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martedì 31 marzo 2015

Un saggio su fascismo e antifascismo/2

(Seconda e ultima parte del saggio scritto con Massimo Bontempelli. La prima parte è stata pubblicata domenica 29. M.B.)


5. Che fare?

Dopo questo esame sulla natura del fascismo, riprendiamo l’esame della situazione italiana. La domanda naturale, a seguito delle analisi fin qui svolte, è naturalmente: che fare? Come opporsi al pericolo effettivo di dissoluzione della società italiana? Se tale pericolo fosse quello del fascismo, la risposta sarebbe chiara e dettata dalla storia: di fronte al pericolo fascista occorre una politica di unità antifascista, quel tipo di politica che ha permesso la lotta del CLN e il trionfo dell’antifascismo. E’ in sostanza questo il modello che viene continuamente richiamato da molti antiberlusconiani. Noi riteniamo che questo modello sia oggi del tutto inapplicabile. Come l’attuale capitalismo feudal-criminale, del quale il berlusconismo è l’espressione più chiara, non è fascismo, così l’opposizione alle dinamiche distruttive di tale capitalismo non può definirsi antifascismo. Si può anzi affermare che nell’attuale fase storica l’antifascismo (in quanto, beninteso, pratica politica, e non assunto etico-culturale) non sia più attuale. La tesi sull’esaurimento di senso politico, nella realtà contemporanea, dell’opposizione fascismo/antifascismo, si argomenta in maniera molto semplice. L’antifascismo è definito dall’essere opposizione e contrasto al fascismo e al nazismo. Ma il fascismo e il nazismo sono stati sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale, e da allora non hanno più alcuna esistenza storicamente significativa. Non c’è, da più di sessant’anni, nessun fascismo da contrastare, e l’antifascismo non ha quindi nessun senso. Le obiezioni a questa tesi possono assumere forme molto diverse, ma in sostanza si riducono a due: in primo luogo, si contesta l’assunto che oggi non esista più alcun fascismo storicamente rilevante. In secondo luogo, si obietta che difendere l’attualità dell’antifascismo significa in realtà difendere gli ideali che hanno ispirato la lotta antifascista e che sono depositati nella Costituzione Italiana. Per cui chi riconosce il valore di tali ideali (e fra questi vi sono gli autori di questo saggio) perciò stesso riconosce l’attualità e il valore dell’antifascismo. Esaminiamo allora queste due obiezioni.

La discussione sul fascismo svolta in precedenza ci permette di capire in che senso affermiamo che oggi non esiste nessun fascismo storicamente rilevante. Vogliamo dire che non esiste nessun movimento politico storicamente rilevante che si proponga un obiettivo di controllo politico totalitario della società diretto alla mobilitazione e attivizzazione permanente delle masse con lo scopo di coinvolgere le masse stesse in una attiva politica di conquiste imperialistiche. Ovviamente, ci sono oggi fascisti e nazisti, ma si tratta di piccole realtà insignificanti. Nei casi in cui l’estremismo di destra è stato coinvolto in progetti eversivi si è sempre trattato di piccole realtà completamente subalterne a strategie organizzate e portate avanti da forze di tutt’altra natura. La risposta a questi dati di fatto, da parte di chi sostiene l’attualità dell’antifascismo, sta in sostanza in un cambiamento del significato dei termini, per cui si chiama “fascismo” ogni forza politica e ogni tendenza culturale che abbia in comune col fascismo propriamente detto alcune caratteristiche come la violenza, il rifiuto della democrazia e dell’universalità dei diritti umani, il maschilismo, il sospetto nei confronti della libertà della cultura e dell’elaborazione intellettuale. Si tratta di una mossa abituale nella sinistra italiana, nella quale è sempre stata operante la comoda tendenza a qualificare come “fascista” chiunque esprimesse punti di vista diversi da quelli egemoni all’interno della sinistra stessa. Questa impostazione è chiaramente espressione di un errore logico, paragonabile a quello contenuto nel seguente pseudo-ragionamento: “tutti i salmoni sono pesci, quindi tutti i pesci sono salmoni”. Se è chiaro l’errore contenuto nella frase appena enunciata, dovrebbe anche essere chiaro come un errore dello stesso tipo sia contenuto negli pseudo-ragionamenti di chi afferma che, poiché il fascismo attacca la democrazia, allora chi attacca la democrazia è fascista (per concludere magari che Berlusconi è fascista), e poiché il fascismo è violento, allora chi è violento è fascista, e poiché il fascismo è maschilista, allora chi è maschilista è fascista. Questo errore logico porta ad un sostanziale svuotamento della nozione di “fascismo”, ridotta ad una astrazione priva di determinazioni storiche.

