Ripubblico, in due parti, un saggio su "Berlusconi, fascismo, antifascismo", scritto con Massimo Bontempelli fra fine 2010 e inizio 2011. Al di là delle analisi del fenomeno Berlusconi, credo che esso possa oggi risultare interessante sia per l'analisi di alcuni dati di fondo della realtà italiana, sia per una discussione sul tema fascismo/antifascismo, che periodicamente ritorna di attualità. La sezione 3 è dovuta interamente a Massimo.
(M.B.)
1. Introduzione
L’autunno del 2010 verrà ricordato
come l’inizio dell’autunno o del tramonto di Berlusconi. Il
segnale più evidente di questo tramonto è forse l’attacco che i
giornali da lui dipendenti hanno sferrato, all’inizio di ottobre,
contro Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria. Si tratta
evidentemente di una mossa disperata, dovuta all’incapacità da
parte di Berlusconi di gestire i problemi e gli scontri interni ai
ceti dominanti italiani. E’ del tutto ovvio che egli non può
permettersi, senza minare le basi del suo potere, di attaccare i
poteri rappresentati dalla Confindustria, e di portare lo scompiglio
e l’insicurezza fra gli stessi vertici del potere reale nel
nostro paese.
Il ciclo degli ultimi quindici anni
della vita italiana, dominato, sul piano dell’immaginario diffuso,
dalla “discesa in campo” di Berlusconi e dall’antiberlusconismo
delle sinistre, ha segnato lo sprofondare del nostro paese in una
declino sociale, civile e morale che si è tradotto in una ulteriore
perdita di diritti dei lavoratori, in un costante abbassamento del
reddito reale dei ceti medi e bassi, nella disgregazione del tessuto
connettivo del paese, nel diffondersi della corruzione, nel controllo
da parte della criminalità organizzata di vaste zone del territorio
nazionale. Si tratta di fenomeni che stanno ormai mettendo in
pericolo la coesione sociale e l’unità politica del paese.
Chi voglia opporsi a questa decadenza
deve elaborare una interpretazione chiara e convincente di quanto sta
accadendo, e noi intendiamo cominciare. Nel fare questo tenteremo di
rispondere a tre domande. La prima: Berlusconi rappresenta un
effettivo pericolo per la democrazia? E’ possibile cioè che, di
fronte alla prospettiva della propria definitiva sconfitta,
Berlusconi tenti la carta di una eversione della democrazia? La
seconda: se si ammette il pericolo di una “dittatura
berlusconiana”, ha senso allora parlare del berlusconismo come di
una forma di fascismo? E infine ha senso, per combattere un tale
“fascismo berlusconiano”, proporre lo schema dell’unità
antifascista fra tutte le forze che si oppongono a Berlusconi? Si
tratta, come è evidente, di domande alle quali è necessario
rispondere se si vuole elaborare una strategia politica che blocchi
la decadenza del nostro paese e allontani lo spettro della
dissoluzione politica, sociale e morale della nazione italiana. Per
chiarezza, anticipiamo subito le nostre risposte a queste tre
domande. In primo luogo, riteniamo che Berlusconi rappresenti davvero
un pericolo per la democrazia, e che la possibilità di una
“dittatura berlusconiana” non sia esclusa. In secondo luogo,
riteniamo che tale dittatura non avrebbe nulla di “fascista”, e
che non avrebbe quindi senso proporre lo schema dell’unità
antifascista contro di esso.
Nel seguito cercheremo di argomentare
queste tesi.
2. Feudalità criminale.
La realtà sociale e politica
dell’Italia di oggi è espressione di fenomeni generali che fanno
parte della fase attuale del capitalismo, ma possiede anche una sua
specificità, legata sia ad aspetti storici di lunga durata sia alle
dinamiche politiche degli ultimi anni. Volendo descrivere alcune di
queste caratteristiche generali del mondo contemporaneo, abbiamo in
passato usato le espressioni “capitalismo assoluto” o
“totalitarismo capitalistico”[1]. Con esse intendiamo indicare il
fatto che il rapporto sociale capitalistico è divenuto “assoluto”,
cioè non ammette più nessuna (relativa) autonomia di istituzioni
non economiche. Lo Stato diventa un’azienda, gli ospedali e le
scuole diventano aziende, le stesse più intime relazioni umane
devono venir gestite in termini
“aziendali”. Questo totalitarismo
ha come ovvio effetto lo svuotamento di ogni senso della politica. Se
ogni decisione sull’economia è imposta dai mercati e tolta alla
politica, quest’ultima si riduce ad una attività vacua e
autoreferenziale. E questo è esattamente quello che succede: in
tutto il mondo del capitalismo avanzato il ceto politico tende a non
incidere minimamente sulla realtà sociale, che è abbandonata alle
dinamiche dell’economia capitalistica. La politica in sostanza deve
solo garantire la dinamica economica da ogni interferenza contraria,
e raggiunge questo risultato appunto con la propria
autoreferenzialità che la rende impermeabile alle sofferenze e ai
conflitti che la dinamica economica fa sorgere nella società. In
cambio di questa garanzia il ceto politico può
vivere parassitariamente a spese della
ricchezza sociale. Questa configurazione della realtà sociale vale
per tutto il mondo occidentale. Ad essa si aggiungono però, in
Italia, quelle specificità alle quali abbiamo sopra accennato. Per
comprenderle, occorre partire dal fatto che in Italia vi è una
tradizione storica per la quale la politica è una forma abbastanza
diffusa di sbocco occupazionale dei ceti medi. Le origini di questa
particolarità storica andrebbero probabilmente ricercate nel modo
stesso in cui si è sviluppato in Italia il capitalismo industriale,
con un forte intervento statale, ma per non andare così lontano
basterà ricordare come questo aspetto della politica in Italia sia
stato
molto visibile durante il fascismo:
Mussolini riuscì infatti a neutralizzare gli aspetti più eversivi
del movimento fascista, e a fare del Partito fascista una semplice
cassa di risonanza propagandistica della sua gestione per via
burocratica dello Stato, grazie alla trasformazione dei quadri
fascisti in funzionari stipendiati di enti statali o dello stesso
Partito Nazionale Fascista. Se nell’immediato dopoguerra questo
processo conosce una battuta d’arresto, perché il ceto politico
emerso dalla Resistenza esprime una cultura diversa, esso però
riprende rapidamente con la creazione degli apparati dei vari partiti
di massa. L’episodio emblematico di tale processo è lo scontro che
nella DC, poco prima della morta di De Gasperi, vede protagonisti lo
stesso De Gasperi e Fanfani. Quest’ultimo vuole in sostanza che il
partito si crei una base elettorale indipendente dalla Chiesa, e per
questo ha bisogno di un ceto di funzionari stipendiati che viene
creato sfruttando le risorse occupazionali dell’amministrazione
pubblica. Gli altri partiti di massa della Prima Repubblica
imiteranno il modello democristiano. A partire da queste premesse,
attraverso una dinamica storica che sarebbe troppo lungo ricostruire
qui, siamo arrivati alla situazione attuale, nella quale il ceto
politico italiano appare come uno dei più estesi, dei più corrotti
e dei più rapaci dell’intero mondo occidentale. Questo particolare
fenomeno si deve alla sostanziale impunità di cui la corruzione
politica ha potuto godere in Italia, con l’eccezione di pochi casi
isolati e del momento storico di Mani Pulite. Le ragioni di questa
sostanziale impunità stanno probabilmente in aspetti “di lunga
durata” dell’Italia, che da molto tempo sono stati indicati
all’attenzione pubblica (mancanza di senso dello Stato, “familismo
amorale”). Il punto che qui vogliamo sottolineare è che, in
presenza di una occupazione delle strutture pubbliche da parte dei
partiti, la sostanziale impunità della corruzione genera un ceto
politico che si espande sempre di più. Infatti, in mancanza di
repressione dei comportamenti illegali, la forza di cui ciascun
politico dispone nelle lotte per il potere è direttamente
proporzionale alle dimensioni delle propria corte di clienti. Il
progressivo estendersi di queste corti clientelari, dovuto anche al
progressivo venire meno, in larga parte dell’opinione pubblica, di
ogni tipo di resistenza alla corruzione generalizzata, crea alla fine
un problema di risorse. Le stesse risorse statali diventano
insufficienti e il ceto politico, per finanziarsi, si introduce nel
mondo dell’economia, non ovviamente per dirigerla o indirizzarla
(il che sarebbe in contrasto, come dicevamo all’inizio, con la
natura stessa della politica contemporanea), ma per diventare
mediatore d’affari e lucrare guadagni. Questo avviene in tanti modi
diversi, per esempio grazie
al controllo del territorio di cui
dispone il politico e al fatto che è necessaria la sua mediazione
per mettere in opera progetti di costruzioni di un tipo o dell’altro,
oppure grazie alla possibilità per
il politico di far saltare agli
imprenditori “amici” le lungaggini burocratiche effettivamente
presenti in Italia. Il fenomeno Berlusconi si inserisce in questa
dinamica e ne rappresenta la summa perfetta.
