Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale, parte 3
Paolo Di Remigio
(Terza ed ultima parte del saggio di Di Remigio. Qui la seconda parte)
Dal dopoguerra fino agli anni ‘70 gli stati europei hanno perseguito gli obiettivi keynesiani della crescita economica e della piena occupazione. L’ansia di ridurre l’attrazione esercitata dal mito sovietico ha spinto le oligarchie occidentali a consentire che anche i lavoratori godessero del benessere. Per le oligarchie era una concessione gravosa. Con la crescita economica e la piena occupazione aumenta il potere contrattuale dei lavoratori: le retribuzioni più alte erodono i profitti; la sicurezza dell’occupazione indebolisce il controllo imprenditoriale sulle aziende. Agli svantaggi del capitalismo industriale si sommano quelli del capitalismo finanziario: alti salari e posto fisso mettono le ali alla domanda aggregata, quindi stimolano l’inflazione; invece la finanza esige la deflazione che valorizza il denaro e favorisce i creditori. Con il fallimento dell’esperimento sovietico già evidente alla fine degli anni Settanta e il tramonto del suo mito, la parentesi keynesiana poteva essere chiusa. Si è avviata così una sovversione oligarchica per rimuovere la piena occupazione dagli obiettivi dello stato così da ridurre il potere contrattuale dei lavoratori[25]. Poiché però i lavoratori dipendenti sono anche elettori e l’ordinamento democratico è sensibile ai loro umori, il mezzo più sicuro per ridefinire i rapporti sul mercato del lavoro in senso favorevole al capitale, conservando nel contempo almeno l’apparenza di democrazia, era il ripristino dell’antica esclusione dello stato dalla sfera economica. Così negli anni Ottanta si è aperta l’epoca del neoliberalismo.
I suoi ideologi hanno diffuso il dogma economico per il quale unico vero nemico della prosperità sarebbe l’inflazione. In verità negli anni Settanta essa era stata alimentata dall’aumento dei prezzi del petrolio più che dalla politica economica; il dogma però lo ha ignorato e ha sostenuto che a provocarla siano state le banche centrali dipendenti dallo stato con le loro emissioni sconsiderate di denaro a favore del clientelismo politico; era dunque necessario che le banche centrali fossero indipendenti dallo stato e non fossero più obbligate a creare denaro a sua richiesta. Nonostante fosse stato sganciato da ogni legame con l’oro un decennio prima e fosse ora del tutto fiduciario, il denaro tornava così a essere una merce scarsa, che non si trova «sotto gli alberi», che lo Stato deve comprare a caro prezzo sui mercati finanziari[26].
Sostenere gli investimenti per assicurare la piena occupazione porta ora ad accumulare debito pubblico. Dopo l’allarme per l’inflazione il dogma neoliberale può lanciare quindi un nuovo allarme per un nuovo nemico, non meno temibile del primo, perché potrebbe trascinare gli stati e le economie alla bancarotta, ma molto più immorale perché, invece di punire la società attuale come fa l’inflazione, condanna i suoi figli a scontare con la povertà le gozzoviglie dei loro padri. Si sorvola sull’ovvietà che il debito pubblico, a differenza di quello privato, è garantito dalla banca centrale che crea denaro e che, quindi, se vuole, può sempre restituirlo; si sorvola che i figli ereditano non solo il debito pubblico, che comunque non devono restituire, ma anche il relativo credito privato e ciò che di durevole la spesa pubblica ha prodotto. Si trascura che la grandezza in generale è una determinazione relativa; che a esprimere la sostenibilità del debito è non l’esiguità del suo ammontare, ma la diminuzione del rapporto debito/PIL; che dunque la sostenibilità può essere ottenuta non dai risparmi di spesa pubblica ma dai suoi aumenti in quanto comportano un aumento più che proporzionale del PIL[27]. Si sorvola e si trascura, perché il debito dello stato è un pretesto; in realtà si vuole il taglio della sua spesa; solo l’austerità consente infatti di avvicinare il vero scopo: l’aumento della disoccupazione che ridefinisce a favore del capitale i suoi rapporti col lavoro. Inoltre, si vuole inibire ogni intervento dello stato nell’economia che non sia di assistenza alle follie del mondo finanziario. Secondo la formula del presidente Reagan: il governo non è la soluzione, anzi è il problema, – che si risolve se lo stato cessa di mettere becco nell’economia per sostenere gli investimenti e l’occupazione, taglia le tasse e le spese e svende il suo patrimonio per pagare i creditori; e non dimentica infine di abolire le regole che, per difendere l’economia nazionale e i diritti del lavoro, limitano la libertà delle oligarchie.
Il neoliberalismo apre così l’epoca in cui patrimonio e servizi pubblici sono svenduti e i fattori produttivi sono posti in libero movimento, l’epoca della globalizzazione. I capitali si muovono ora dai paesi ricchi per investire nei paesi poveri, dove trovano un costo del lavoro irrisorio; le merci si muovono dai paesi poveri ai paesi ricchi distruggendo con il fuoco del loro prezzo irrisorio le produzioni locali; e accanto alle merci si muovono i poveri. I lavoratori nei paesi ricchi, esposti per un verso alla concorrenza del lavoro nei paesi poveri, esposti per l’altro alla concorrenza dell’immigrazione, che il crimine organizza e i politici globalizzanti apprezzano, subiscono l’annientamento del loro potere contrattuale sul mercato del lavoro, tanto che i loro sindacati sono ridotti a corporazioni fasciste.
