Seconda Guerra
Mondiale. La direzione in cui si è
mosso il nostro mondo, con velocità diverse a seconda dei luoghi e
dei tempi, e in ogni caso accresciute dalla recente crisi economica,
è quello del ritorno ad un crudele capitalismo disegualitario del
tipo precedente appunto alla Seconda Guerra Mondiale. Un altro
fenomeno al quale abbiamo assistito negli ultimi decenni è quello
del tentativo statunitense di consolidare la propria egemonia
mondiale, sempre più debole sul piano strettamente economico,
attraverso un rinnovato militarismo aggressivo, che ha coinvolto
l’intero Occidente in guerre di aggressione. Questi due aspetti del
mondo moderno sono in chiara contraddizione con gli ideali della
lotta antifascista, depositati nella nostra Costituzione. Un altro
fenomeno di questi decenni è l’emergere del problema ecologico. Si
tratta di una tematica recente e quindi non presente nella
Resistenza antifascista. Possiamo però
affermare che la lotta contro la distruzione ambientale è coerente
con l’ispirazione che sta alla base della Costituzione e dei
documenti fondamentali
dell’ONU ispirati dalla lotta
antifascista: la difesa della dignità umana e dei diritti dei popoli
e dei gruppi oppressi implica in modo naturale la difesa
dell’ambiente nel quale vivono gli esseri umani.
Infine, per quanto riguarda l’Italia,
i fattori di crisi di civiltà che abbiamo fin qui elencato si
innestano su antichi problemi del nostro paese (scarso senso dello
Stato, sudditanza a potenze
straniere, tolleranza verso illegalità
e corruzione, per dirne solo alcuni) che non sono mai stati
affrontati. L’effetto combinato delle dinamiche internazionali e
dei difetti nazionali crea nel nostro
paese una situazione di profonda
disgregazione morale e civile nella quale gli attuali ceti dirigenti
(politici ed economici) cercano solo il proprio tornaconto personale.
Simbolo di tutto questo è
l’oscena casta politica italiana. La
conseguenza di queste considerazioni è che chi voglia combattere in
nome dei valori che furono della Resistenza antifascista deve
combattere contro le dinamiche socioeconomiche dell’attuale
capitalismo mondializzato, contro l’imperialismo statunitense,
contro la casta politica italiana. Questi sono i nemici. Ha senso
chiamare “fascismo” l’insieme di questi nemici? Evidentemente no. Il
capitalismo di per sé non è fascista, e sicuramente gli USA non
sono un paese fascista. Allo stesso modo, la classe dirigente
italiana non è fascista, nella sua grandissima maggioranza, ma anzi
proviene da partiti antifascisti. La conclusione è molto semplice:
se la difesa dei valori che furono della Resistenza antifascista
implica oggi il contrastare nemici che fascisti non sono, non ha
senso che tale difesa si caratterizzi come “antifascista”.
6. L’unità antifascista.
Un’azione di difesa del paese dal
processo di dissoluzione incipiente non può quindi trovare
fondamento nel modello dell’unità antifascista. Finora abbiamo
portato gli argomenti teorici, vediamo adesso qualche ulteriore
argomento più legato alla pratica politica.
La politica dell’unità antifascista
è stata la politica giusta nella situazione storica degli anni
Trenta e Quaranta. Questo fatto dipende però da quegli aspetti del
fascismo che abbiamo sopra esaminato, in sostanza dal suo essere una
forma di totalitarismo politico (per quanto non perfettamente
realizzata). Il totalitarismo politico per definizione è un
controllo totale di ogni forma di espressione politica. Ma allora
chiunque esprima pubblicamente, in qualsiasi forma, il proprio
antifascismo, sta già introducendo fessure nel monolite totalitario
e quindi sta già rischiando di persona. E’ questo il fondamento
dell’unità antifascista: tutti gli antifascisti possono unirsi,
dai monarchici ai comunisti, perché ciascuno, per il semplice fatto
di prendere posizione pubblica contro il regime, mette in crisi un
elemento essenziale del regime stesso (il totalitarismo) e ciascuno
per questo rischia la repressione.