La sostanza del
“fenomeno Berlusconi” ci sembra infatti la seguente: Berlusconi è
riuscito a scalare tutti i gradini del potere economico e politico
perché ha saputo trarre decisivi vantaggi competitivi da una
sistematica e sfacciata violazione di ogni regola esistente. Negli
anni Sessanta era soltanto un palazzinaro di modeste risorse, a cui
spesso difettavano i denari da investire in nuove costruzioni. Benché
partito da questa modesta base economica, negli anni Settanta è
diventato il più grande imprenditore edile milanese, perché non ha
rispettato quasi nessuna regola dell'attività edilizia legale, e
perché i suoi cantieri hanno veicolato capitali della mafia
siciliana.
Berlusconi non era un mafioso, ed
all'inizio è stato piuttosto ricattato dalla mafia palermitana dei
Bontade, ma questo rende ancora più significativo il fatto che egli
si sia affermato violando le
regole, perché lo ha fatto sfruttando
una situazione esistente che gli consentiva di farlo. Negli anni
Ottanta è diventato il più grande imprenditore televisivo italiano
perché ha violato le regole allora
esistenti sull'emittenza televisiva,
sancite addirittura da una sentenza della Corte Costituzionale del
1976. Anche in questo caso, lo ha fatto perché poteva farlo, in
quanto era protetto dal governo sfacciatamente corrotto di Bettino
Craxi, al quale in cambio offriva il sostegno delle sue televisioni.
Negli anni Novanta, prima ancora di presentarsi alle elezioni con un
suo partito, ha manovrato grandi risorse finanziarie (senza le quali
non avrebbe potuto primeggiare anche in politica) grazie a molteplici
illeciti finanziari e a massicce evasioni fiscali, sfruttando la nota
tolleranza dello Stato italiano verso gli evasori. L'intera vicenda
mostra che Berlusconi non è l'uomo che ha inventato i mali italiani,
ma è quello che ha saputo trarne il massimo vantaggio, e che, di
conseguenza, ha contribuito ad aggravarli e diffonderli. Berlusconi,
in altre parole, è emerso ai vertici del potere italiano sull'onda
di un preesistente e contestuale sviluppo, nel nostro paese, di un
“capitalismo mafioso” associato ad uno Stato debole. Parliamo di
capitalismo mafioso non nel senso stretto della parola, cioè di un
capitalismo i cui capitali provengano dai guadagni delle attività
della criminalità organizzata, ma in un senso più lato e
significativo. Può considerarsi mafioso un capitalismo predatorio di
risorse pubbliche, di cui ci si appropri, al di fuori di ogni regola
pubblica, uscendo vittoriosi dagli scontri tra contrapposti interessi
privati. Per il capitalismo mafioso così inteso è essenziale un
controllo sulla politica, per controllare la concessione degli
appalti e l'erogazione della spesa pubblica. Ciò presuppone, a sua
volta, uno Stato debole, dove per “debole” si intende qui
politicamente incapace di dettare e far rispettare regole generali
che disciplinino il perseguimento degli interessi economici
particolari. L'egemonia politica di Berlusconi è quindi stata
espressione dell'ascesa al potere di una serie di potentati
affaristici interni al capitalismo mafioso nell'accezione suddetta.
Alla luce di questo contesto dell'egemonia politica di Berlusconi,
appare chiaro il motivo profondo del suo attuale tramonto. Nessun
regime istituzionale, infatti, può reggersi di fronte alla
violazione totale e sistematica di ogni vincolo di natura pubblica.
Ogni regime conosce fenomeni più o meno estesi di illegalismo
rispetto ai suoi propri principi di legalità. Se però l'arbitrio
dei suoi poteri diventa l'unico principio regolatore dei rapporti
economici e sociali, l'organizzazione sociale e politica si sfalda
alla fine, necessariamente, in una arena di feudi
affaristico-criminali in reciproco
conflitto almeno potenziale. Il capitalismo mafioso, inteso nel senso
lato sopra indicati, si evolve quindi in una sorta di feudalesimo
criminale. La realtà dei ceti dominanti oggi in Italia, al tramonto
di Berlusconi, si presenta quindi come una labile confederazione di
potentati politico-imprenditoriali, in continua lotta per le risorse
da accaparrare. Il sostanziale illegalismo di questi potentati
esprime il carattere fortemente instabile della situazione. Un
rispetto (sempre parziale e relativo) della legalità significa
infatti, per i ceti dominanti, la protezione dagli effetti altrimenti
devastanti dei loro conflitti. L’illegalismo significa che nessuna
regola è rispettata e in questa situazione nessuna configurazione
del potere può essere protetta.
Tutto ciò crea per la democrazia
italiana un pericolo di tipo nuovo. L’insieme di questo mondo della
corruzione politico-imprenditoriale ha bisogno di un potere politico
che renda intoccabile la corruzione rendendo inoffensive e inoperanti
le varie forme di controllo di legalità degli atti sociali. Poiché
questo non si può fare all’interno del quadro delle regole di uno
Stato di diritto, appare evidente che il mondo della corruzione
politico-imprenditoriale rappresenta la base sociale di una possibile
dittatura. Le caratteristiche di questa dittatura sarebbero
naturalmente diverse da quelle delle dittature del Novecento. Invece
di attivizzare le masse inquadrandole nei ranghi del Partito-Stato,
la nuova dittatura cercherebbe la completa riduzione dei cittadini a
fruitori passivi dello Spettacolo. E l’obiettivo unificante di una
tale dittatura non sarebbe né la gloria della Nazione né la
Rivoluzione Proletaria, ma l’abbattimento di tutti i poteri di
controllo sulla corruzione dei potenti. Si tratterebbe inoltre, come
abbiamo accennato sopra, di una dittatura poco stabile, perché
basata su
potentati in feroce lotta fra di loro
per le risorse. Una tale dittatura non verrebbe realizzata attraverso
una presa violenta del potere (la marcia su Roma), ma attraverso lo
stravolgimento del normale funzionamento dei meccanismi
istituzionali. La Costituzione della Repubblica Italiana prevede
infatti, come tutte le Costituzioni liberaldemocratiche, meccanismi
di controllo che impediscono ad una maggioranza governativa di
eccedere i limiti stabiliti del proprio potere e di conculcare i
diritti della minoranza e dei cittadini in genere. Si tratta dei
meccanismi che oggi vengono comunemente indicati con la formula
inglese dei checks and balances. Il punto è che nella nostra
Costituzione tali meccanismi sono strettamente collegati al fatto che
i Padri costituenti avevano immaginato per l’Italia un meccanismo
elettorale di tipo proporzionale, nel quale quindi un singolo partito
aveva scarse possibilità di conquistare larghe maggioranze. Dato
questo punto di partenza, la principale forma di controllo inserita
nella nostra Costituzione è legata al fatto che una serie di
meccanismi cruciali per l’equilibrio istituzionale (elezione del
Presidente della Repubblica, cambiamenti della Costituzione),
richiedono larghe maggioranze e quindi, all’interno di un
meccanismo di voto proporzionale, richiedono l’accordo fra forze
diverse, rendendo quindi difficile che la singola forza politica
possa occupare tutti questi punti nevralgici. Lo stravolgimento del