Finisce così l’epoca del posto di lavoro sicuro e degli alti salari completati dai servizi sociali e dalle pensioni. Tutti gli umani, non meno delle merci, dei servizi e dei capitali, devono ora assoggettarsi a una mobilità sconfinata. Il migrante che vive nella zona grigia tra inclusione ed esclusione, o addirittura in quella tra legalità e illegalità, lì dove è facile essere ricattati, è ora celebrato come archetipo del nuovo lavoratore. A officiarlo non sono mancati sociologi entusiasti della fine delle tutele, della fecondità dell’ozio, del rifiuto del salario come nuovissima arma di lotta operaia. La sovversione oligarchica non sarebbe però stata così irresistibile se essa non avesse vestito i panni dell’antico sovversivismo progressista, se la sinistra non si fosse prestata a mascherare un disegno reazionario con la sua retorica internazionalista, illuminista o rousseauiana.
La morsa del doppio sovversivismo ha stritolato l’Italia ancora popolata dei fantasmi degli anni Settanta. Il nostro paese vive la storia mondiale in ritardo, perché la fine della guerra non ha segnato la pace, ma solo la tregua. Contro il comunismo gli anglo-americani hanno reclutato nella NATO anche gli ex fascisti: una trama nera, secondo l’espressione di Togliatti[28], capace di logorare il ricamo sul tessuto costituzionale della repubblica democratica. Dall’altra parte, nonostante sapesse che il terrore era parte integrante dell’utopia realizzata nel mondo orientale, il PCI ha conservato il suo sovversivismo rivoluzionario, coniugato secondo la strategia gramsciana della guerra di posizione, oppure, nella sua componente massimalista più avventata, secondo il modello leninista dell’insurrezione.
In un clima di conflitto latente, i settori progressisti della Democrazia Cristiana hanno aperto l’economia italiana alle politiche keynesiane, in misura più timida con De Gasperi, in misura più decisa con Fanfani. È anche questa apertura ad aver determinato il grandioso successo economico dell’Italia a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Il messianismo comunista vi ha perso la sua ragione storica: il progresso materiale dei lavoratori italiani è stato superiore a quello dei lavoratori dell’Unione Sovietica, e, ciò che importa essenzialmente, si è realizzato senza rinnegare la persona. D’altra parte, la crescita inaudita dell’influenza dell’Italia nel Mediterraneo ha svuotato di senso ogni nostalgia fascista: quanto Mussolini cercava con la sua guerra sciagurata, l’audacia di Enrico Mattei lo ha realizzato con la pace. La guerra civile latente non aveva più una base oggettiva; tanto è vero che il suo riesplodere negli anni Settanta è contestuale alla crescita economica e a importanti riforme della vita civile.
Già negli anni Sessanta, invece, la politica keynesiana, che Fanfani e poi Moro hanno cercato di stabilizzare con la formula politica del centro-sinistra, ha incontrato gli ostacoli del vincolo esterno, eredità della sconfitta nell’ultima guerra: un apparato dello stato in cui si annidano fascisti, fedeli non alla Costituzione ma alla NATO, che esasperano il conflitto di classe; alcune potenze straniere preoccupate per il dinamismo mediterraneo dell’Italia e pronte a favorirne la destabilizzazione, l’ostilità delle superpotenze all’avvicinamento dei comunisti al governo.
In questo contesto, ma senza comprenderne nulla, si inserisce la protesta studentesca alla fine degli anni Sessanta. Quale appare in un documento significativo come le «Tesi della Sapienza», essa soffre una profonda contraddizione, quella tra il considerare lo studente un lavoratore produttivo e il considerare il suo studio finalizzato all’autonomia culturale[29]. Gli studenti vi incorrono per il desiderio di avere un salario come se lavorassero produttivamente[30]. La pretesa assurda di essere già lavoratori produttivi, la cesura del miracolo economico che ne fa dei consumisti viziati in rotta con genitori e docenti vissuti in epoche difficili [31], un marxismo rozzo che riveste un elementare sovversivismo messianico, tutto ciò li porta a rifiutare il lavoro proprio dello studente: lo studio. Essi lo condannano come trasmissione di un passivo nozionismo[32] e vorrebbero sostituirgli un nuovo metodo attivo: la «co-ricerca» insieme agli insegnanti, che ne annulla l’autorità e li riduce a collaboratori. Per quanto il termine di co-ricerca possa oggi sembrare ridicolo, si tratta della stessa contorsione pedagogica che poi si è manifestata come scuola delle competenze: è sempre l’intolleranza messianica della realtà che, scavalcata la conoscenza, atterra sulla cieca prassi e a scuola reclama immer wieder la didattica attiva. E quell’innovazione è finita allora esattamente dove finisce quella odierna: nell’ignoranza spaventevole coperta dai voti esuberanti, che allora furono nobilitati con la qualifica di ‘politici’, oggi si potrebbero chiamare ‘inclusivi’.
