La trappola dell’Antropocene
(lettere al futuro 6)
Marino Badiale
Appare ormai abbastanza diffuso il riconoscimento del fatto che l’azione umana sul sistema terrestre sia arrivata al punto da mettere in pericolo i principali cicli fisici, chimici e biologici del sistema stesso. La relativa stabilità di tali cicli è stata fino ad oggi il fondamento naturale delle civiltà umane, e metterne in pericolo l’autoriproduzione significa dunque ipotecare il futuro dell’attuale civiltà e spingersi pericolosamente nella direzione di un gravissimo collasso sociale. Nello sforzo di precisare e quantificare questo tipo di problemi, alcuni studiosi hanno elaborato la nozione di “limiti planetari”, limiti che l’umanità non deve superare per evitare un’alterazione profonda dei cicli del sistema [1]. Il più noto di tali problemi riguarda l’alterazione umana del ciclo del carbonio: l’uso di combustibili fossili ha portato, negli ultimi due secoli, all’accumulazione nell’atmosfera di gas a effetto serra, in particolare anidride carbonica, e questo sta iniziando ad alterare il clima del pianeta. Ma anche gli altri limiti individuati dagli studiosi in questione si legano a dinamiche cicliche del sistema terrestre che sono essenziali per la riproduzione della civiltà umana come la conosciamo.
Il fatto che l’azione umana sia arrivata a disturbare aspetti fondamentali della dinamica del sistema-Terra ha portato all’elaborazione della nozione di “Antropocene”, con la quale si vuole indicare l’ingresso in una nuova era geologica, quella, appunto, nella quale l’essere umano è divenuto un vettore di cambiamento geofisico paragonabile alle forze naturali che hanno segnato l’evoluzione del sistema-Terra nei miliardi di anni della sua storia.
Di fronte alla dimensione e alla gravità di questi problemi, è naturale che nasca un ampio dibattito, a tutti i livelli della società, e che si confrontino le più diverse posizioni culturali e politiche. In questo intervento intendo sostenere una tesi radicale, che verrà esplicitata nel seguito. Per introdurla, vorrei intanto discutere le tesi di coloro i quali, di fronte ai problemi sopra accennati, sostengono che la soluzione sia da cercare in grandi interventi tecnologici, che dovrebbero contrastare i fenomeni negativi generati dall’azione umana. Queste tesi si potrebbero riassumere nel modo seguente: “poiché ormai siamo nell’Antropocene, dobbiamo usare la nostra forza di esseri umani per gestire le dinamiche del pianeta in senso a noi favorevole”. Chiamerò “tecnofili” i sostenitori di tali posizioni. Idee analoghe circolano da tempo, per esempio in relazione al famoso Rapporto al Club di Roma del 1972, dedicato ai “limiti della crescita”[2]: anche in questi dibattiti vi fu chi argomentò che i limiti fisici delle risorse, per esempio, non sono rilevanti, perché la capacità inventiva umana sarà sempre in grado di spostarli più in là scoprendo tipi di risorse completamente nuovi: ad esempio il petrolio o l’uranio, che non sono mai state fonti energetiche, lo diventano grazie ai progressi della scienza e della tecnica.
Le tesi dei tecnofili sono difficili da discutere, perché rappresentano in sostanza una scommessa su un futuro essenzialmente imprevedibile. L’innovazione scientifica e tecnica ha sempre un tale carattere di imprevedibilità, altrimenti non sarebbe innovazione: secondo un valido argomento che risale, se la memoria non m’inganna, a K.R.Popper, se potessimo prevedere le scoperte scientifiche del futuro le avremmo già fatte, e non sarebbero più scoperte scientifiche. Ha dunque qualche fondamento l’argomento dei tecnofili: non possiamo sapere cosa ci porterà la ricerca scientifica del futuro, quindi non possiamo escludere che essa ci possa fornire strumenti scientifici e tecnici del tutto nuovi, e oggi impensabili, per affrontare i vari problemi ai quali abbiamo accennato. D’altra parte, si potrebbe ribattere ai tecnofili, se non possiamo sapere cosa ci porterà il futuro, di fronte al pericolo di un collasso di civiltà, non sembra del tutto ragionevole fare affidamento a sviluppi scientifici e tecnologici di cui al momento nessuno sa nulla. In altre parole, se non possiamo escludere grandi scoperte scientifico-tecniche, non possiamo neppure esserne certi: la posizione dei tecnofili appare una scommessa piuttosto azzardata, visto che non è qui in gioco il destino di un singolo individuo o di una impresa o di uno Stato, ma dell’intera civiltà attuale.