domenica 29 marzo 2015

Un saggio su fascismo e antifascismo/1


Ripubblico, in due parti, un saggio su "Berlusconi, fascismo, antifascismo", scritto con Massimo Bontempelli fra fine 2010 e inizio 2011. Al di là delle analisi del fenomeno Berlusconi, credo che esso possa oggi risultare interessante sia per l'analisi di alcuni dati di fondo della realtà italiana, sia per una discussione sul tema fascismo/antifascismo, che periodicamente ritorna di attualità.  La sezione 3 è dovuta interamente a Massimo.
(M.B.)


1. Introduzione

L’autunno del 2010 verrà ricordato come l’inizio dell’autunno o del tramonto di Berlusconi. Il segnale più evidente di questo tramonto è forse l’attacco che i giornali da lui dipendenti hanno sferrato, all’inizio di ottobre, contro Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria. Si tratta evidentemente di una mossa disperata, dovuta all’incapacità da parte di Berlusconi di gestire i problemi e gli scontri interni ai ceti dominanti italiani. E’ del tutto ovvio che egli non può permettersi, senza minare le basi del suo potere, di attaccare i poteri rappresentati dalla Confindustria, e di portare lo scompiglio e l’insicurezza fra gli stessi vertici del potere reale nel nostro paese.

Il ciclo degli ultimi quindici anni della vita italiana, dominato, sul piano dell’immaginario diffuso, dalla “discesa in campo” di Berlusconi e dall’antiberlusconismo delle sinistre, ha segnato lo sprofondare del nostro paese in una declino sociale, civile e morale che si è tradotto in una ulteriore perdita di diritti dei lavoratori, in un costante abbassamento del reddito reale dei ceti medi e bassi, nella disgregazione del tessuto connettivo del paese, nel diffondersi della corruzione, nel controllo da parte della criminalità organizzata di vaste zone del territorio nazionale. Si tratta di fenomeni che stanno ormai mettendo in pericolo la coesione sociale e l’unità politica del paese.

Chi voglia opporsi a questa decadenza deve elaborare una interpretazione chiara e convincente di quanto sta accadendo, e noi intendiamo cominciare. Nel fare questo tenteremo di rispondere a tre domande. La prima: Berlusconi rappresenta un effettivo pericolo per la democrazia? E’ possibile cioè che, di fronte alla prospettiva della propria definitiva sconfitta, Berlusconi tenti la carta di una eversione della democrazia? La seconda: se si ammette il pericolo di una “dittatura berlusconiana”, ha senso allora parlare del berlusconismo come di una forma di fascismo? E infine ha senso, per combattere un tale “fascismo berlusconiano”, proporre lo schema dell’unità antifascista fra tutte le forze che si oppongono a Berlusconi? Si tratta, come è evidente, di domande alle quali è necessario rispondere se si vuole elaborare una strategia politica che blocchi la decadenza del nostro paese e allontani lo spettro della dissoluzione politica, sociale e morale della nazione italiana. Per chiarezza, anticipiamo subito le nostre risposte a queste tre domande. In primo luogo, riteniamo che Berlusconi rappresenti davvero un pericolo per la democrazia, e che la possibilità di una “dittatura berlusconiana” non sia esclusa. In secondo luogo, riteniamo che tale dittatura non avrebbe nulla di “fascista”, e che non avrebbe quindi senso proporre lo schema dell’unità antifascista contro di esso. Nel seguito cercheremo di argomentare queste tesi.