sistema elettorale italiano, con l’abolizione del meccanismo
proporzionale, ha eliminato questi delicati meccanismi di controllo,
rendendo quindi possibile uno stravolgimento della Costituzione
operato senza formalmente trasgredirla. Si può infatti pensare ad
una elezione che venga largamente vinta da Berlusconi e che dia vita
ad un Parlamento largamente sotto il suo controllo, che lo elegga
Presidente della Repubblica e che gli
sottometta la maggioranza dei giudici della Corte Costituzionale. In
tale situazione il Parlamento potrebbe votare qualsiasi legge che
stravolga
totalmente la nostra Costituzione ed
essa verrebbe approvata sia dal Presidente della Repubblica sia dalla
Corte Costituzionale. Esiste la possibilità che Berlusconi diventi il
dittatore di una tale
dittatura. Non è lo scenario secondo
noi più probabile, nella situazione odierna (autunno 2010). E’
infatti evidente che i ceti dominanti italiani hanno deciso di
liberarsi del personaggio Berlusconi, ed è pure evidente che egli
non gode dell’appoggio degli Stati Uniti, che hanno sempre
giudicato negativamente i suoi rapporti con la Russia di Putin. Pur
non essendo l’eventualità più probabile, la dittatura
berlusconiana è comunque una possibilità. Berlusconi si trova
infatti in una situazione nella quale non esiste per lui alternativa
tra una discesa nella rovina politica e personale e un’ascesa
all’esercizio di una dittatura di fatto. E’ ovvio come in una
tale situazione tutti i suoi comportamenti pubblici siano suscitati
da una pulsione incoercibile a stravolgere ogni regola costituzionale
che si frapponga come ostacolo all’ascesa. Se tale stravolgimento
fosse portato a compimento, ci ritroveremmo nella situazione appena
indicata, con quest’uomo superficiale, vacuo, privo di ogni base
culturale e senso dello Stato, nell’alto seggio di Presidente della
Repubblica, circondato da un parlamento con una maggioranza disposta
a fare tutte le leggi da lui volute, e da una Corte Costituzionale
riempita di membri da lui dipendenti, e mai disposta, quindi, ad
abrogare le sue leggi anche se palesemente incostituzionali. La
situazione attuale di Berlusconi mostra una certa analogia con quella
di Mussolini nel ’24, all’indomani dell’omicidio Matteotti.
Anche in quel caso, vi erano evidenti segni di un inizio di
sfaldamento del partito di regime, con passaggi all’opposizione di
diversi suoi esponenti. Anche in quel caso, la tensione politica era
accentuata da problemi giudiziari del capo del governo (Mussolini
aveva ricevuto tangenti dalla ditta petrolifera Sinclair Oil, una
controllata della Standard Oil). Anche in quel caso, in sostanza, il
capo del governo si trovava costretto alla scelta fra la rovina
politica e personale e l’abbattimento delle regole democratiche con
conseguente creazione di una dittatura personale. Sappiamo come
finirono le cose allora. Oggi, l’unico esito che potrebbe salvare
Berlusconi sarebbe la creazione di una dittatura, nelle forme sopra
indicate. Una simile dittatura sarebbe nata da, e si eserciterebbe
su, una società eticamente collassata, tenuta insieme dai circuiti
del consumismo e dello spettacolo, con una parte della popolazione
sempre più privata di lavori, redditi, consumi e servizi, e quindi
sempre più marginalizzata dai processi sociali e ridotta ad elemento
della loro disgregazione, ed un’altra parte della popolazione
capace di ottenere e consumare risorse attraverso meccanismi
corruttivi. La questione di fondo per voglia combattere contro la
dissoluzione dell’Italia sta però in questo: anche se
l’eventualità di una dittatura berlusconiana non dovesse
verificarsi, e Berlusconi fosse costretto a uscire di scena in un
modo o nell’altro (e questo, ripetiamo, è ciò che riteniamo più
probabile), il sistema di feudalesimo criminale che ha portato al
potere Berlusconi non verrebbe intaccato, e il pericolo che esso
rappresenta per l’Italia non verrebbe scalfito. Dall’analisi che
abbiamo sopra svolto si possono infatti trarre precise indicazioni
per il futuro, che sono le seguenti.
In primo luogo, la fine dell'egemonia
politica di Berlusconi non rappresenterà alcun indebolimento di quel
capitalismo mafioso su cui la sua egemonia è stata costruita. Le
forze sociali costitutive del berlusconismo rimarranno forti ed
operanti come prima. In secondo luogo, le tensioni interne al
capitalismo mafioso che sono all'origine del tramonto di Berlusconi
non verranno attenuate, ma si riproporranno addirittura accentuate,
sia per il crescente morso della crisi economica, sia per l'uscita di
scena di Berlusconi. Fino ad ora, infatti, tali tensioni sono state
attenuate proprio perché si sono trasferite sul personaggio
Berlusconi, creando l'illusione prima che potessero essere regolate
in maniera soddisfacente dal suo potere arbitrale, poi, che, rimosso
Berlusconi, sparirebbero diversi problemi creati soltanto dai suoi
interessi personali. Naturalmente non sarà così. Dopo Berlusconi continueranno come prima, ed anzi più
di prima, gli scontri fra cordate affaristico-mafiose prive delle
risorse con cui soddisfare la fame di tutte, e tra gruppi sociali
sempre più estesi investiti dal
malessere sociale. Assisteremo ad uno
sgranarsi di episodi di guerra civile strisciante, non tra partiti o
ideologie, ma tra gruppi sociali e territoriali. In terzo luogo, i
governi che succederanno a quelli di Berlusconi potranno essere molto
più decenti e presentabili sul piano interno e internazionale. Il
loro modo di operare all'interno dei palazzi del potere sarà
certamente meno scorretto, sguaiato e indecente di quello dei
ministri dell'epoca berlusconiana. Tuttavia non saranno assolutamente
in grado, per ragioni che qui sotto molto succintamente esponiamo, di
contrastare la virulenza e la
proliferazione del capitalismo mafioso
che sta divorando l'Italia, e quindi di arrestare i processi di
decadenza civile e sociale del paese.
L'errore più grave che si possa
commettere in questa situazione è infatti quello di considerare
ragionevole che forze interne all'attuale ceto politico possano, dopo
aver scalzato Berlusconi, invertire l’attuale tendenza alla
decadenza. Si tratta di un'illusione ottica creata da una forte e
naturale pressione emotiva: cosa può esserci di peggio di un
Berlusconi che capovolge la situazione e riconquista governo e
maggioranza? Cosa ci può essere di più orrendo di una maggioranza parlamentare che elegga Berlusconi Presidente della Repubblica, e
quindi “custode e garante” della Costituzione? Cosa ci può essere di
più pericoloso di una dittatura berlusconiana sulla vita politica
del paese? Questi esiti appaiono così ripugnanti ad ogni persona
sensata da far pensare che valga
la pena, pur di evitarli, di promuovere
alla guida del governo persino capi politici come Bersani, Rutelli,
Casini e Fini. Chiunque, insomma, andrebbe bene purché Berlusconi
uscisse dalla scena.
Se ci si affida alla razionalità si
può capire quanto questa impostazione sia sbagliata. Per comprenderlo facciamo un passo indietro nella storia di questo paese.