Solo una visione interessata potrebbe ignorare che le «Tesi della Sapienza» sono state scritte da una minoranza violenta. Non solo perché la loro controparte vi è definita in stile manicheo, come una classe dominante tutta d’uno pezzo, come il capitale[33], ma anche perché ai docenti e all’intero Ministero della Pubblica Istruzione è negato l’onore di essere controparte; le tesi li considerano semplici comparse, la cui opposizione non merita ascolto, non può dunque essere superata discorsivamente[34]. Inoltre la minoranza di facinorosi esercita una coazione sulla maggioranza degli studenti: «Il movimento sono le assemblee e gli studenti che contribuiscono al dibattito e all’azione pratica promossa dalle assemblee»[35]; la maggioranza, che a buon diritto non intende partecipare alle assemblee illegali, è assoggettata in modo dittatoriale alle azioni che esse promuovono. Il partito armato degli anni Settanta non è dunque una degenerazione imprevedibile e malaugurata, ma il ricorso alle chiavi inglesi e alle armi da fuoco di una protesta studentesca violenta fin dagli inizi.
Perché al tempo si sia lasciato devastare la scuola italiana a pochi facinorosi incapaci di scrivere due frasi senza contraddirsi, può essere spiegato in parte con la protezione loro assicurata dalle famiglie borghesi di provenienza[36], in parte con l’esitazione di alcuni a usare contro di loro la forza di uno stato traboccante di fascisti, ma soprattutto con l’intento di strumentalizzarli coltivato da chi all’estero aveva già pianificato la strategia della tensione[37]. Essa consisteva nell’aiutare i neofascisti a fare strage di cittadini inermi per poi incolparne la sinistra, con due obiettivi: fermare lo scivolamento verso sinistra[38] dell’Italia e rintuzzarne i successi mediterranei. I pianificatori del terrore devono aver visto come una fortuna insperata che la contestazione studentesca, abbagliata da una prospettiva rivoluzionaria del tutto inesistente, si insinuasse nelle fabbriche e diventasse «partito armato». Il volontarismo messianico dei contestatori precludeva loro la conoscenza, tanto più quella del presente: essi capiscono che a piazza Fontana si è consumata una strage di Stato, ma non sanno di che stato si tratti. Così reagiscono alla cieca, sulla base dell’indignazione[39], proprio contro lo stato aggredito, anziché contro lo stato aggressore, di cui si ritrovano complici. Inizia qui, con l’indignazione, l’abitudine della nuova sinistra a tradire lo stato.
I tanti servitori del vincolo esterno che inquinavano lo stato hanno lasciato incrudelire il terrorismo fino a quando i loro padroni hanno considerato raggiunto lo scopo che si erano prefissi. Liquidata l’apertura a sinistra di Moro con la sua uccisione, l’Italia era pronta anche alla liquidazione neoliberale dell’interventismo economico dello stato e a saldarsi con un cerchio ferreo al vincolo esterno. Avviata negli anni ’80 da Andreatta con il divorzio dalla Banca d’Italia e da Craxi con la soppressione della scala mobile, la liquidazione dell’interventismo economico è stata completata negli anni Novanta da una sinistra tutta confluita nel neoliberalismo; essa ha anche cercato di renderla definitiva cedendo la sovranità nazionale all’asse franco-tedesco sotto la bandiera della UE. Dopo che un suo settore ha servito senza accorgersene gli interessi stranieri, tutta la nuova sinistra è passata a servirli con consapevolezza, come sempre in nome del messianismo, ora quello che anima il sogno europeo[40].
Devastata dal basso dalla protesta studentesca degli anni Sessanta, la scuola non si è più liberata dall’odio attivistico della conoscenza; da una parte il PCI ha dato un’eco alla devastazione avanzando nel 1974 l’esigenza assurda di una scuola democratica, cioè di una scuola senza maestri; dall’altra, l’ideologia neoliberale già incombente voleva una scuola che fornisse forza lavoro flessibile. Così negli organigrammi del Ministero dell’Istruzione sono arrivati i vecchi eroi della lotta al nozionismo che, liberatisi dal frasario marxista e da tanti ricordi imbarazzanti, hanno completato dall’alto la devastazione della scuola con riforme ispirate agli stessi equivoci coltivati impunemente in gioventù. Sono dunque stati ministri di sinistra quali Bassolino e Berlinguer a imporre agli istituti l’autonomia dallo stato, agli insegnanti la riconversione in animatori (co-ricercatori, avrebbero detto venti anni prima) [41] e a stabilire nella scuola il nuovo principio: non più la conoscenza, né scienza né cultura, perché la continua rivoluzione tecnologica sembra rendere inutile la «scienza astratta»[42], ma il cambiamento.
Il nuovo principio genera nella scuola una condizione inaudita. Il sensato è utile e tende a conservarsi uguale a sé; è l’insensatezza che, essendo inutile o dannosa, non dura, e può conservarsi solo assumendo panni sempre nuovi. Poiché si ispira al mito del cambiamento continuo, la scuola attuale è l’apoteosi dell’insensatezza: un dispiegamento di esperimenti senza esito, di mezzi senza scopo, di procedure senza risultato, in una palude di rassegnata passività in cui infine l’attivismo didattico si rovescia e manifesta la sua essenza.