2. Feudalità criminale.

La realtà sociale e politica dell’Italia di oggi è espressione di fenomeni generali che fanno parte della fase attuale del capitalismo, ma possiede anche una sua specificità, legata sia ad aspetti storici di lunga durata sia alle dinamiche politiche degli ultimi anni. Volendo descrivere alcune di queste caratteristiche generali del mondo contemporaneo, abbiamo in passato usato le espressioni “capitalismo assoluto” o “totalitarismo capitalistico”[1]. Con esse intendiamo indicare il fatto che il rapporto sociale capitalistico è divenuto “assoluto”, cioè non ammette più nessuna (relativa) autonomia di istituzioni non economiche. Lo Stato diventa un’azienda, gli ospedali e le scuole diventano aziende, le stesse più intime relazioni umane devono venir gestite in termini “aziendali”. Questo totalitarismo ha come ovvio effetto lo svuotamento di ogni senso della politica. Se ogni decisione sull’economia è imposta dai mercati e tolta alla politica, quest’ultima si riduce ad una attività vacua e autoreferenziale. E questo è esattamente quello che succede: in tutto il mondo del capitalismo avanzato il ceto politico tende a non incidere minimamente sulla realtà sociale, che è abbandonata alle dinamiche dell’economia capitalistica. La politica in sostanza deve solo garantire la dinamica economica da ogni interferenza contraria, e raggiunge questo risultato appunto con la propria autoreferenzialità che la rende impermeabile alle sofferenze e ai conflitti che la dinamica economica fa sorgere nella società. In cambio di questa garanzia il ceto politico può vivere parassitariamente a spese della ricchezza sociale. Questa configurazione della realtà sociale vale per tutto il mondo occidentale. Ad essa si aggiungono però, in Italia, quelle specificità alle quali abbiamo sopra accennato. Per comprenderle, occorre partire dal fatto che in Italia vi è una tradizione storica per la quale la politica è una forma abbastanza diffusa di sbocco occupazionale dei ceti medi. Le origini di questa particolarità storica andrebbero probabilmente ricercate nel modo stesso in cui si è sviluppato in Italia il capitalismo industriale, con un forte intervento statale, ma per non andare così lontano basterà ricordare come questo aspetto della politica in Italia sia stato molto visibile durante il fascismo: Mussolini riuscì infatti a neutralizzare gli aspetti più eversivi del movimento fascista, e a fare del Partito fascista una semplice cassa di risonanza propagandistica della sua gestione per via burocratica dello Stato, grazie alla trasformazione dei quadri fascisti in funzionari stipendiati di enti statali o dello stesso Partito Nazionale Fascista. Se nell’immediato dopoguerra questo processo conosce una battuta d’arresto, perché il ceto politico emerso dalla Resistenza esprime una cultura diversa, esso però riprende rapidamente con la creazione degli apparati dei vari partiti di massa. L’episodio emblematico di tale processo è lo scontro che nella DC, poco prima della morta di De Gasperi, vede protagonisti lo stesso De Gasperi e Fanfani. Quest’ultimo vuole in sostanza che il partito si crei una base elettorale indipendente dalla Chiesa, e per questo ha bisogno di un ceto di funzionari stipendiati che viene creato sfruttando le risorse occupazionali dell’amministrazione pubblica. Gli altri partiti di massa della Prima Repubblica imiteranno il modello democristiano. A partire da queste premesse, attraverso una dinamica storica che sarebbe troppo lungo ricostruire qui, siamo arrivati alla situazione attuale, nella quale il ceto politico italiano appare come uno dei più estesi, dei più corrotti e dei più rapaci dell’intero mondo occidentale. Questo particolare fenomeno si deve alla sostanziale impunità di cui la corruzione politica ha potuto godere in Italia, con l’eccezione di pochi casi isolati e del momento storico di Mani Pulite. Le ragioni di questa sostanziale impunità stanno probabilmente in aspetti “di lunga durata” dell’Italia, che da molto tempo sono stati indicati all’attenzione pubblica (mancanza di senso dello Stato, “familismo amorale”). Il punto che qui vogliamo sottolineare è che, in presenza di una occupazione delle strutture pubbliche da parte dei partiti, la sostanziale impunità della corruzione genera un ceto politico che si espande sempre di più. Infatti, in mancanza di repressione dei comportamenti illegali, la forza di cui ciascun politico dispone nelle lotte per il potere è direttamente proporzionale alle dimensioni delle propria corte di clienti. Il progressivo estendersi di queste corti clientelari, dovuto anche al progressivo venire meno, in larga parte dell’opinione pubblica, di ogni tipo di resistenza alla corruzione generalizzata, crea alla fine un problema di risorse. Le stesse risorse statali diventano insufficienti e il ceto politico, per finanziarsi, si introduce nel mondo dell’economia, non ovviamente per dirigerla o indirizzarla (il che sarebbe in contrasto, come dicevamo all’inizio, con la natura stessa della politica contemporanea), ma per diventare mediatore d’affari e lucrare guadagni. Questo avviene in tanti modi diversi, per esempio grazie al controllo del territorio di cui dispone il politico e al fatto che è necessaria la sua mediazione per mettere in opera progetti di costruzioni di un tipo o dell’altro, oppure grazie alla possibilità per il politico di far saltare agli imprenditori “amici” le lungaggini burocratiche effettivamente presenti in Italia. Il fenomeno Berlusconi si inserisce in questa dinamica e ne rappresenta la summa perfetta.