Arrivati a questo punto, la discussione sembra bloccata. Voglio allora proporre un ulteriore argomento per mostrare quello che mi sembra un grave limite della posizione dei tecnofili. La forza di tale posizione si basa sulla stupefacente serie di conquiste tecniche e scientifiche di cui l’umanità è stata capace fino ad oggi, ben note a tutti e delle quali è inutile fare adesso un elenco che sarebbe lungo e noioso. Le grandi conquiste scientifiche e tecnologiche dell’umanità sono un dato di fatto che non può essere negato. È però importante, mi sembra, la seguente osservazione: la storia delle conquiste umane è storia di successi ma anche, in pari grado, storia di fallimenti ed errori. Le scoperte scientifiche e le nuove teorie emergono da uno sfondo di errori: ogni impresa di successo, ogni grande innovazione tecnologica lascia dietro di sé un cimitero di fallimenti, e talvolta le innovazioni tecnologiche portano a disastri prima di essere correttamente calibrate. In questa constatazione non c’è nulla che sminuisca le capacità umane. Semplicemente, è un dato di fato che l’essere umano, nella costruzione del proprio mondo (materiale e intellettuale), procede per tentativi ed errori, ed è solo attraverso tentativi ed errori che si arriva a qualcosa di valido. Tutto ciò fa ormai parte del senso comune, ed esiste un’abbondante letteratura relativa al tema degli errori nella storia della scienza, della tecnologia, delle imprese economiche [3]. Il punto fondamentale per la mia argomentazione è che l’umanità ha sempre potuto permettersi di procedere per tentativi ed errori, perché l’errore, anche quando era catastrofico, colpiva, magari anche tragicamente, una piccola frazione della società, e non metteva in pericolo i fondamenti biofisici di ogni società sulla terra.
È chiaro però che la situazione dell’umanità nell’Antropocene è completamente diversa, e, da questo punto di vista, del tutto nuova. Nel momento in cui l’azione umana è dell’ordine di grandezza delle fondamentali forze geofisiche planetarie, ogni errore umano ha, potenzialmente, lo stesso ordine di grandezza di tali forze. Ogni errore può cioè provocare disastri planetari. E questa situazione è resa ancora più grave dal fatto che non conosciamo appieno tutte le possibili interazioni planetarie, e quindi non possiamo prevedere in maniera compiuta le modalità in cui l’errore umano può destabilizzare il pianeta.
Se questi ragionamenti sembrano astratti, proviamo a focalizzarci su un singolo evento disastroso, fra i molti che hanno costellato la storia dell’azione umana sul mondo. Ero un bambino al momento della tragedia del Vajont [4], e, pur non capendone ovviamente granché, l’evento mi restò impresso. Si tratta di un gravissimo disastro: circa 2000 morti in un’Italia lanciata sulla strada della modernizzazione e del boom economico. Il punto fondamentale che vorrei riuscire a trasmettere è che errori (o crimini, non è questo il punto nella discussione presente) come quelli che hanno portato alla tragedia del Vajont, una volta che l’umanità è entrata nell’Antropocene, si avranno su scala enormemente più vasta, perché questa è appunto l’essenza dell’Antropocene: quello che fa l’umanità ha ormai dimensioni e conseguenze planetarie. Per capire a quali rischi andiamo incontro nell’Antropocene, dobbiamo in primo luogo prendere una tragedia come il disastro del Vajont, tragedia spaventosa accaduta in una limitata zona alpina, e portarla almeno alla scala di un continente, se non dell’intero pianeta. In secondo luogo, dobbiamo pensare che una tragedia come quella del Vajont, per quanto orribile, non distrugge uno Stato, tantomeno una civiltà, perché non altera le condizioni ambientali fondamentali su cui si basano le civiltà umane; mentre, al contrario, questo è proprio quello che succede nell’Antropocene.
Mi sembra che preoccupazioni di questo tipo siano alla base di molte delle critiche che vengono rivolte ai progetti di “geoingegneria”. Si tratta, come è noto, dei progetti che vorrebbero rimediare ai problemi creati dall’azione umana con interventi tecnologici su scala appunto planetaria. Un esempio tipico, in riferimento al cambiamento climatico, è quello del progetto di lanciare nell’atmosfera prodotti analoghi a quelli di una grande eruzione vulcanica, in modo da schermare la luce solare e ridurre l’afflusso di energia sul pianeta. È interessante notare che le critiche a un progetto di questo tipo [5] fanno riferimento a pericoli come quello di piogge acide su scala massiccia, o al peggioramento dei problemi di siccità in molte zone tropicali. L’evocazione di simili scenari mi sembra mostri con chiarezza il punto fondamentale di quanto sto sostenendo: al livello di potere a cui è arrivata l’azione umana sul pianeta, ogni errore può avere conseguenze catastrofiche su interi continenti. D’altra parte, come abbiamo sopra evidenziato, la storia umana è storia appunto di errori e di progresso attraverso gli errori e grazie ad essi. Solo che, prima dell’Antropocene, gli errori non incidevano sulle dinamiche planetarie. Nell’Antropocene, per definizione, ogni errore può avere conseguenze globali e non pienamente prevedibili, tali da accelerare il collasso ecosociale che si vorrebbe impedire. Per sintetizzare in una formula: nell’Antropocene non possiamo permetterci errori, ma d’altra parte è impossibile non commettere errori. In definitiva, l’Antropocene è una trappola.