La sinistra si lega al cambiamento perché le consente di rivestire le tendenze schiaviste della sovversione neoliberale con i panni del suo antico umanitarismo, di nobilitarle e di nascondere così ciò che il suo sovversivismo è diventato. Prolifera così nella scuola italiana una selva di coincidenze tra struttura e sovrastruttura. La pedagogia progressista scopre che i docenti devono stimolare la creatività proprio quando nel mondo neoliberale i lavoratori devono rispondere alla disoccupazione inventandosi un lavoro; scopre che i docenti devono avviare il lifelong learning proprio quando l’ideologia neoliberale decide che devono saltare da un lavoro all’altro. Mentre le oligarchie fanno dell’occupabilità il nuovo paradigma di vita, i pedagogisti progressisti raccomandano ai giovani i videogiochi e considerano un fattore di corruzione la conoscenza con le sue riprovevoli esigenze di sicurezza e di σχολή. Mentre le oligarchie dispongono che si viva nella precarietà, i progressisti scoprono che l’insegnamento deve essere improvvisato e le loro riforme esasperano a tal punto la flessibilità didattica che ogni scuola ripianifica la sua attività ogni anno ed è premiato chi sperimenta progetti e innova didattiche. Mentre gli industriali fanno della scuola un mero preludio al mondo del lavoro, la sinistra unisce l’antica centralità socialista del lavoro all’antico rifiuto della proprietà privata, così gli attuali studenti lavorano senza retribuzione. Mentre gli oligarchi dichiarano aboliti i legami stabili, in primo luogo quello della famiglia, la sinistra riscopre la sua antica diffidenza verso questo istituto e apre la scuola all’educazione affettiva in cui gli esperti esterni si diffondono sull’erotismo sterile e relegano la fecondità sessuale a un imbarazzante residuo animale. Mentre l’avidità di lavoro a costo infimo trasforma ogni società in un andare e venire di migranti, il progressismo esalta la società multiculturale in cui coesistono diverse culture, vale a dire diritti incompatibili; dunque esige che la scuola abolisca la sua specificità culturale[43] e diventi una zona neutra in cui i contrasti non emergano dalla latenza.
IV. Prospettive.
Sciogliere il cappio della doppia sovversione, oligarchica e progressista, che soffoca il senso della realtà; dissolvere la maledizione dell’attivismo didattico che riduce la scuola a un manicomio; ricostituire la scuola come educazione attraverso la conoscenza: porsi questi obiettivi non può essere iniziativa di un progetto politico di parte; nasce prima o poi da una preoccupazione generale per la civiltà, dallo stupore che la verità sia ignorata nel nome del volontarismo distruttivo, dalla noia per le novità sempre identiche. Su noi tutti incombe dunque il compito di ricostituire la scuola della conoscenza, la scuola della verità, liberando la non-scuola attuale dall’ingorgo attivistico che ne soffoca la vita.
1) Occorre liberare la scuola dai compiti direttamente educativi, che non le competono. La scuola educa attraverso le conoscenze e la severità legata alla conoscenza; l’educazione diretta è compito della famiglia e delle leggi dello stato. Occorre eliminare ogni educazione dalla scuola, la stessa educazione civica, e sostituirla con lo studio diretto del diritto e dell’economia. Trascurarli è stato uno degli errori più gravi della scuola antica, perché la loro ignoranza ha favorito come null’altro il proliferare del sovversivismo palingenetico.
2) Occorre eliminare consigli, assemblee, consulte, perché la scuola non è regolata dal principio democratico della maggioranza, ma dal principio scientifico dell’accordo con la cosa. Nell’impossibilità di ottenere la prevalenza elettorale e l’accesso al potere di governo, il PCI negli anni ’70 adottò la strategia gramsciana di avanzamento lento nelle strutture dello stato e ottenne la costituzione di una complessa quanto inutile macchina di organismi elettivi nella scuola. Essi furono subito disertati da chi lo poteva, cioè dai genitori, al punto che da sempre i consigli di classe sono spesso privi della loro rappresentanza, mentre le assemblee di classe e di istituto assumevano lo scopo di alleggerire l’orario e di creare ponti aggiuntivi tra le festività. La loro sopravvivenza è deducibile solo dal principio dell’insensatezza che regola la non-scuola attuale. I fossili di questi organismi sono punti d’accesso alla vita della scuola per un sindacato del tutto indifferente alla qualità della scuola pubblica, sensibile soltanto agli interessi della sua burocrazia e che non ha mai mancato di apporre la sua firma a quanto è stato perpetrato dai governi della seconda repubblica, anzi di ispirare il peggio. I rapporti scolastici sono tra individui: ci sono questi alunni e questi genitori; hanno rapporti significativi non con la struttura generale dell’istituto scolastico, ma con questi insegnanti. Alunni e genitori non sono gruppi sociali con interesse comuni da tutelare contro gli insegnanti; è insensato che abbiano una rappresentanza stabile nell’istituzione scolastica. L’autorità degli insegnanti non è politica, è culturale, non contrasta interessi legittimi, ma soltanto l’ignoranza e gli ignoranti hanno un solo interesse, cessare di esserlo. A scuola le azioni collettive possono avere carattere solo occasionale, non istituzionale.
3) Gli istituti vanno liberati dal falso aziendalismo: deve cessare ogni incoraggiamento o assillo alla concorrenza reciproca; deve finire lo sforzo di sottrarsi gli alunni a vicenda. Non solo nelle scuole superiori esso porta al cinismo di ignorare le attitudini degli alunni, che provoca loro gravi danni, in generale costringe a una penosa corsa al ribasso. Nessun istituto può infatti sperare di aumentare i propri iscritti promettendo insegnanti rigorosi, studio severo, controllo sistematico dello svolgimento dei compiti, verifiche frequenti, correzioni accurate, valutazioni esatte – tutto al contrario! La concorrenza tra le scuole le spinge inesorabilmente a ridimensionare gli obiettivi didattici e a trasformarsi in un parco giochi; le energie degli insegnanti vi sono dilapidate in attività pubblicitarie; gli alunni vi diventano clienti da adulare.