venerdì 27 marzo 2015

Sempre più chiaro

Ieri abbiamo segnalato la chiarezza di Giacché, oggi segnaliamo quella diciamo "opposta" del Sole 24 ore. Si tratta di un articolo di Lina Palmerini che riprendo dal blog di Stefano Azzarà. Il contenuto è chiaro e banale: se si resta nell'euro bisogna accettarne le conseguenze, fra le quali il Jobs Act. Ovviamente, è inevitabile, il Sole 24 ore non può essere chiaro fino in fondo: alla fine Palmerini deve, per dovere d'ufficio, irridere a chi pensa di "rifugiarsi entro i confini nazionali" e rivendica "una sovranità sociale e politica", come se questa fosse la posizione di Landini: ma ovviamente la critica da fare a Landini, ciò che rende contraddittoria la sua proposta e la espone alle critiche di Palmerini, è proprio la chiusura di fronte alla rivendicazione di riconquista della sovranità nazionale e democratica.
(M.B.)

giovedì 26 marzo 2015

Chiarezza e brevità

Mi sembrano davvero apprezzabili chiarezza e brevità di questo intervento di Vladimiro Giacché. Si tratta di cose che mi è capitato di ripetere tante volte, in questi anni, ma credo di non essere mai riuscito a sintetizzarle così bene.
(M.B.)



mercoledì 25 marzo 2015

Una vecchia lettera


Ripropongo alcuni passi di un testo del 2010, scritto in collaborazione con Bontempelli, il cui titolo originario era "lettera dal fondo dello sfacelo". Ovviamente il passare del tempo ha reso inattuali alcune osservazioni. All'epoca non parlavamo di euro, e i grillini erano solo una delle componenti del mondo "antisistemico", non ne avevano ancora occupato l'intero spazio politico, come è accaduto in seguito. Mi pare comunque che i concetti fondamentali di questo testo siano ancora validi. Esso era già disponibile in rete, ma forse non era noto a tutti i nostri lettori.
(M.B.)





Lettera dal fondo dello sfacelo
(Marino Badiale, Massimo Bontempelli)


L’Italia, dopo tre decenni di decadimento civile e morale, è giunta ormai al suo sfacelo come nazione e come società. Il lavoro non vi ha più diritti, dignità, ascolto. Ogni legalità è travolta dal potere delle mafie, dalla regolazione dei rapporti economici e professionali attraverso la corruzione, grande o piccola, e da costi e tempi, per molti insostenibili, del ricorso al sistema giudiziario. L’avvelenamento dei suoli, dei corsi d’acqua e delle catene alimentari è oltre il livello di guardia. Istituzioni come la scuola e l’università, fondamentali per il paese, sono ormai distrutte, nella sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica. Le città sono soffocate da una circolazione automobilistica insensata, che sequestra le strade e avvelena l’aria. Mancano servizi che rispondano a esigenze reali, talvolta drammatiche. I rapporti tra le persone sono imbarbariti. E su tutto questo si è abbattuta la crisi economica mondiale che sta mettendo in questione, per larghi settori dei ceti subalterni, anche livelli minimi di benessere.