Berlusconi ha conquistato la guida del governo una prima volta con le
elezioni del marzo 1994, sull'onda di un sostegno popolare assai
vasto, che aveva però il suo asse portante nelle forze e nelle
capacità di influenza del capitalismo mafioso. Ciò nonostante il
suo governo è durato soltanto dieci mesi, e nel 1995 l'evoluzione
della vita politica italiana sembrava averlo messo definitivamente da
parte. Il suo ritorno alla guida del governo nel 2001, con maggiore
stabilità e più penetranti poteri, è avvenuto perché negli anni
Novanta il capitalismo mafioso si è rafforzato e maggiormente
diramato nel paese. In quegli anni, però, non ha governato la
destra, ma il centro-sinistra, con maggioranze estese fino a
Rifondazione comunista. La logica implicazione di ciò è che i
governi di centro-sinistra non hanno contrastato, ma anzi favorito,
lo sviluppo delle forze sociali a cui Berlusconi apparteneva e da cui
traeva sostegno. Sei anni di governi con maggioranze di
centro-sinistra, dunque, hanno concimato il terreno per i successivi
trionfi berlusconiani. Né è difficile trovare fatti che
costituiscano prove decisive di ciò che abbiamo visto implicato
dalla stessa logica dell'intera vicenda. Secondo il senso comune di
sinistra, uno dei migliori governi dell'epoca è stato quello diretto
da Carlo Azeglio Ciampi. Non c'è dubbio che Ciampi sia una persona
sobria ed individualmente per bene (lontanissimo dall'indecenza dei
“berluscones”), e tuttavia è stata la sua legge bancaria,
emanata con decreto legislativo del 1° settembre 1993, ad aprire
alle banche le praterie delle acquisizioni azionarie di società
industriali e delle speculazioni finanziarie, fornendo così un
alimento decisivo allo sviluppo del capitalismo mafioso. Ed è stato
il decreto-legge di Ciampi del 24 settembre 1993 a sancire che per le
privatizzazioni che stavano per essere avviate non dovessero valere
le regole della contabilità generale dello Stato, aprendo la strada
alle svendite sottocosto e corruttive dei beni pubblici. Grazie a
questa legge l'IRI di Romano Prodi ha potuto consegnare a prezzi
irrisori, alla fine del 1993, una delle maggiori banche pubbliche
italiane, il Credito Italiano, a una cordata di finanzieri italiani e
stranieri (che l'hanno pagata in parte con danaro prelevato dalla
banca stessa), dando così una spinta decisiva ad una
finanziarizzazione dell'economia funzionale allo sviluppo del
capitalismo mafioso. Il primo governo Prodi, uscito dalle elezioni
del 1996, che nel senso comune della sinistra passa come uno dei
migliori governi dell'ultimo ventennio, ha dato il massimo impulso
alla finanziarizzazione dell'economia ed al capitalismo mafioso con
la sciagurata privatizzazione della STET nel 1997, senza la quale non
avrebbe potuto verificarsi, anni dopo, il saccheggio della Telecom da
parte di Tronchetti Provera, e l'uso della Telecom stessa per
finalità illecite. Naturalmente ognuno di questi punti, e diversi
altri ancora, andrebbero analizzati più in dettaglio, cosa che qui
non è sensato fare [2]. Quel che vogliamo dire è che l'epoca dei
governi del centro-sinistra degli anni Novanta non ha favorito la
rinascita di Berlusconi soltanto in quelli che sono considerati
dall'opinione pubblica di sinistra i suoi “errori” (il non aver
affrontato la questione del conflitto d'interessi di Berlusconi ed
averlo legittimato come padre costituente nella Bicamerale di
D'Alema), ma l'ha favorita anche e soprattutto con tante scelte di
promozione del capitalismo mafioso che quell'opinione pubblica di
centrosinistra ha voluto dimenticare. Berlusconi, sconfitto alle
elezioni del 2006, è tornato al governo più prepotente di prima
dopo altri due anni di governo Prodi. Insomma, ogni volta che ha
governato il centro-sinistra, non ha fatto che preparare la strada al
ritorno di una destra ancora più incarognita. Tutto ciò dipende dal
fatto che il ceto politico di centro-sinistra non ha, per ragioni che
tra poco diciamo, i mezzi culturali, le competenze, e le intenzioni
concrete, di modificare le linee di tendenza dello sviluppo
socio-economico. Ma se queste tendenze non vengono modificate,
l'Italia non può che precipitare sempre più nel baratro. In maniera
del tutto indipendente dal fatto che chi la dirige sia una
personalità indecente come Berlusconi, o una personalità più o
meno presentabile o addirittura soggettivamente in buona fede. La
lotta contro Berlusconi è inutile se non pone al centro dell’agenda
la bonifica del terreno da cui nasce il berlusconismo, cioè il
terreno della dilagante corruzione politico-imprenditoriale. Se non
si bonifica questo terreno, l’eventuale caduta di Berlusconi non
risolverà nulla, e i fenomeni degenerativi che ora associamo al nome
di Berlusconi si riprodurranno in seguito a percorsi oggi
imprevedibili.
Torniamo alla situazione del nostro
paese. L'Italia sta precipitando in un baratro spaventoso perché
disfatta da un triplice collasso: della sua coesione sociale
(crescenti ineguaglianze di reddito, devastante precarizzazione del
lavoro e della vita, assenza di tutele sociali), del suo territorio
(inquinamento dell'aria, dei suoli e delle acque, dissesto
idrogeologico, invasione dei rifiuti), e della sua vita civile (corruzione
generalizzata e capillare, giustizia lenta e costosa, mancanza di
senso morale nelle relazioni sociali, inversione tra meriti e
demeriti).L'esito più probabile di futuri governi (siano essi
governi ancora berlusconiani oppure no) sarà, quindi, un caos sempre
più accentuato e la deriva del paese, magari più lenta, verso la
condizione di una specie di Somalia più sviluppata e meno
insanguinata. Sicuramente non è questo l'esito gradito ai poteri che
si sono ora orientati a scalzare Berlusconi ed a favorirne la
successione. Per tali poteri, però, l'unica opzione confacente ai
propri interessi, e praticabile di
fronte all’attuale crisi economica, è quella di salvare se stessi
e abbandonare i ceti medi e bassi alla devastazione sociale. Al di là
delle loro intenzioni, quindi, essi
produrranno tale esito. Su un periodo
più lungo, questa opzione non potrà essere gestita all'interno
delle forme istituzionali, anche soltanto esteriori, che hanno
contrassegnato l'Italia del secondo
dopoguerra. Lo sbocco finale di questa
strada, se fosse percorsa per intero, sarebbe quindi uno
stravolgimento autoritario che farebbe passare l'Italia da una specie
di Somalia ad una specie di
Cina, dove un potere forte verso i
deboli e gerarchicamente coeso al suo interno, impone regole
limitatrici degli scontri di potere ai vertici, e promotrici di uno
sfruttamento feroce delle classi
lavoratrici. In sostanza, se non
interviene una decisa rivolta del popolo italiano contro gli attuali
ceti dominanti, le uniche prospettive che abbiamo di fronte sono, nel
breve periodo, quella di una dittatura berlusconiana da una parte e
di governi antiberlusconiani, ma incapaci di arrestare la decadenza
del paese, dall’altra. Nel medio-lungo periodo entrambe queste
opzioni porteranno, per strade diverse, ad una soluzione di tipo
“cinese”. Lo scenario che abbiamo fin qui delineato è chiaramente
uno scenario da incubo, nel quale viene messa in questione la stessa
sopravvivenza della società italiana. Ma questo incubo non è
fascismo. Per capire questo punto, e discutere le altre questioni di
cui abbiamo accennato all’inizio, dobbiamo adesso discutere cosa
debba intendersi per fascismo.
3. Cos’è il fascismo?
Che cosa è stato il fascismo? La
ricerca di una risposta a questa domanda è stata naturalmente viva
fin dal sorgere del fascismo. Alcune delle più note risposte ad essa
contengono elementi di verità che possono essere valorizzati pur
all’interno di una critica degli aspetti parziali ed insufficienti
di tali risposte.
Secondo Benedetto Croce, il fascismo è
una malattia morale che ad un certo momento ha colpito il popolo
italiano, degradandone progressivamente autonomia di pensiero,
sentimenti di solidarietà, percezione della realtà. E’ vero, ma
troppo vago. Quale malattia? Per fare un paragone medico, c’è
un’enorme differenza tra un malato di cuore e un malato di fegato,
e dire di uno qualsiasi dei due che è stato colpito da una malattia
fisica non determina tale malattia in maniera adeguata.