4) Occorre liberare la scuola dai controlli ossessivi sulle procedure che causano la dispersione di enormi energie in attività burocratica. Occorre che gli insegnanti insegnino e che non si riducano a segretari di sé stessi. La scuola attuale è ossessionata da una quantità inestinguibile di adempimenti finalizzati a documentare l’applicazione delle procedure imposte dalla burocrazia ministeriale. Non solo, però, la compilazione dei documenti non attesta l’effettiva attuazione delle procedure, ma, soprattutto, l’attuazione delle procedure è il riscontro più sicuro dell’indifferenza al loro risultato. Di fatto si è finiti nell’abbruttimento generale, e il prezzo della dissimulazione dell’ignoranza degli alunni è pagato con la moneta falsa delle valutazioni esagerate. Il miglioramento radicale della scuola deriverà dal fissare ragionevoli obiettivi statali di apprendimento disciplinare, dal non impedire l’insegnamento agli insegnanti, dal chiedere loro non di innovare ma di preoccuparsi che i loro alunni apprendano. – Quanto al controllo del risultato, gli insegnanti delle fasi successive sono i giudici naturali del lavoro degli insegnanti precedenti. È sufficiente non ignorare questo dato di fatto per avere il miglior sistema di valutazione interna senza ricorrere a enti di valutazione esterna che insinuano nella scuola interessi non legittimati.
5) Occorre porre fine alle chiacchiere sugli obiettivi trasversali. Essi sono direttamente perseguiti nei gradi inferiori di scuola (inferiore qui significa più vicino al fondamento, più importante) mediante lo studio grammaticale; sono presupposti, quindi perseguiti indirettamente da ogni disciplina. Perseguirli direttamente nei gradi superiori significa dunque rassegnarsi al fatto che nei gradi inferiori si sia fatta innovazione didattica e sia mancato l’apprendimento. Poiché nella particolarità delle discipline è implicata l’universalità perseguita invano dagli obiettivi trasversali, le discipline devono tornare ad essere perseguite nella loro autonomia. Lo sguardo sintetico che non voglia ridursi a un delirio di associazioni fantastiche (tante prove d’esame sono soltanto questo) nasce dal fatto che ogni disciplina è articolazione di uno stesso contegno teoretico rivolto all’essenza delle cose, e dall’approfondimento filosofico di cui ogni disciplina è suscettibile qualora sia coltivata con passione.
6) Compito della scuola non è affatto mettere gli alunni di fronte al singolo caso concreto infinitamente determinato, osservabile dunque da infiniti punti di vista, ma insegnare loro a elevarsi ai punti di vista universali, contenuti nelle discipline principali e nelle loro principali leggi astratte, e ad applicarli ai casi esemplari. La scuola non disperde gli alunni in una città sconosciuta, dà loro la mappa e insegna a usarla. Quest’ordine dall’astratto al concreto non può essere rovesciato; l’astratto, benché più difficile per l’intuizione e l’immaginazione, è l’inizio per il pensiero, vero attore della conoscenza. Non è un caso che i bambini abbiano sempre iniziato la scrittura dalle singole lettere per poi passare alle sillabe e infine alle parole, e che il procedimento contrario sia causa di difficoltà.
7) La scuola è ciò per cui il competente differisce dal dilettante; solo essa consente di acquisire le conoscenze universali in cui è contenuto il perché delle leggi, che consentono dunque la sicura interpretazione dei casi concreti. La creatività, ossia il rapporto con il caso concreto, senza aver acquisito le conoscenze universali e la capacità di applicarle, è dunque dilettantismo, proprio il male di cui la scuola è il rimedio. È dunque del tutto inopportuno che la scuola si proponga di alimentare la creatività degli alunni. Se si vuole aiutare il futuro poeta occorre assegnargli la composizione di sonetti e canzoni in rima, non applaudire le sue libere prove immature. Il compito della scuola è la conoscenza universale (cioè astratta) e la sua applicazione ai casi esemplari; l’attività propria dell’allievo è capire ed esercitarsi nell’applicazione delle regole, solo marginalmente la creatività. Questa spetta all’adulto.
8) L’insegnante non è in relazione con l’alunno perché lo usa come cavia su cui verificare ipotesi pedagogiche, ma perché è cultore della propria disciplina. Innanzitutto alla disciplina vanno la sua passione e il suo rispetto; se egli non è esempio di vita teoretica, il suo insegnamento allontanerà gli alunni dallo spirito della verità anziché attrarveli. In secondo luogo, l’insegnante ha simpatia per la gioventù, fiducia nelle sue capacità, propensione a incoraggiarla, pazienza per i difetti che le sono propri e desidera il progresso cognitivo di tutti gli alunni che gli sono affidati. Sa però che il progresso può essere ottenuto solo con lo studio personale, quindi lo chiede, lo controlla, lo valorizza. Questa valorizzazione non equivale affatto alla valutazione, consiste invece nell’accuratezza della correzione di ciò che l’alunno elabora. Senza correzione non c’è aiuto individualizzato al progresso. Occorre che la correzione degli elaborati scritti, in quanto momento essenziale e di massima fatica dell’insegnamento, sia compensata da un’apposita indennità.