Per dirla in un altro modo, in un
regime di totalitarismo politico non si può essere critici interni
al regime. Il totalitarismo impone che chi vuole fare politica deve
scegliere: o la piena integrazione ai dettami del regime o l’opposizione
aperta. Questo si può vedere confrontando le vicende di Galeazzo
Ciano e Ivanoe Bonomi. Dopo che l’alleanza fra Hitler e Mussolini è
ormai acquisita, Ciano acquisisce la convinzione soggettiva che tale
alleanza sia un clamoroso errore e decide di fare quanto è possibile
per ostacolarla. Ma in pratica non può fare nulla: non può
intervenire sulla stampa criticando le scelte politiche di Mussolini,
non può esplicitamente discutere le proprie idee all’interno del
partito, non può fare in sostanza nulla che Mussolini non voglia. La
sua volontà di opposizione non può tradursi in azione politica.
Ivanoe Bonomi, invece, tenta in vari momenti, negli anni Trenta, di
condizionare Mussolini, e lo fa a partire da idee non dissimili da
quelle di Ciano
(in sostanza: sottrarre l’Italia
all’alleanza con la Germania e alla guerra, accettare di dare
spazio politico ad un antifascismo moderato). Ma poiché Bonomi fa, o
tenta di fare, effettive azioni politiche, è immediatamente
emarginato e di conseguenza spinto verso l’antifascismo vero e
proprio.
Ripetiamo il punto essenziale: in un
regime di totalitarismo politico, non si può essere un oppositore
parziale, un critico interno. E’ questo a rendere efficace
all’epoca la politica dell’unità antifascista: in un regime di
totalitarismo politico la scelta di opporsi al governo è la scelta
di opporsi al complesso del potere, ed è quindi tutto quello di cui
c’è bisogno. Dovrebbe allora essere chiara la differenza con la
situazione odierna. Il regime di feudalesimo criminale che domina
oggi in Italia non ha nulla di totalitario nella sfera politica. Si
pensi, per capire la differenza, ai contrasti interni al PdL, che
sono contrasti fra feudi di malaffare e corruzione contrapposti.
Contrasti di questo tipo ve ne sono naturalmente anche nel fascismo e
nel nazismo, ma qui essi sono costretti entro una corazza rigida: non
è certo permesso a nessuno, nell’Italia o nella Germania degli
anni Trenta, di separarsi dal PNF o dal NSDAP per formare un altro
partito, per quanto alleato dei primi. Lo stesso succede,
naturalmente, in quell’altra forma di totalitarismo politico che è
il regime staliniano: ai congressi dei Partiti Comunisti la relazione
del Segretario è sempre approvata in maniera unanime, poi ognuno la
interpreta come giudica più conveniente. Insomma, in tutti questi
casi di totalitarismo politico vi è, al di sopra dei potentati in
lotta, un arbitrato vincolante che invece nel PdL non c’è.
Proprio questa situazione mostra come
manchino le basi per una politica di unità antifascista: il semplice
dichiararsi oppositore di Berlusconi non mette in questione l’attuale
regime, a differenza
dell'epoca fascista, quando dichiararsi
oppositore di Mussolini significava già contrapporsi al regime
allora esistente. Al tempo del fascismo anche un oppositore liberale
moderato è fuori del
sistema, nel nostro tempo del
feudalesimo criminale garantito dalla Casta politica anche un Vendola
è interno al sistema. Che cosa si ricava da questa differenza? Che
oggi pensare all'unità antifascista contro Berlusconi non solo è
sbagliato, perché Berlusconi non è fascista, ma è disastroso per
gli alleati che ci si può ritrovare. Si pensi a quanto abbiamo detto
nel paragrafo precedente su quali siano i veri nemici che dobbiamo
combattere. Nessuno è fascista: non lo sono gli Stati Uniti, non lo
sono le élites politiche ed economiche
del mondo attuale, non lo è la casta politica italiana. Una politica
di unità antifascista porterebbe dunque oggi all’alleanza con
tanti che sono i nemici più veri e pericolosi di chi voglia
combattere l’incipiente crisi di civiltà. E’ per questo che la
tesi dell’attualità dell’antifascismo in senso politico è,
oggi, ben più che un errore intellettuale. Un’ultima osservazione:
nell’ambito della sinistra, “fascista” non è un termine
scientifico che descrive una certa realtà storica, è piuttosto un
termine carico di significati emotivi. Qualificando
qualcosa come “fascista” si intende
squalificarla sul piano morale, si intende manifestare il proprio
rifiuto morale. “Fascista” è un termine peggiorativo, per cui,
simmetricamente, se noi diciamo che Berlusconi non è fascista,
sembra che questo voglia significare che lo stiamo difendendo o che
stiamo dicendo che non è così malvagio come molti pensano a
sinistra. Non è questa la nostra intenzione. Dire di qualcosa che
“non è fascista” non è da parte nostra una difesa. Si può
benissimo affermare che il totalitarismo dell’economia abbinato
all’insignificanza della politica, che è la sostanza del nostro
tempo, delinea una realtà sotto certi aspetti anche peggiore del
fascismo.