L’attribuzione di una malattia ad un organismo sociale, poi, può
valere come criterio interpretativo
soltanto se include la sua genesi ed il
suo meccanismo di propagazione.
Secondo Piero Gobetti, il fascismo è
il venire a galla di tutti i vizi atavici diffusi nella società
italiana (conformismo, disinteresse per la verità delle cose,
indifferentismo etico, schiena piegata ai
potenti di turno, volubilità di
comportamenti, volgarità di stile comportamentale) ed il loro
coagularsi in un intreccio autoritario di potere. E’ vero, ma di
una verità parziale, perché illumina soltanto il fascismo italiano
(Gobetti è morto prima di poter conoscere altri fascismi) e soltanto
un lato di esso. Rimane non illuminato l’altro lato del fascismo,
la sua novità storica, senza la quale non si capisce lo stesso
coagularsi in unità degli antichi vizi.
Secondo i marxisti dell’epoca, il
fascismo è una controrivoluzione preventiva della borghesia rispetto
ad una rivoluzione proletaria non ancora avvenuta, ma già
preannunciata dall’Ottobre russo. E’ vero, ma fuorviante, in
primo luogo perché lascia indeterminata una caratterizzazione
essenziale della novità storica del fascismo, vale a dire la forma
specifica della controrivoluzione preventiva,
senza la quale un dittatore fascista
non si distingue da un dittatore poliziesco tradizionale, in secondo
luogo perché sottintende la creazione del fascismo da parte della
grande borghesia capitalistica, che invece lo ha soltanto piegato ai
suoi scopi dopo la sua formazione ed il suo primo sviluppo.
Per Luigi Salvatorelli il fascismo è
l’autoidentificazione politica di ceti medi in declino ottenuta
come autoaffermazione compensatoria sul piano istituzionale di un
arretramento su quello socioeconomico. L’importante acquisizione
veritativa di intestare il fascismo non alla grande borghesia
capitalistica, ma ai ceti medi e piccolo-borghesi, e di comprenderlo
come una loro
politicizzazione al di fuori delle
vecchie categorie politiche, è qui bilanciata dall’errore di
intenderlo come manifestazione reattiva al loro declino, mentre
successive ricerche sociologiche hanno appurato che, al contrario, il
fascismo è stato, in tutta Europa, estrinsecazione espressiva di una
tumultuante ascesa dei ceti medi.
Una parte significativa della
storiografia tedesca del dopoguerra (Arendt, Bracher, Mosse, Kogan,
Hildebrand) ha interpretato il fascismo come regime totalitario. E’
vero che il principio del totalitarismo politico, orgogliosamente
rivendicato come superamento di un invecchiato liberalismo, è forma
essenziale del fascismo. Ma altrettanto essenziale è il contenuto di
questa forma, senza la cui specificazione il totalitarismo diventa,
come nella Arendt, categoria generica inclusiva sia del fascismo sia
del comunismo. Il principio del totalitarismo politico è forma
costitutiva del fascismo in quanto dà forma alla società attraverso
i suoi specifici contenuti ideologici. Tali contenuti sono la cultura
dell’inegualitarismo e della gerarchia (non a caso “Gerarchia”
è il nome di una delle più importanti riviste dell’Italia
fascista), il ripudio aprioristico di qualsiasi genere di solidarietà
internazionale in nome di una concezione di selezione darwiniana dei
popoli attraverso i loro conflitti di potenza [3], il nazionalismo
illiberale ed organicista come unico legame di appartenenza
dell’individuo alla società, l’irregimentazione delle masse nel
culto del capo e come mezzo di formazione di uno spirito patriottico
e guerriero. La forma del totalitarismo e la sua articolazione in
questi contenuti costituiscono la proiezione ideologica attraverso
cui i ceti medi si danno identità politica. Essi possono compiere
collettivamente una simile proiezione unitaria perché sono a
quell’epoca culturalmente omogenei. La loro omogeneità culturale è
data dal loro legame sociologico con costumi e schemi mentali
premoderni, che li rende ostili alle classi modernizzatrici, la
borghesia capitalistica e il proletariato di fabbrica, tra le cui
dinamiche si sentono stretti come in una tenaglia. La comprensione
del totalitarismo politico come proiezione ideologica di ceti medi
che ne fanno in tal modo il principio cardine della loro
autoidentificazione politica nel fascismo, permette di comprendere
anche quanto ci sia di vero nelle teorie che, a partire dal
Salvatorelli (e non senza qualche contiguità con esse
dell’interpretazione di Togliatti, la cui obbedienza moscovita gli
impediva di avvicinarcisi troppo), hanno concepito il fascismo
appunto come una produzione politica tipica della collocazione
sociologica e dell’immaginario mentale dei ceti medi. Il fascismo è
stato infatti l’autorappresentazione dei ceti medi attraverso cui è
avvenuta in Europa, tra le due guerre, la loro politicizzazione da
una condizione antecedente di estraneità alla politica, e di
adesioni soltanto individuali a partiti di destra o di sinistra. Esso
è stato così organicamente connesso ai ceti medi da aver funzionato
da strumento della loro costituzione in classe. Prima del fascismo i
ceti medi non sono una classe sociale. Nel caso dei capitalisti
industriali e dei proletari di fabbrica, si tratta di gruppi sociali
la cui caratterizzazione in termini di “classe” sta
direttamente nella loro collocazione
nel processo produttivo, e quindi è logicamente indipendente da ogni
loro estrinsecazione politica. Prima del fascismo, invece, i ceti
medi, nonostante l’omogeneità dei loro schemi mentali e dei loro
costumi sociali, non manifestano alcuna unitarietà di reazione agli
eventi storico-politici, non si comportano cioè da classe, perché
non lo sono, in
conseguenza della loro collocazione
esterna alla produzione di plusvalore entro una società di cui
quella produzione costituisce l’ossatura strutturante.
Costituendosi come classe sul terreno politico, non sociale, i ceti
medi vi portano, come già notava Gramsci, un’ideologia priva di
concretezza che riflette la loro mancanza di legami concreti con la
struttura della produzione sociale. Nazionalismo, ducismo, gloria
guerriera, superamento dei conflitti di classe nella nazione, e
quindi terza via corporativistica oltre l’antinomia tra capitalismo
e comunismo: si tratta di istanze ideali che hanno certamente avuto
grande peso nell’immaginario politico del fascismo, ma solo come
astratte utopie incapaci di incidere sui processi storici. Il
fascismo ha detto di se stesso di essere anticapitalista, senza mai
saper individuare alcun mezzo concreto per cominciare a superare il
capitalismo in qualche suo aspetto, ed anzi, appoggiandosi
concretamente al capitalismo come condizione per rimanere al potere,
si è reso strumento della controrivoluzione preventiva della
borghesia capitalistica contro il proletariato. A parole nemici della
lotta di classe sia dei capitalisti sia degli operai, i fascisti, non
sapendo e non potendo agire contro i primi, si sono maramaldescamente
accaniti contro gli operai, spianando la strada alla violenta
reazione capitalistica. Poiché le utopie ideologiche del fascismo
non coprivano la concretezza della vita quotidiana dei ceti medi,
essi hanno riempito la loro vita di fascisti con le connotazioni
squallide, ma concrete, della loro vita quotidiana. Una
caratteristica del fascismo italiano è stata quindi quella di
associare alla retorica astratta della dedizione agli “interessi
superiori della nazione”, secondo la formula all’epoca più
ripetuta, il perseguimento concreto dei più bassi interessi privati;
all’emozione epidermica e temporanea per le mete di grandezza della
patria indicate dal duce, un’indifferenza totale per la dimensione
dell’etica nazionale nelle scelte quotidiane; alle pompose
dichiarazioni di riconoscimento fascista della dignità e nobiltà di
ogni lavoro (si pensi alla “Carta del lavoro”
del 1927), una pratica di brutale
sfruttamento del lavoro operaio e contadino. Altre caratteristiche socioculturali dei ceti medi italiani, come l’acriticità di
pensiero, il conformismo, la spontanea sottomissione autoumiliante ai potenti,
erano richieste come tali dal fascismo, che le trasfigurava come fede
nel duce, appartenenza alla nazione, riconoscimento del valore
spirituale delle nuove gerarchie. L’insieme di questi processi ha
fatto davvero del fascismo, in Italia, il luogo di coagulo e di
consolidamento degli atavici vizi italiani. Ed ha reso davvero il
fascismo, per il modo in cui ha legato le masse a mete bugiarde, a
retoriche falsificatrici, ed a bassezze quotidiane, una malattia
morale del popolo italiano.