Se l’argomentazione fin qui svolta è valida, ne discende chiaramente che le tesi dei tecnofili non sono più applicabili, nella nuova situazione dell’umanità che indichiamo col termine “Antropocene”.
Ammettendo che tutto quanto fin qui detto sia ragionevole, sorge allora, ovviamente, la domanda: che fare? La risposta è facile da enunciare: se l’Antropocene è una trappola, occorre liberarsi, fuggire dalla trappola. Questo significa naturalmente, in primo luogo, rinunciare a tutti i progetti di “geoingegneria”, che rappresentano la pura e semplice prosecuzione della logica di potenza umana che definisce l’Antropocene. Ma significa molto di più. Uscire dall’Antropocene, data appunto la sua definizione, significa tornare in una situazione in cui l’azione umana non è più paragonabile all’azione delle grandi forze geofisiche. Significa cioè diminuire grandemente il potere umano di agire sulla natura. Significa ridurre la pressione umana sul sistema-pianeta, da tutti i punti di vista: e quindi in primo luogo ridurre produzione, consumi ed estrazione di risorse, ridurre la superficie terrestre utilizzata per le esigenze umane, fermare la deforestazione, diminuire grandemente la pesca, gli allevamenti, gli scambi commerciali, i viaggi. Significa anche, ovviamente, ridurre la popolazione umana: ma questa operazione, per tante intuibili ragioni, potrà essere attuata solo con molta lentezza, e quindi non sarà incisiva nell’immediato.
Quanto appena prospettato rappresenta, ovviamente, un cambiamento radicale rispetto alla logica fondamentale della società capitalistica, logica che ormai si è estesa all’intero complesso delle società umane. Se un’umanità concorde nell’esigenza di evitare il collasso che ci aspetta iniziasse adesso un percorso di fuoriuscita dalla logica capitalistica e dall’Antropocene, le tragedie peggiori potrebbero probabilmente essere evitate. Ci si può chiedere allora se questo tipo di cambiamento, facile da enunciare, abbia qualche possibilità di essere attuato nei tempi stretti che l’ormai incombente crisi ecosociale ci lascia. Ma anche in questo caso la risposta è assai facile: ovviamente no, non verrà attuato. Come ho argomentato in altri luoghi, ai quali rimando [6], non ci sono, nell’attuale società capitalistica globalizzata, significative forze sociali che spingano nella direzione di un cambiamento come quello indicato, e che dispongano di una proposta, ragionevole e convincente, di organizzazione sociale da sostituire a quella attualmente dominante. La logica capitalistica dominante proseguirà dunque nella sua traiettoria mortifera, che porterà al collasso dell’attuale civiltà e a sconvolgimenti sociali ed ecologici oggi imprevedibili. Il collasso prossimo venturo abbasserà drasticamente la potenza umana, e quindi alla fine l’umanità uscirà in ogni caso dall’Antropocene: ma questa fuoriuscita si imporrà ad una umanità impreparata ad essa e attraverso catastrofi planetarie.
Note
[1] Su questo tema si possono vedere i lavori di Johan Rockström, uno degli studiosi che hanno contribuito all’elaborazione del concetto di “limiti planetari”. Le idee fondamentali sono compendiate per esempio nei seguenti testi: J.Rockström, A.Wijkman, Natura in bancarotta, Edizioni Ambiente 2014; J.Rockström, O.Gaffney, Breaking Boundaries, DK Publishing 2021.
[2] Si veda la recente riedizione italiana del celebre rapporto: D.H.Meadows, D.L.Meadows, J.Randers, W.W.Behrens III, I limiti alla crescita, Lu::Ce edizioni 2018, e l’approfondita storia del dibattito da esso innescato: U.Bardi, The Limits to Growth Revisited, Springer 2011.
[3] Per esempio M.Bucchi, Sbagliare da professionisti, Rizzoli 2018, M.Livio, Cantonate, Rizzoli 2014. Ma è sufficiente cercare su google “errori tecnologici”, “fallimenti scientifici”, e simili espressioni, per trovare esempi e riferimenti bibliografici.
[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Disastro_del_Vajont
[5] Si veda ad esempio il capitolo 7 di M.E.Mann, La nuova guerra del clima, Edizioni Ambiente 2021.
[6] http://www.badiale-tringali.it/2021/03/fine-partita.html , http://www.badiale-tringali.it/2021/07/verso-il-collasso-lettere-al-futuro-5.html
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