7. Alcuni esempi.
Il gravissimo errore rappresentato,
nella realtà del dopoguerra, dal mantenimento dell’antifascismo
come criterio attuale dell'azione politica lo si può capire da vari
esempi. Uno dei più evidenti è la politica del compromesso storico
perseguita dal Partito Comunista Italiano negli anni Settanta.
Ricordiamo di cosa si tratta. L’11 settembre 1973, in Cile, un
colpo di Stato militare, sostenuto dagli Stati Uniti, abbatte il governo
democraticamente eletto delle sinistre di Unidad Popular, uccide il
presidente Salvador Allende e instaura la feroce dittatura di Augusto
Pinochet. Questi avvenimenti hanno una forte eco in Italia, perché
l’esperienza cilena di una alleanza delle sinistre capace di
esprimere un governo progressista aveva suscitato nella sinistra
italiana grande simpatia e senso di affinità. Il fatto che tale
esperienza venga soffocata dalla violenza di un colpo di Stato sembra
rappresentare un cupo monito per la sinistra italiana. Il gruppo
dirigente del PCI legge questa vicenda come la sanzione
dell’impossibilità per una alleanza politica delle sinistre di
arrivare al governo dell’Italia, o di rimanervi, e propone allora
una alleanza fra le sinistre e la forza politica che aveva governato
l’Italia nel dopoguerra, cioè la Democrazia Cristiana. Si tratta
di una scelta politica che avrà effetti disastrosi per la sinistra e
per l’Italia. In quel momento in Italia, sotto l’effetto dei
grandi movimenti degli anni Sessanta, vi è una fortissima spinta al
cambiamento, e i partiti di governo, e in particolare la Democrazia
Cristiana, appaiono screditati e incapaci di tenere il passo coi
mutamenti nella società. Proponendo una politica di compromessi e
alleanze con i partiti al potere il PCI dilapida nel corso degli anni
Settanta il proprio prestigio di partito di opposizione e l’intero
capitale di spinta al cambiamento che agitava la società italiana di
quegli anni. Il fallimento della politica del compromesso storico è
totale: il PCI non riuscirà nemmeno ad accedere al governo, partiti
corrotti come la DC avranno ancora almeno un decennio di tempo per
continuare la loro opera di corruzione, prima di essere travolti da
Mani Pulite all’inizio degli anni Novanta, e in Italia non si
riuscirà ad avviare un mutamento del paese in senso progressista,
come era sembrato allora possibile. Non ci sembra eccessivo affermare
che molti dei mali attuali del nostro paese derivino dalla
disgraziata politica del compromesso storico, sostenuta dal PCI negli
anni Settanta[5]. Ma come è stato possibile che un rovesciamento
radicale di politica, dalla contrapposizione frontale alla DC alla
proposta di alleanze e compromessi, venga accettato dal corpo dei
militanti e dall’opinione pubblica influenzata dal PCI? E’ qui
che interviene, a nostro avviso, l’errore teorico dell’antifascismo
e dell’unità antifascista. Infatti il colpo di Stato cileno viene
visto come espressione di fascismo, il pericolo di un colpo di Stato
militare in Italia viene visto come un “pericolo fascista”, e la
politica di compromesso storico viene letta come una politica di
unità antifascista che serve a impedire la possibilità di un colpo
di Stato fascista. E’ solo inserendosi in questo meccanismo
ideologico di immediata presa sulle persone di sinistra, che la
politica di compromesso storico viene
fatta accettare. Se riprendiamo in esame l’evento che ha fornito lo
spunto iniziale alla politica del compromesso storico, cioè il colpo
di Stato in Cile,
cominciamo a capire dove sta l’errore
della lettura “antifascista”. Il punto fondamentale è che il
golpe cileno è certamente opera di forze interne al Cile, ma tali