9) L’attuale non-scuola pone un accento sconsiderato sulla valutazione; come se presupponesse lo schema marxista che l’insegnante sia il nemico di classe dell’alunno e volesse correggerlo, al primo essa impone procedimenti tanto umilianti quanto controproducenti per rendere trasparente l’attribuzione del voto. Oggi si valuta (meglio, si finge di valutare) con griglie di decine di indicatori, in decimi, in quindicesimi, venticinquesimi, quarantesimi e via delirando. La scuola non è però un concorso in cui la valutazione deve determinare la posizione relativa dei concorrenti; la valutazione scolastica deve parlare al singolo alunno e deve farlo in un linguaggio semplice. Che un tempo si valutasse dal 3 all’8 è un chiaro indice dell’eccesso della stessa valutazione decimale. Poiché i numeri hanno una determinatezza qualitativa tanto più pronunciata quanti meno sono, la scuola ricostituita valuterà in quinti o in sesti.
10) Mentre si tenta di abolire le discipline, ciò che ne resta si è sempre più allontanato dalle fonti originarie, tanto che oggi i manuali sono riassunti di terza, quarta mano, che a ogni passaggio si sono svuotati di contenuto intellettuale e si sono caricati di errori. In compenso sono diventati un labirinto di foto, di mappe, di inserti, di figure dozzinali, come se volessero mettere al cimento le capacità di attenzione dei lettori. È necessario promuovere nelle discipline, in particolare in quelle a carattere idiografico, un’attenuazione dell’attuale carattere enciclopedico e ripristinare il contatto diretto con i classici. Occorre che ogni libro di testo recuperi la sobrietà dell’aspetto e abbia una ricca parte antologica; occorre che le antologie siano compilate con gusto, che i loro racconti siano innanzitutto belli[44], non ipotecati da ideologie.
11) L’alunno, non più cliente, torna a essere uno studioso. All’insegnante spetta suscitargli l’amore o almeno il rispetto della disciplina; a lui spetta però la fatica dell’apprendimento: nessuno può infatti farlo al suo posto, nessuno può apprendere per un altro. È l’alunno che deve riempire, sì, riempire, la sua memoria di nobili contenuti, cioè di conoscenze universali, è lui che deve acquisire l’agilità mentale esercitandosi, è lui che deve imparare l’attenzione, l’ascolto, la lettura e i procedimenti cognitivi per afferrare l’essenza dell’oggetto.
12) Occorre non solo che la burocrazia ministeriale sia contenuta nei suoi interventi ma che il suo linguaggio recuperi concisione e sobrietà, che esprima con chiarezza gli adempimenti della scuola senza volerle insegnare il mestiere, che cessi di intimidire i docenti ricorrendo ai neologismi, tanto meno ai termini stranieri che creano l’atmosfera deprimente di una nazione colonizzata[45]
[25] Alcuni sociologi si mostrano terrorizzati dal diffondersi inarrestabile della disoccupazione, effetto, a loro dire, dello sviluppo tecnologico – come se non ci fosse una risposta ovvia all’aumento della produttività del lavoro e su questa risposta non poggiasse l’umanità stessa! Se la tecnica rende il lavoro umano più produttivo, gli uomini possono passare meno tempo a lavorare. Non è una prospettiva catastrofica né disumana: gli animali esauriscono il loro tempo a procacciarsi cibo e a digerirlo, gli uomini sono tali per la σχολή. Il terrore dei sociologi è un’astuzia con cui il mezzo più efficace della rivoluzione conservatrice, la disoccupazione, è camuffato da inconveniente indesiderato della tecnica.
[26] È tra i meriti del prof. Bagnai e del prof. Borghi la rivelazione dell’abisso teorico o morale in cui si gettano i tanti economisti disposti a sostenere che il denaro sia una merce scarsa in sé, contro le smentite degli stessi presidenti delle banche centrali che, interrogati, confessano senz’altro, a volte attoniti a volte divertiti per l’ingenuità della domanda, di creare ex nihilo montagne di denaro per consentire agli stati di fronteggiare le crisi finanziarie in cui si infila il mercato.
[27] Un rapporto non aumenta e diminuisce in modo così semplice come l’aumento e la diminuzione di un numero: ogni rapporto diminuisce sia se diminuisce il numeratore, sia se aumenta il denominatore, e viceversa. Ne segue che una diminuzione della spesa pubblica al numeratore, in quanto provoca una contrazione dell’attività economica che riduce ancora di più il PIL al denominatore, fa aumentare il rapporto e come una spada a doppio taglio rende non solo l’economia più povera ma anche il debito più insostenibile. E viceversa.
[28] Cfr. Miguel Gotor, L’Italia nel Novecento, Einaudi, Torino 2019, p. 205.
[29] «Il diritto allo studio appare, se rettamente inteso, come un caso particolare del diritto al lavoro; esso si configura quindi come diritto ad una formazione culturale autonoma…». Cfr. Progetto di tesi del sindacato studentesco, più noto come «Tesi della sapienza», p. 17, disponibile al seguente indirizzo: tesidellasapienza.pdf. Il “quindi” traveste da rapporto di conseguenza un rapporto di opposizione: o lo studio è finalizzato al lavoro produttivo, quindi ha un carattere particolare per cui può inserirsi in una nicchia della divisione del lavoro, o è indirizzato alla formazione culturale autonoma, perciò ha un carattere universale.