Di questo sfacelo, effetto di un meccanismo economico esclusivamente volto al massimo profitto di breve periodo, è responsabile in prima battuta l’attuale casta politica, che è la facilitatrice di quel meccanismo, e che dimostra, nella sua interezza, di disinteressarsi sia dello stato drammatico del paese sia della crisi economica, e di essere unicamente interessata ai propri interni e interminabili giochi e controgiochi di potere. Ma corresponsabile dello sfacelo è anche chi vota per uno qualsiasi dei raggruppamenti interni a tale casta, e quindi anche chi alle prossime elezioni regionali darà il suo voto ad una delle sue liste. Basta infatti un po’ di onestà intellettuale per prendere atto dell’evidenza, e cioè che, se la casta berlusconiana è l’espressione di quanto di peggio c’è in Italia, il restante arco politico, dal centro alla cosiddetta sinistra radicale, contribuisce a generare quel peggio. Il ceto politico di centro, centro-sinistra e sinistra non si preoccupa infatti minimamente di fare qualcosa contro lo sfacelo del paese, non dà mai ascolto al mondo esterno alla casta politica, fa prendere le decisioni riguardanti la vita collettiva a burocrati di partito emersi da squallidi giochi di potere, agisce soltanto sulla base di opportunistiche motivazioni di breve periodo. I politicanti di centro, centro-sinistra e sinistra, insomma, non risolvono nessun problema, per cui la loro opposizione a Berlusconi si riduce ad una pantomima nella quale conta l’apparenza e non la realtà, mentre i meriti vengono mortificati e le speranze spente. Tutto ciò contribuisce a creare individui intellettualmente e moralmente degradati, interessati al mondo fittizio delle immagini anziché ai problemi reali del paese, e dunque predisposti ad apprezzare e seguire qualsiasi irresponsabile cialtrone abile nel vendere illusioni.

Abbiamo dimostrato nei nostri scritti la necessità storica della comparsa di questa casta politica priva di progetti e del tutto autoreferenziale. Tale necessità è insita nella configurazione dei rapporti tra poteri economici, funzioni statali e attività politiche derivata da ben individuabili trasformazioni del capitalismo e scelte della sinistra tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. I ceti politici attuali e i loro difetti sono quindi espressione di fondamentali dinamiche storiche, e la loro incapacità di risolvere i problemi reali e di esprimere dirigenti che non siano assolute mediocrità non rappresenta quindi un errore politico o di selezione dei gruppi dirigenti, ma esprime la loro essenza, il loro codice genetico. Pensare di liberarsi del settore peggiore della casta votando quello meno peggiore (o che in un certo momento appare tale, magari solo perché è all’opposizione), è quindi, nella migliore delle ipotesi, un’autoillusione politicamente poco intelligente, e deplorevole per i danni che contribuisce ad arrecare all’Italia. La scelta del male minore, infatti, risulta, in questa fase storica e rispetto a questa casta politica, la via che alimenta e rende vincente il male maggiore, perché non corregge minimamente la tendenza storica al continuo peggioramento della realtà sociale, tendenza a cui l’intera casta politica è omogenea.

(...)

Per uscire dal baratro sociale e spirituale nel cui fondo attualmente ci troviamo non basta assolutamente cacciare Berlusconi con tutta la sua cerchia di disgustosi manutengoli e profittatori, e non basta neppure cambiare qualcuno degli obiettivi che si propongono i ceti politici di destra, centro e sinistra. Ciò di cui c’è urgente, disperato bisogno per non affondare sempre più è l’inversione stessa della logica che oggi guida tutte le scelte politiche. C’è bisogno di smettere di colmare i deficit di bilancio tassando in maniera esorbitante e macchinosamente oppressiva il lavoro, le professioni e la piccola impresa, e di cominciare a prelevare risorse da tre fonti: tassando duramente i grandi patrimoni nati dalla speculazione finanziaria ed immobiliare e dall’evasione fiscale, eliminando tutte le missioni militari all’estero e l’acquisto dei connessi sistemi d’arma, riassorbendo le rendite della corruzione attraverso l’eliminazione della medesima. Un mezzo indiretto ma importante per sconfiggere la corruzione e nello stesso tempo per allargare le entrate statali senza incidere su salari e servizi, sarebbe quello di una tassazione di tutte le inserzioni pubblicitarie alla televisione e negli spazi pubblici. Con tutti questi mezzi si otterrebbero risorse immense, di cui c’è bisogno per creare, o ricreare, una serie di servizi sociali gratuiti sostitutivi di quelli di mercato, aumentando per questa via le disponibilità dei lavoratori senza neanche bisogno di aumentarne le retribuzioni monetarie, e riassorbendo la disoccupazione con tutto il personale necessario a farli funzionare, contro la logica attuale di produrre disservizi riducendo dovunque il personale. C’è bisogno di scegliere non più secondo la logica affaristica e mercantile, ma secondo la logica di ristabilire e tutelare i diritti del lavoro e della salute. C’è bisogno di scegliere quali opere costruire secondo la logica di evitare il consumo ulteriore del territorio e di proteggerne l’integrità, concentrandosi sulla manutenzione costante e sui piccoli aggiustamenti delle infrastrutture esistenti, e bloccando quindi tutte le cosiddette grandi opere, che servono soltanto a mettere in moto appalti, tangenti e corruzione, spesso a vantaggio delle mafie. C’è bisogno di una logica di contrasto intransigente della corruzione, accentuando i controlli di legalità della magistratura mediante procedure semplificate e rapida esecutività della sentenze. E il discorso potrebbe e dovrebbe continuare.