forze possono vincere solo grazie al
fatto che si fanno strumento della
volontà statunitense. Sono gli Stati Uniti l’attore principale, e
il golpe è il risultato della volontà statunitense di affossare
l’esperienza di Unidad Popular. Le forze
politiche cilene più vicine agli USA,
come la Democrazia Cristiana cilena, in sostanza appoggiano il golpe
(la DC cilena passerà all’opposizione solo più tardi). Torniamo
allora all’Italia. C’era in
Italia in quel momento la possibilità
di un colpo di Stato come quello cileno? Probabilmente sì. Ma si
sarebbe appunto trattato di un evento come quello cileno, cioè di un
colpo di Stato voluto dagli
USA e operato dalle forze politiche
locali alleate dagli USA, cioè, in Italia, essenzialmente dalla DC
(o da parti della DC) e dai suoi alleati, eventualmente con la
collaborazione subalterna di
neofascisti veri e propri. E’ questo
il punto cruciale: la politica del compromesso storico, proposta allo
scopo di evitare un possibile colpo di Stato, da una parte non
individuava con chiarezza il
motore ultimo di un eventuale colpo di
Stato (gli USA), dall’altra proponeva l’alleanza proprio con le
forze politiche che sarebbero stati gli strumenti italiani del colpo
di Stato stesso. Si trattava di una evidente assurdità, che rendeva
completamente assurda, e destinata al fallimento, la politica del
compromesso storico. Ma questa assurdità ha potuto essere accettata
da buona parte dell’opinione pubblica di sinistra
proprio perché rientrava nello schema dell’antifascismo. Si vede
qui con chiarezza come questo schema rappresenti ormai un diaframma
che impedisce di cogliere la realtà, un vero e proprio ostacolo
cognitivo, e come esso generi di conseguenza drammatici errori
politici. L’esempio appena svolto della politica di compromesso
storico del PCI degli anni Settanta ci permette di capire uno dei
punti cruciali della discussione che stiamo svolgendo. Il punto
cruciale è il ruolo degli Stati Uniti. Abbiamo detto sopra che la
politica imperiale statunitense rappresenta oggi una delle principali
forze che spingono il mondo in una direzione opposta a quella
indicata dagli ideali che hanno ispirato la lotta antifascista,
ideali depositati nella nostra Costituzione. Chi si ispira a quegli
ideali deve dunque contrastare la politica imperiale statunitense.
Anche se gli Stati
Uniti non sono un paese fascista.
Prendendo in considerazione problemi politici di maggiore attualità,
l’insufficienza dell'antifascismo come criterio di azione politica
risulta confermata. Consideriamo ad esempio le aggressioni
statunitensi a Irak e Afghanistan. Si tratta di guerre
imperialistiche che vanno nettamente
contrastate da chi abbia a cuore gli ideali espressi dalla lotta
antifascista degli anni Trenta e Quaranta: i diritti dei popoli ad
opporsi all’oppressione, il rifiuto della guerra di aggressione. Ma
ha senso opporsi a queste guerre in nome dell’antifascismo? Da una
parte, gli USA in queste guerre assumono la figura dell’aggressore
imperialista, e in questo senso
ricordano certamente la Germania
nazista. Dall’altra parte con queste guerre gli USA hanno abbattuto
regimi politici che certamente non erano democratici, e questo
ricorda ovviamente il ruolo avuto dagli USA nella Seconda Guerra
Mondiale nell’abbattere i regimi fascisti europei. Ma allora gli
USA in queste guerre sono fascisti o antifascisti? Evidentemente non
sono né l’una né l’altra cosa, e ciò che questo esempio mostra
è appunto il fatto che non ha senso pensare alla realtà
contemporanea secondo lo schema fascismo/antifascismo. Se si rimane
all’interno di tale schema, semplicemente non si capisce più nulla
della realtà attuale.