[30] «… lo studente è un lavoratore e, come tale, se produce, ha diritto al salario, e, se non produce non ha diritto di restare all’interno dell’università». Ibidem, p. 21. La sottolineatura è degli autori.
[31] Il consumismo, più del comunismo, degli studenti è evidente nel Progetto di tesi: a p. 22 si chiede la «… creazione, in ambito cittadino e non esclusivamente universitario [così possono andare a zonzo], di infrastrutture culturali, sportive e ricreative (teatri, biblioteche, sale di riunione, stadi, palestre, parchi attrezzati) adeguate alle necessità degli studenti».
[32] Una terminologia intollerante della teoresi che si è conservata immutata per mezzo secolo. Cfr. ibidem, p. 19: «…c. studi in istituti scolastici a carattere liceale anche essi scarsamente formativi perché basati su di una trasmissione passiva di una cultura di carattere nozionistico, e perché tutti incentrati sulla verbalità e sulla razionalità di tipo scientifico astratto, che sono soltanto una delle tante possibilità di sviluppo aperte allo spirito umano». In contrasto con questa sentenza di condanna sommaria, poco dopo gli autori osservano che all’università si accede quasi esclusivamente dai licei perché «…la preparazione che si riceve negli istituti professionali non trova adeguata rispondenza nei metodi e nelle forme della istruzione universitaria», quindi la preparazione ricevuta nei licei, quella scientifica astratta, non è così scarsamente formativa come il termine nozionismo vorrebbe insinuare. La contraddizione inavvertita è la regola della protesta studentesca.
[33] Ibidem, p. 11.
[34]Ibidem, p.11: «Il governo e il ministero della pubblica istruzione, i rettori ed i professori di ruolo, non si identificano mai con la controparte. Tutto ciò che fanno… non è che l’espressione mediata di un piano organico del capitale. In questa luce si spiega la debolezza concettuale e la contraddittorietà dei documenti citati».
[35] Ibidem, p. 10.
[36] Pasolini non si lasciò ingannare dalla retorica marxista degli studenti e non ebbe difficoltà a riconoscere il privilegio sociale dietro la loro arroganza. Cfr. la poesia «Il Pci ai giovani» al seguente indirizzo: http://temi.repubblica.it/espresso-il68/1968/06/16/il-pci-ai-giovani/?printpage=undefined
[37] Il gen. Maletti chiama in causa la CIA. Cfr. le sue dichiarazioni in https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2000/08/04/maletti-la-spia-latitante-la-cia-dietro.html
[38] L’espressione è del gen. Maletti. Cfr. l’articolo citato nella nota precedente.
[39] Così il brigatista Enrico Fenzi, citato in Miguel Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano. Einaudi, Torino 2020, p. 444.
[40] La vicenda alla base di questo passaggio si svolge nella cornice dello scontro tra Andreotti e Cossiga nel 1990. Dalla ricostruzione di Gotor risulta che all’invito di Cossiga a «farla finita con i fantasmi del passato» legati alla guerra fredda, «prevalse nel segretario del Pci-Pds Occhetto la convinzione che il vento dell’antipolitica e la critica del sistema dei partiti avrebbe gonfiato le vele della nuova formazione da lui diretta, conducendola dritta al governo dopo oltre quarant’anni di opposizione. Senza colpo ferire. Sarebbe bastato negare a se stessi di essere stati comunisti italiani, riconvertirsi a nuovi verbi azionisti, radicaleggianti e kennediani e fare finta che il Pci non fosse mai esistito con le sue luci e ombre. In questi giorni decisivi Occhetto e i suoi più stretti collaboratori, fra cui l’ex militante trockijsta Paolo Flores D’Arcais, commisero un errore gravido di conseguenze, giacché si mostrarono privi di… senso della storia… Sarebbe prevalso il senso della comunicazione come tecnica di trasmissione di un messaggio genericamente nuovo, languido e autorigeneratore». Ibidem, p. 143.
[41] A p. 5 della lettera premessa alla raccolta dei pareri della commissione dei saggi riunitasi nel 1997, il prof. Berlinguer si chiedeva «come deaccademizzare l’insegnamento, rendendolo vivo e partecipato, conservandone rigore e qualità?» –come se l’insegnamento accademico non possa essere vivo e partecipato, come se il rigore e la qualità non suscitino mai per sé stessi partecipazione vitale, come se questa possa destarsi solo davanti al culinario. Che personaggi così compenetrati di materialismo volgare abbiano riformato la scuola è uno degli aspetti più umilianti delle sue sciagure. La lettera è consultabile al seguente indirizzo: https://www.orientamentoirreer.it/sites/default/files/norme/1997%20conoscenzefondamentali%207878.pdf
[42] Versato anche in epistemologia, il prof. Berlinguer sostiene che la scienza stessa non abbia nulla di definitivo, ma sia agitata da una continua rivoluzione. A p. 4 del documento citato, scrive: «Ma è il mondo che, messosi a camminare con tempi e stili sempre più impetuosi, nel corso di questo secolo, ci ha condotto a modificare l’idea stessa di conoscenza e di esperienza, quindi di formazione. Nel giro di pochi decenni si è rivoluzionato il territorio delle scienze, delle arti, delle tecniche ed è cambiato il modo stesso di stare nel mondo, da parte degli individui e dei gruppi». Non si rende conto, il professore, che puntare tutte le carte dell’epistemologia sul cammino impetuoso del mondo, sul modificare, sul rivoluzionare, significa ridurla al più squallido scetticismo, quello che lascia che tutto finisca nella pattumiera del passato senza aver degnato nulla di uno sguardo.