Come si vede, una concezione del
fascismo come totalitarismo politico nato dalla proiezione ideologica
attraverso cui si realizza la politicizzazione dei ceti medi è in
grado di includere quanto c’è stato di vero in tutte le
interpretazioni che sono state date del fascismo stesso. Occorre però
individuare la precisa angolazione da cui utilizzare la categoria di
totalitarismo, altrimenti il suo uso può ingenerare aporie e confusioni.
Nell’Italia fascista, ad esempio,
l’assetto dei poteri non è totalitario. E’ vero che gli enti
statali e parastatali, i mezzi di comunicazione di massa (radio,
giornali, riviste, cinema), la scuola, le associazione sportive,
ricreative e formative, l’organizzazione sindacale operaia, le
forze di polizia, rispondono ad un’unica logica centralizzata di
comando, che non lascia spazio ad alcuna autonomia e differenziazione
di scelte, e che è perciò una logica totalitaria. Questo non è
poco. Tuttavia a questa unica logica di comando è sottratta, in
virtù del Concordato, la Chiesa cattolica, che si muove
autonomamente nella società italiana, con le sue scuole, il suo
associazionismo, le sue opere di carità. Le Confindustria e le
organizzazioni padronali nelle loro manifestazioni pubbliche
esibiscono le camice nere dei loro esponenti e si dichiarano dedite
esclusivamente a perseguire gli
obiettivi indicati dal Duce, ma di
fatto tutelano lo svolgimento delle attività imprenditoriali secondo
la logica del profitto economico, svincolata da quella del
totalitarismo politico. Il Duce è capo del
governo, ma il Re è rimasto capo dello
Stato (a differenza della Germania, dove Hitler dopo la morte di
Hindenburg ha cumulato le due cariche), con poteri residuali deboli
in situazioni normali, ma assai rilevanti nelle emergenze storiche.
La polizia è fascista, ma l’Arma dei carabinieri dipende dal Re
prima che dal governo (saranno infatti i carabinieri ad arrestare
Mussolini il 25 luglio 1943), e così la Regia Marina, nella quale
durante l’epoca fascista paradossalmente la tessera fascista
ostacola anziché promuovere la carriera. L’assetto dei poteri
dell’Italia fascista, in presenza di una Chiesa, di una
Confindustria e di articolazioni delle Forze Armate sottratte
all’unicità del comando politico, non può dirsi compiutamente
totalitario. Se ne dovrebbe allora dedurre che il fascismo non è
totalitarismo ma una specie di semitotalitarismo? Ovviamente questo
non è possibile, perché quello di totalitarismo è un concetto
qualitativo, non quantitativo, per cui non vi può essere un
totalitarismo a metà, esattamente come una cosa perfetta a metà è
in realtà imperfetta. Si potrebbe allora argomentare che il fascismo
è non un totalitarismo, ma una forma di autoritarismo repressivo e
poliziesco. Ma dicendo questo si cancellerebbe quella distinzione fra
destra illiberale conservatrice e destra illiberale fascista che ha
segnato la storia europea della seconda metà degli anni Trenta e
della prima metà degli anni Quaranta. Come dare un significato,
senza questa distinzione, a contrapposizioni di figure politiche
quali quelle tra Franco e José Antonio in Spagna, tra Pétain e
Doriot in Francia, tra Dolfuss e Seyss-Inquart in Austria, tra Horthy
e Szalasi in Ungheria, tra Re Carol e Codreanu in Romania? Concependo
il fascismo non come totalitarismo, ma come autoritarismo repressivo
e poliziesco (magari riservando la categoria di totalitarismo al solo
comunismo) si recupererebbe una coerenza nelle definizioni, ma su un
piano astratto a partire dal quale si perderebbe ogni capacità di
individuare concrete differenze storiche, e quindi ogni valenza
storiografica.
Renzo De Felice è riuscito a
differenziare il fascismo dalla destra illiberale conservatrice
connettendo questa ad un tradizionalismo premoderno, e quello ad una
prospettiva modernizzatrice di promozione dello sviluppo tecnico e di
costruzione di un più elevato tipo d’uomo. Così differenziato
dalla destra illiberale conservatrice, il fascismo è al pari di
essa, secondo De Felice, un sistema politico ed ideologico non
totalitario, mentre totalitario è il nazismo. La conseguenza di
questa impostazione, consapevolmente tratta da De Felice, è che
fascismo e nazismo sono due sistemi politici ed ideologici
eterogenei, e che non è quindi possibile costruire una nozione di
fascismo che includa tutte le potenze che hanno combattuto sotto tale
vessillo la Seconda Guerra Mondiale. Si ritorna però, con queste
tesi di De Felice, ad una categorizzazione storiografica priva di
presa sulla storia concreta. Nella storia concreta, infatti, fascisti
e nazisti si sono sentiti parte di una stessa corrente politica, di
una stessa etica totalitaria, e di uno stesso assalto militare alla
conquista dell’Eurasia, e la storiografia deve rendere ragione
della storia concreta, non smentirla. Occorre dunque rendere ragione
dell’unitarietà del fenomeno fascista e della sua
caratterizzazione totalitaria.
A questo proposito sono fondamentali
gli studi di Emilio Gentile, il più penetrante interprete
contemporaneo del fascismo. Gentile ha convincentemente argomentato,
da una parte, che per
comprendere il fascismo occorre
recuperare la sua connessione con la categoria di totalitarismo e,
dall’altra parte, che ai fini di tale comprensione occorre
individuare la forma specifica di tale connessione. Il totalitarismo
caratterizza il fascismo non come forma organizzazione sociale e
politica compiutamente realizzata, ma come suo imprescindibile
elemento motivazionale e propulsivo. Nei vari fascismi storicamente
esistiti, cioè, l’assetto dei poteri non è mai compiutamente
totalitario, quanto meno perché ogni fascismo si consolida al potere
e diventa regime con il sostegno di decisivi interessi capitalistici,
dei quali quindi deve accettare le logica dell’autoreferenzialità
economica refrattaria a qualsiasi comando politico totalitario. Nel
fascismo italiano, in particolare, il sistema dei poteri lascia uno
spazio di autonomia ad alcuni di essi (come si è visto sopra, quelli
della Chiesa, degli industriali e di settori militari legati al Re),
sottraendoli alla logica di pura esecuzione del comando politico
centralizzato alla quale sono invece sottomessi gli altri. Tra questi
e quelli, però, non c’è una coesistenza statica, ma una tensione
derivante dalla spinta
innovativa del comando politico. Così
nel 1931 Mussolini invia una spedizione squadristica a sfasciare
alcune sedi dell’Azione cattolica, per costringere la Chiesa
cattolica a ridurre i suoi spazi
organizzati di formazione dei giovani,
e avvicinarsi così ad un monopolio educativo del regime. Così negli
anni Trenta viene creata la nuova Aviazione come Arma esclusivamente
fascista contrapposta alla Marina regia, e nell’Esercito c’è un
sordo conflitto tra uomini del Duce e uomini del Re nel controllo
delle carriere degli ufficiali. Così Mussolini interviene talvolta
nelle sfera
economica per imporvi scelte politiche
contrastate dalla Confindustria, come la rivalutazione della lira nel
1926. C’è insomma una pulsione a sottomettere al comando politico
aree che non gli sono ancora sottomesse, vale a dire una pulsione
alla realizzazione del totalitarismo politico, che è caratterizzante
del fascismo come tale. Il fascismo, insomma, è tale se, dando luogo
ad un sistema di poteri non totalitario, lo pensa orientato ad
evolversi secondo una teleologia totalitaria, non importa quanto
capace di operare effettivamente in senso trasformativo, e quanto
invece puramente