Per poter impostare un simile rivolgimento rispetto alle logiche attuali, bisogna in sostanza abbattere il regime della casta politica, con i suoi addentellati nei media, nell’economia, negli apparati statali. Non sembri eccessivo definire l’attuale realtà politica italiana come “regime”. Si può parlare di regime quando il sistema politico è guidato da un’unica logica, e i portatori di logiche alternative sono emarginati dalle istituzioni e nella società civile e non hanno accesso se non occasionale a nessun tipo di tribuna. La nozione di “regime” è logicamente indipendente dal fatto che il sistema politico ammetta oppure no pluralità di partiti. L’Ungheria di Horthy presentava pluralità di partiti, ma si trattava di un regime, perché i vari partiti esprimevano la stessa logica. Mentre la Germania guglielmina non era un regime: benché il potere reale fosse saldamente in mano ai ceti dominanti, i socialisti, portatori, almeno per una fase, di una logica alternativa rispetto ai ceti dominanti, erano presenti in parlamento e avevano mille ramificazioni nella società civile.

In Italia siamo in presenza di un regime, e questo lo si vede da come siano emarginate o assenti, nel dibattito pubblico, posizioni che esprimano logiche davvero alternative, come quelle sopra ricordate. Lo si vede anche da come ormai tutti i percorsi professionali non dipendano mai da meriti e da regole trasparenti, ma dipendano invece dal patrocinio di qualche partito che conta. Proprio come all’epoca del regime mussoliniano la tessera del partito fascista era la condizione per far carriera, così è oggi, con la sola differenza che il partito benefattore e corruttore non è unico, ma plurale. Ma se si accetta questo punto, il fatto cioè che l’Italia è oppressa dal regime di una casta politica che sta portando il paese allo sfacelo, è chiaro che ciò di cui c’è bisogno è un nuovo CLN, una nuova lotta di liberazione nazionale.

Le forze per dar vita a questa lotta ci sono, e fanno riferimento a tre aree, che si distinguono dall’istanza principale sulla quale si focalizzano: da un parte l’area che si ispira a principi di giustizia sociale (più o meno l’area di chi, fuori dalla casta, si definisce ancora “comunista”), poi l’area di chi mette al centro il problema della legalità (“popolo viola”, “grillini”, “Il fatto quotidiano”), infine l’area degli ecologisti (ovviamente quelli veri, estranei alla piccola burocrazia del partito verde). Queste forze sono per il momento bloccate da alcuni ostacoli. Il primo, più evidente ma meno importante, sta nel loro essere minoritarie: è un dato di fatto, ma non è così importante perché tutti i grandi rivolgimenti partono sempre da minoranze. Il secondo e più serio ostacolo sta nel fatto che queste tre aree tendono ad essere divise ed anche in opposizione tra loro. Questa divisione è un errore grave, perché nella situazione italiana attuale ciascuna delle istanze sopra indicate si completa nel riferimento alle altre due, e separarle significa indebolirle e votarle alla sconfitta.

Ad esempio, chi lotta contro la casta in nome della giustizia sociale e dei diritti dei lavoratori spesso è diffidente nei confronti delle istanze di legalità. Ma in questo modo non si rende conto che la corruzione della casta non è un dato marginale e poco interessante, ma è l’espressione dell’asservimento della casta stessa ai poteri economici interni e internazionali che richiedono la distruzione dei diritti dei lavoratori. La corruzione, cioè, è la forma specifica che assume in Italia l’asservimento del paese ai poteri economici interni e internazionali. Infatti un ceto politico che difendesse i diritti dei lavoratori dovrebbe lottare contro potentissime forze interne e internazionali. E’ pensabile che una qualsiasi delle bande di corrotti che costituiscono l’attuale ceto politico possa farlo? Ovviamente no, appunto perché sono corrotti e i corrotti non hanno né il desiderio né la forza di lottare contro chi li foraggia. Ma se questo è chiaro, lottare contro la corruzione della casta significa appunto lottare contro lo strumento politico di quel potere economico che distrugge i diritti del lavoro, e il controllo di legalità è l’arma migliore per questa lotta.