8. Uso politico.
E’ evidente infatti che oggi l’accusa
di “fascismo”, privata di ogni concretezza storica, è solo uno
strumento di lotta fra frazioni contrapposte della nefasta casta
politica che ci affligge, in particolare è uno strumento della casta
di centrosinistra nella sua lotta contro la casta di centrodestra[6].
Si tratta di uno strumento perfettamente simmetrico a quello
rappresentato dall’accusa di “comunismo”, frequentemente
lanciata dai politici di centrodestra, e in particolare da Silvio
Berlusconi[7], nei confronti del centrosinistra. Ci si può chiedere
perché centrodestra e centrosinistra continuino ad agitare immagini
fantasmatiche di realtà storiche morte e sepolte, come appunto
comunismo e fascismo. Il punto qui è rappresentato
dal fatto che la casta politica, di destra, centro o sinistra, non
può parlare della realtà effettiva del paese, dei problemi reali
che affliggono il popolo italiano, perché da una discussione seria
su questi temi emergerebbe il carattere parassitario e distruttivo
della casta stessa, assieme alla sostanziale futilità delle sue
contrapposizioni interne (fra centrodestra e centrosinistra). Le due
frazioni della casta si inventano allora gli inesistenti “comunisti”
o “fascisti” per spostare il dibattito dal piano della realtà,
nella quale i ceti popolari
sono attaccati dalle devastanti
politiche portate avanti dai governi di ogni colore, mentre destra e
sinistra fanno tranquillamente i loro affari litigando sulla
spartizione del bottino, a un piano onirico nel quale il popolo di
sinistra può sognare di essere l’ultimo baluardo contro il
fascismo, e il popolo di destra può sentirsi protetto, grazie a
Berlusconi, dai pericolosissimi comunisti. Per combattere la crisi di
civiltà cui questo sistema ci sta portando, e al suo interno la
gravissima crisi morale, sociale,
politica ed economica del nostro paese,
bisogna per prima cosa ricominciare a parlare della realtà, e
contrapporsi frontalmente all’insieme della casta politica
italiana, in tutte le sue fazioni. E’ urgente oggi la nascita di
un’area culturale e politica di radicale opposizione nei confronti
delle dinamiche mortifere del capitalismo contemporaneo, delle
politiche imperiali statunitensi, dell’insieme della casta politica
italiana. Agitare lo spettro del fascismo, chiamando all’unità
antifascista, ha esattamente lo scopo di impedire la nascita di
un’area di questo tipo e di mantenere legate al ceto politico di
centrosinistra quelle fasce di opinione pubblica che si stanno da
esso distaccando.
Genova-Pisa, fine 2010-inizio 2011
[5]
Questo
giudizio deve essere precisato nel senso seguente. In primo luogo i
tanti mali attuali del nostro paese hanno sotto certi aspetti radici
più lontane, sotto altri più recenti, rispetto agli anni Settanta
del Novecento: ciò che è sfuggito, in quegli anni, è l’occasione
di un'autentica politica riformatrice che cominciasse ad affrontarli.
In secondo luogo, nessuno può ovviamente sapere se una diversa
politica da parte del PCI avrebbe avuto successo oppure no. Di certo,
la politica del compromesso storico ha significato non tentare
neppure una battaglia per un rinnovamento dell'Italia di cui il PCI
era, evidentemente, strutturalmente incapace.
[6] Un paio di esempi recenti dell’uso
della nozione di “fascismo” in senso antiberlusconiano: sul
“Fatto Quotidiano” del 21 maggio 2010 Paolo Flores D’Arcais
afferma che la legge sulle intercettazioni rappresenta “un primo
tassello di un vero e proprio FASCISMO” (scritto proprio così, con
le maiuscole). Su “Repubblica” del 25 agosto 2010 Dario
Franceschini fa un esplicito paragone con la Resistenza per sostenere
la necessità di una “grande alleanza” antiberlusconiana.
[7] Chi volesse prendere sul serio le
parole di Berlusconi, dovrebbe concludere che si tratta dell’unico
importante uomo politico occidentale che crede nell’esistenza del
comunismo.
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