velleitaria. Questa teleologia
totalitaria del fascismo come sistema politico ed ideologico fa sì
che esso si caratterizzi come totalitarismo nelle sfera
dell’ideologia, e come tradizionalismo nelle
sua concreta sfera socioeconomica, con
una continua tensione, flebile o aspra a seconda dei frangenti
storici, tra questi due suoi momenti. L’ideologia illiberale e
totalitaria del fascismo (illiberale in quanto totalitaria,
altrimenti il suo illiberalismo sarebbe quello della destra
tradizionalmente autoritaria), non è
che l’altra faccia caratterizzante del fascismo stesso, il
cesarismo. Cesarismo significa che la totalità sociale può essere
unificata da fini condivisi soltanto in un punto di essa, cioè
nell’individualità di un uomo dotato, per un suo carisma
personale, della capacità di esprimere da solo, e lui solo, il bene
comune. “Cesarismo” viene ovviamente da Giulio Cesare, che guidò
Roma verso obiettivi di grandezza illuminati dal suo intuito divino,
non dalle leggi né dalle attribuzioni di qualsiasi magistratura da
lui ricoperta, tanto che a chi gli offrì durante i Saturnali una
corona regale rispose “non sum rex, sum Caesar”. Il cesarismo si
è riprodotto in età moderna come napoleonismo, di cui Hegel ha
colto il senso definendo Napoleone “lo Spirito del mondo a
cavallo”. E si riproduce nel fascismo come principio del Duce,
nelle sue diverse versioni. Se il Duce è l’uomo che esprime nella
sua volontà la “volontà generale” di Rousseau, esprimendo così
l’organicità del vincolo di tutti nella nazione, il liberalismo
non ha più senso. Non ha senso, cioè, far scaturire dal libero
confronto di idee e opzioni divergenti decisioni politiche orientate
al bene comune, dato che al bene comune guida la sola volontà del
Duce. Non ha senso il pluralismo liberale in se stesso, perché se la
nazione è comunità organica, le spinte divergenti insite nel
pluralismo liberale possono soltanto indebolirne la fibra e infine
distruggerla, proprio come un organismo fisico andrebbe incontro alla
morte se fegato, polmoni e cuore funzionassero in maniera
pluralistica, cioè ognuno autonomamente dagli altri. La necessità
di realizzare il suo principio cesaristico, ovviamente indicata e
promossa dal suo Duce, ispira in ogni fascismo una ben radicata
pulsione a costruire il totalitarismo politico, con ricorrenti
pressioni intrusive in quei settori dove vigono logiche autonome dal
comando politico (economiche, religiose o altro che siano). Il
totalitarismo politico che caratterizza il fascismo vive nella sua
sfera ideologica, e non diventa mai, se non in modo parziale o in
circostanze particolari come la guerra, un effettivo principio di
disciplina politica dei poteri sociali. Ciò non toglie che sia un
elemento importante, perché la sua ricorrente pressione sui poteri
sociali crea nuovi stili comportamentali, e perché in particolari
momenti storici in cui i poteri sociali autonomi diventano
contingentemente confliggenti ed indeboliti rispetto al comando
politico, può arrivare a sopraffarli. Nell’Italia del 1943, ad
esempio, quando la Corte, gli Stati maggiori ed i capitalisti passano
dalla parte degli Alleati, il fascismo si fa forza repubblicana,
milizia armata e organizzazione spoliatrice. Il totalitarismo
politico a cui perviene nella concretezza storica non va oltre
l’esperienza negativa, e asservita all’occupazione tedesca del
paese, della RSI. In vicende come questa (e nelle analoghe vicende di
altri paesi europei) il fascismo svela il suo invalicabile limite
storico, dato dalla sua genesi nelle utopie astratte di ceti medi
svincolati dai processi di produzione della ricchezza sociale, cioè
quello di non poter concretizzare la sua ideologia del totalitarismo
politico se non come distruzione senza ricostruzione del tessuto
sociale, e di non poter costruire opere di utilità e coesione
sociale (come qualche volta è riuscito a fare) se non mettendo da
parte nei fatti il totalitarismo politico, che d’altra parte nel
fascismo è l’unico antidoto alla corruzione morale.
Se si capisce che il fascismo è stato
tutto questo, si capisce anche che nel nostro orizzonte storico non
esiste un pericolo di risorgenza del fascismo, mancandone tutti gli
elementi. Manca ogni omogeneità di costumi sociali e schemi mentali
dei ceti medi, che sono frantumati e differenziati dalle loro diverse
collocazioni in una società piena di interne sconnessioni. Manca la
nazione come
luogo di appartenenza e radice
identitaria. Manca il primato della politica, che è oggi ridotta ad
attività di sensali parassitari dell’economia, per cui
l’autorappresentazione di una classe nella
politica, quale è stato il fascismo, è
impensabile. Mentre il capo di allora, il Duce, aveva un seguito di
massa in quanto percepito, nell’ottica del cesarismo, come la guida
infallibile della nazione al di sopra dei comuni mortali, il capo di
oggi è percepito dai comuni mortali come uno di loro, connotato
dalla loro stessa meschinità, che ha riscattato in virtù dei grandi
successi ottenuti con la sua furbizia, così riscattandola in loro.
Un capo simile (della cui immagine ideale, s’intende, l’uomo
politico Silvio Berlusconi è solo una delle realizzazioni possibili)
non potrebbe mai irregimentare gli italiani in un ordine guerriero,
né, tanto meno, potrebbe far loro affrontare una guerra vera, come
fece il fascismo. Il suo governo potrebbe certo suscitare violenza
contro le sempre più ampie sacche di emarginazione prodotte dalla
sua politica, ma non potrebbe esercitarla sotto forma di bastonature
squadristiche e condanne di tribunali speciali nei confronti di una
dissidenza politica borghese. Un altro aspetto dal quale si
percepisce la differenza fra l’attuale situazione italiana e il
fascismo è quello legato al ruolo della Lega Nord. E’ fin troppo
facile, infatti, rilevare che l’importanza, per la
politica berlusconiana, di un partito
anti-italiano come la Lega Nord fa a pugni con ogni pretesa di
assimilare il berlusconismo ad un movimento nazionalista come il
fascismo. La rilevanza della Lega
Nord va compresa e valutata
attentamente. Si tende infatti, specie negli ambienti intellettuali,
a sottovalutare la sua azione in senso lato culturale, e a prenderla
in considerazione solo sul piano
politico, per via degli evidenti
aspetti di rozzezza, incultura, grossolanità intellettuale ed umana
dei suoi esponenti, a tutti i livelli. Ma la storia è fatta anche
dagli incolti, rozzi e grossolani. Ciò che la Lega Nord sta
realmente facendo, con le sue manifestazioni “culturali” (nel
senso che alla parola dà
l’antropologia) è quello di creare e
diffondere un nuovo senso comune, basato sulla chiusura in piccoli
orizzonti e piccole comunità, sull’esclusione di chiunque sia
percepito esterno alla
comunità (compresi, per esempio, i
portatori di handicap), sulla creazione di capri espiatori, sulla
legittimazione (per il momento soltanto verbale) della violenza. Il
fatto che contenuti di questo tipo siano agiti ripetutamente in
parole, slogan, discorsi, manifestazioni, e rappresentino ormai un
aspetto permanente della vita politica del paese, crea appunto legittimazione di un senso comune che ne faccia il proprio
fondamento. Questo senso comune, con la sua carica di violenza ed
esclusione, è in sostanza una delle premesse di una possibile guerra
civile e di una conseguente dissoluzione del paese. Pur avendo molti
aspetti in comune col fascismo, il carattere localistico e
anti-nazionale del leghismo lo rende lontanissimo da quello.