Dall’altra parte, chi difende il principio di legalità ignorando la giustizia sociale e i diritti dei lavoratori commette un doppio errore. In primo luogo un errore di analisi, perché non vede come l’attacco alla legalità sia strettamente legato alle dinamiche del capitalismo contemporaneo. In secondo luogo, di conseguenza, un errore politico, perché non capisce che l’appello alla legalità può vincere solo se si collega alla forza sociale dei ceti subalterni che lottano contro il degrado cui li condanna l’attuale sistema economico, mentre se li ignora o li considera con diffidenza l’appello alla legalità resta un tema minoritario. Analoghi discorsi valgono per le tematiche dell’ecologismo e della decrescita.

Per iniziare una lotta di liberazione nazionale dalla casta che ci soffoca, occorre dunque che queste tre aree superino gli ostacoli che le dividono e trovino un linguaggio comune. Condizione preliminare e irrinunciabile è però la rottura totale con l’intero arco della casta politica. Occorre rompere ogni contiguità rispetto alla casta, occorre rinunciare completamente all’idea di influenzare questo ceto politico.

(...)












sabato 21 marzo 2015

Nasce il blog Badiale-Tringali.it

Questo blog vuole proseguire l'esperienza di main-stream.it, il nostro blog precedente.
In questi anni non abbiamo cambiato idea, ed anzi si è rafforzata in noi la convinzione che il mondo contemporaneo sia di fronte a un difficile passaggio di civiltà, dovuto al fatto che l'organizzazione sociale capitalistica ha ormai esaurito gli aspetti parzialmente progressivi che, sia pure tra mille contraddizioni, regressi e tragedie, ha avuto in passato, e sia ormai foriera solo di devastazioni sia dell'ambiente naturale sia delle relazioni sociali. 
Siamo di fronte a numerose crisi. 
Oltre alla crisi economica, quella ecologica, quella geo-politica, vi è quella relativa alla crescente frattura fra istituzioni politiche e cittadini, fra chi detiene le leve del potere e chi ne subisce le decisioni, fra soggetti politici sempre più corrotti e società civile sempre meno capace di incidere nella realtà.

Tutte queste crisi sono interconnesse e sono tutte figlie del passaggio di civiltà cui abbiamo accennato. Esso può risolversi nella creazione di una società migliore, come può portare ad una devastazione senza precedenti.
In questo blog cercheremo di approfondire le ragioni delle diverse crisi, provando a indagare le possibili vie di uscita. Le nostre riflessioni sulla crisi economica ed ambientale esploreranno possibili vie di incontro fra linee di pensiero differenti ed anche apparentemente in conflitto, ma accomunate dall'obiettivo di costruire una società diversa, socialmente giusta, ecologicamente sostenibile.

I nostri principali riferimenti saranno il pensiero della decrescita e le varie correnti del pensiero economico critiche nei confronti del paradigma dominante, dai post-keynesiani al marxismo non dogmatico.
Parleremo della crisi della democrazia e degli attacchi ai diritti dei ceti subalterni, parleremo della fine dell'opposizione fra destra e sinistra, non per giustificare politiche di destra, ma per trovare il modo di recuperare i valori di equità e giustizia sociale e riportarli nell'agone politico, dal quale sono stati espulsi.
Parleremo della necessità di rifondare le istituzioni democratiche e ripensarne il funzionamento, per costruire una democrazia realmente partecipativa (obiettivo per il quale è "condicio sine qua non" riconquistare la sovranità nazionale, uscendo dalle gabbie dell'euro e della U.E), e della necessità di costruire alleanze fra i popoli contro le politiche imperialistiche. 
Sono gli stessi temi che abbiamo affrontato nei nostri libri e che vogliamo continuare ad approfondire.

Marino Badiale & Fabrizio Tringali