[43] Nella nuova scuola si evita perfino il presepe di Natale.
[44] Non può essere un intento estetico quello che ha indotto Rosetta Zordan a includere nella sua antologia «Autori e lettori» una modernizzazione della fiaba di Cappuccetto Rosso, in cui la bambina si accorge che è il lupo ad essere coricato nel letto della nonna e lo fredda a colpi di pistola automatica. È un esempio tra tanti.
[45] Cfr. l’articolo del prof. Di Biase, Prolegomeni per un vocabolario Itanglianish-Italiano, al seguente indirizzo https://telegra.ph/Prolegomeni-per-un-vocabolario-Itanglianish-italiano-11-29
Purtroppo il saggio omette totalmente il motivo che rendere impossibile a priori anche solo parlare delle riforme previste, ovvero la distruzione sistematica della formazione del corpo docente. Io sono figlio di professori nati a fine anni '40, ai loro tempi laurearsi voleva dire automaticamente avere una cattedra da subito ed essere professori di ruolo abilitati a massimo 30 anni. E' chiaro che una persona che inizia a fare a 25 anni un lavoro rispettato, che dà uno stipendio a vita sufficiente a non essere assillato dalla sopravvivenza quotidiana propria e della famiglia, ha già le basi materiali per essere uno studioso della sua materia che dispensa la sua conoscenza a studenti che segue minimo due anni, ma spesso e volentieri anche per l'intero quinquennio (chiunque abbia insegnato sa che il rapporto docente-disceente non si crea in 24 ore). QUeste condizioni minime sono state scientemente distrutte da una burocrazia creata appositamente per avere migliaia di disgraziati che invece di insegnare campano di supplenze annuali spesso e volentieri a centinaia di chilometri da casa) e di lotte intestine tra gruppetti che vogliono che il loro corso abilitante ridicolo conti più di anni di esperienza (e viceversa). Io ho diversi conoscenti che sono entrati a scuola dalla porta di servizio dei 5 anni di insegnamento di sostegno (immagini lei che esperienza di insegnamento della materia potrà mai dare) che danno diritto alla cattedra corrispondente al proprio titolo di studio. Immagini cosa può insegnare certa gente, mentre chi ha sempre e solo (come è giusto che sia) coltivato la conoscenza della propria materia resta disoccupato perchè scavalcato da questa gente che ha usato i disabili per far carriera?
RispondiEliminaArticoli molto interessanti, sia in riferimento alla parte storico-filosofica che a quella didattico-pedagogica.
RispondiEliminaIl ritorno al capitalismo di stato, alla socialdemocrazia più matura e ai suoi pilastri, come risposta alla crisi innescata dal pensiero unico neoliberista, declinato poi in tutte le sue apparenti molteplicità.
Una società che negli ultimi trent'anni ha rotto i legami con il passato, ma che è piena di stolta hibrys e che è votata a un crasso futurismo può invertire la rotta di 360° o quasi?
E' complicato, con questo non voglio negare che sia necessario farlo, tutt'altro. Di sicuro riscoprire la grande tradizione del socialismo in grado di tutelare la persona in tutti i suoi bisogni più elevati, sia quelli formativi che quelli lavorativi, è la via maestra, poi sulla sua realizzazione pratica si può ragionare, cercando di accantonare quella costante ricerca dell'appiglio polemico che caratterizza quello che rimane di quell'area politica (ben rappresentata da taluni elementi che affollano le pagine dei suoi siti on line) , più votata a distruggere che a costruire e a epurare piuttosto che a includere, sempre che ci siano più affinità che differenze ovviamente.
Di sicuro, e mi limito qui ad alcune osservazioni che riguardano specificatamente la scuola, occorre intervenire perchè s'inizi a correggere quanto di sbagliato la caratterizza, cercando di riportarla alla sua essenza.
1) Pensare di abolire tout cort tutte le riunioni non strettamente necessarie che impegnano il corpo docente appare impossibile, tanto si è radicata l'usanza, e forse, entro certi limiti, sbagliato, perchè comunque il confronto può essere sempre un momento di crescita didattico-pedagogica. Allora perchè non utilizzare allo scopo le risorse tecnologiche che la contemporaneità mette a disposizione? Ossia, si faccia tutto on line, senza pretendere al tempo stesso che tutti si spendano anima e corpo per il risultato finale, perchè, e questo i fanatici delle "magnifiche sorti e progressive" sembrano averlo scordato, il docente è tenuto a insegnare la sua disciplina in piena autonomia, entro ovviamente i limiti stabiliti dalla legge, quindi può anche sottrarsi a queste sollecitazioni-imposizioni. Nessun metro di valutazione, se non la capacità di rendere viva e vitale la propria disciplina, può stabilire a priori la figura del docente modello.
2) Non vi è apprendimento, che rimane l'unico scopo dell'insegnamento, e quindi non l'intrattenimento, senza un ambiente che lo favorisca. Di conseguenza occorre intervenire perchè il laissez faire, la mancanza di provvedimenti disciplinari seri, venga rivista, in favore di una responsabilizzazione di tutte le componenti scolastiche, a partire dal discente, ovviamente commisurata alla sua capacità di cogliere il senso autentico di ciò che gli viene imposto. Non c'è quindi apprendimento nel caos.