4. Una breve considerazione sul nazismo
Nella sezione precedente abbiamo
delineato alcuni caratteri generali dei fascismi europei e ci siamo
soffermati in particolare sul fascismo italiano. Non è nostra
intenzione analizzare qui le differenze specifiche fra i vari
fascismi. Ci sembra però importante, per la rilevanza del tema,
sottolineare rapidamente un aspetto secondo noi fondamentale
dell'altra grande realizzazione storica del fascismo europeo, cioè
il nazismo. Noi interpretiamo il nazismo come il punto culminante
della fase imperialistica della storia dei paesi occidentali. Il
nazismo è una forma di totalitarismo politico, e presenta quindi gli
stessi caratteri che abbiamo sopra descritti in riferimento al
fascismo, ma nel caso del nazismo la forma totalitaria ha come suo
contenuto principale ed essenziale l’imperialismo. L’imperialismo
naturalmente nasce prima del nazismo, nasce dalla realtà politica ed
economica dell’Europa del secondo Ottocento, che ovviamente non ha
nulla di totalitario. Esso rappresenta però un momento di crisi di
tale realtà, una crisi che può essere definita come crisi della
civiltà occidentale, perché, pur nascendo come effetto di dinamiche
ad essa interne, l’imperialismo implica necessariamente l’adesione
a opzioni politiche e ideali, come il colonialismo e il razzismo, che
sono in contraddizione con i valori fondanti della civiltà
occidentale [4]. L’imperialismo è
quindi uno dei due poli di una contraddizione la cui dinamica agisce
nella parte finale del XIX secolo e in buona parte del XX. Vogliamo
dire con questo che i valori fondanti della civiltà occidentale (la
libertà individuale, i diritti umani, i diritti dei popoli, e così
via), così brutalmente negati dalle politiche imperialistiche
occidentali, non rappresentavano solo una copertura ipocrita di
quelle stesse politiche (il che non vuol dire, naturalmente, che essi
non abbiano svolto anche questa funzione): rappresentavano un punto
di riferimento per chi a quelle pratiche si opponeva, una sorgente
continua di forze spirituali di contrasto all’imperialismo, insomma
l’altro polo di una contraddizione che ha agito storicamente. Gli
esempi di come quei valori di libertà si siano concretizzati in
realtà storico-politiche sono innumerevoli: si può pensare al
movimento di opinione pubblica internazionale che già all’inizio
del Novecento combatte lo sfruttamento brutale e omicida al quale
viene sottoposto il Congo belga, oppure a come il pensiero di Lenin
faccia proprio il principio, tipico della civiltà occidentale,
dell’autodeterminazione dei popoli, e come su questa base il
movimento comunista internazionale sostenga poi le lotte di
liberazione dei popoli colonizzati, o infine a come, nel secondo
dopoguerra, tali lotte di liberazione suscitino nei paesi occidentali
ampi movimenti di opinione pubblica a loro sostegno. Ma il punto in
cui questa effettualità storica dei principi della civiltà
occidentale si vede più chiaramente sta forse nel fatto che le lotte
di liberazione che, nel secondo dopoguerra, portano alla fine degli
imperi coloniali, avvengono proprio sulla base di principi ideali e
riferimenti culturali tipici della civiltà occidentale, o da essa
derivati: i gruppi dirigenti di tali lotte si ispirano in sostanza o
a forme di nazionalismo rivoluzionario o a forme di marxismo
rivoluzionario, o a una miscela dei due (anche se il marxismo non è
interno alla civiltà occidentale, è comunque un suo figlio,
ribelle ma legittimo) . A questo punto possiamo allora capire in che
senso il nazismo rappresenta il punto culminante dell’imperialismo:
nel senso che il nazismo risolve la contraddizione fra imperialismo,
colonialismo e razzismo da una parte, e principi della civiltà
occidentale dall’altra, e la risolve sopprimendo il secondo corno
della contraddizione. La Germania nazista rappresenta l’esempio
perfetto di uno Stato che assume compiutamente la dimensione
dell’imperialismo, del colonialismo e del razzismo come proprio
fondamento e per far ciò sopprime integralmente i principi della
civiltà occidentale. Nel nazismo i principi dell’imperialismo, del
colonialismo e del razzismo diventano principi universali. Si
potrebbe in questo senso parlare del nazismo come di una forma di
“imperialismo assoluto”: una ideologia, una politica, una forma
di organizzazione sociale che si sforza di dispiegare integralmente e
compiutamente nella società umana i principi dell’imperialismo,
del colonialismo e del razzismo e di rimuovere ogni possibile
ostacolo a tale dispiegamento. Di conseguenza, il nazismo non ha
nessuna remora a ridurre a colonia l’intera Europa sotto il suo
dominio e a trattare i popoli europei nello stesso modo in cui questi
hanno trattato i popoli coloniali, rendendo chiaro anche agli europei
l’orrore del colonialismo. La guerra antinazista per necessità
oggettiva è una guerra che delegittima il colonialismo e
l’imperialismo. La vittoria contro il nazismo è quindi la vittoria
contro il gravissimo pericolo di regressione umana e civile che il
suo imperialismo assoluto rappresentava, è la vittoria dei quei
principi della civiltà occidentale (libertà degli individui e dei
popoli) che rappresentano valori umani universali. Non a caso, è con
la fine della Seconda Guerra Mondiale che si avvia il processo di
decolonizzazione che porterà alla fine degli imperi coloniali di
Francia e Inghilterra.
[1] Si veda per esempio M.Badiale, M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari 2007, in particolare alle pagine 169-175.
[2] Maggiori dettagli in M.Badiale, M.Bontempelli, La sinistra rivelata, cit.
[3] Questi primi due contenuti separano in maniera netta il totalitarismo fascista da quello comunista.
[4] Ci riferiamo qui alla nozione di “civiltà occidentale” che abbiamo analizzato in M.Badiale, M. Bontempelli, Civiltà occidentale, Il Canneto 2010.
Veramente difficile commentare questo lungo articolo, un vero e proprio saggio. Condivido la spina dorsale del ragionamento. Vorrei solo aggiungere qualche considerazione.
RispondiEliminaLa prima è questa: singolare, particolare, universale. Con questa triade di Hegel occorre, secondo me, affrontare il tema del capitalismo italiano.
Ci sono elementi universali, dell’universo che io chiamo Impero d’Occidente. Cioè un sistema imperialistico trans-nazionale, nella accezione di Screpanti per capirci. Con la differenza che Screpanti individua un livello ancora più generale, quello globale. Ma all’interno di quello globale, come le scatole cinesi, c’è quello occidentale, reso uniforme come cultura e ideologia.
Spiegare l’Italia con le categorie universali è però fuorviante. Cioè, è importante riconoscere l’adesione al capitalismo imperialista occidentale. Nello stesso tempo, come è ovvio, ci sono particolarità.
La definizione di “capitalismo mafioso” mi sembra perfetta. Solo che le particolarità non sono quelle di privatizzare tutto. Quello è un fenomeno reale, che appartiene però alla universalità (perché si verifica in tutto l’Impero d’Occidente).
Mario Mineo è stato un comunista siciliano, un intellettuale contro corrente. Nel blog di Salvatore Lo Leggio si possono trovare articoli su questo personaggio. In particolare vi segnalo questo: Mario Mineo. La borghesia mafiosa (http://salvatoreloleggio.blogspot.it/search?q=Mineo). Ne riporto un brano.
“Per Mineo il disegno di formare nel Sud una borghesia imprenditoriale diffusa era fallito: fino a metà Novecento aveva dominato indisturbato il blocco agrario; negli anni successivi, del boom e dell’emigrazione, era nata una borghesia parassitaria che, per via politica, si accaparrava risorse (lavori pubblici, ruoli negli uffici, appalti, finanziamenti), che era in prima linea nella speculazione fondiaria ed edilizia e nei posti chiave delle grandi professioni. In Sicilia questa borghesia, per genesi, modo di essere, forma, era “mafiosa”, ove per mafia non va inteso un tipo di mentalità o di organizzazione criminale (quella che in passato era stata strumento della grande proprietà nelle campagne), ma un fenomeno sociale complesso e pervasivo, interno alla modernizzazione capitalistica.”
Penso che sia molto utile alla discussione. Credo che questo modello si sia esteso a tutta la società italiana e ne costituisce la sua “particolarità”.