(Iniziamo oggi la pubblicazione di un lungo contributo dell'amico Di Remigio, che sarà diviso in più parti. A proposito, Buon Natale. M.B.)
(Qui trovate la seconda parte)
Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale, 1
Paolo Di Remigio
Quella
che per abitudine si chiama scuola pubblica non è più pubblica, neanche nel
nome, e non è più scuola, nel senso di istituzione diretta a educare i giovani
alla conoscenza. L’estinzione della scuola pubblica è momento della decadenza dello
stato occidentale. Nel corso della lotta per escluderlo dall’economia, alcuni
lo hanno considerato un importuno che mette le mani nelle tasche dei cittadini e
ne cede la ricchezza alla politica clientelare; altri vi hanno rinvenuto
l’origine di ogni male. Si è così perduta l’intuizione della sua essenza e del
suo fine: riesce incomprensibile che lo stato sia la forma libera della
comunità, garante del libero volere di ognuno, che il suo primo fine sia
rendere sacra la persona e intangibile la sua esistenza. Il rifiuto
dello stato nasce dal disconoscere la nozione di libertà e il suo nesso con
quella di legge. Da queste nozioni dipende però anche la disposizione al conoscere;
l’incomprensione dello stato si associa dunque al disprezzo della conoscenza.
Ne è vittima la scuola che, abbandonata a interessi estranei, è soffocata dall’attivismo
ignorante e si estingue.
I. Distinzioni filosofiche
a) Libertà e stato
Di
solito la libertà è intesa come sinonimo di arbitrio, come possibilità di
scelta; se fosse così, lo stato, che limita l’arbitrio imponendo le leggi,
sarebbe negazione della libertà[1]. Chi non facesse differenza tra impulso, arbitrio e libertà non potrebbe che
concordare con la conclusione di questo sillogismo. La differenza è però
un’opposizione e non può essere trascurata. L’impulso è la sfera dei
desideri consapevoli od oscuri che originano dal corpo vivente e cercano soddisfazione;
loro scopo ultimo è difendere la vita dalla morte sia conservando l’individuo
sia riproducendolo. L’arbitrio sostituisce nell’uomo l’istinto animale: è
la scelta tra i desideri a cui dare soddisfazione o a cui negarla, anche la
scelta dei mezzi per raggiungerla. Già come arbitrio la volontà è in qualche
misura capace di controllare l’impulso, dunque di staccarsene: al fine di
soddisfare un altro desiderio, l’arbitrio può rinunciare a soddisfarne un primo;
in vista di un piacere, l’arbitrio può ricorrere a un mezzo che l’impulso
eviterebbe. L’arbitrio è dunque negazione relativa degli impulsi: ne nega uno,
ma solo per passare all’altro. Per questa sua relatività gli manca uno scopo
assoluto: l’arbitrio valuta secondo l’utile e in vista della felicità, ma la
felicità è solo una composizione variabile di piaceri. – La libertà nasce
dalla negazione assoluta degli impulsi. Vale a dire, poiché alla vita può
preferire l’annullamento della vita, poiché può scegliere la morte[2], l’uomo, solo l’uomo, trascende la nuda vitalità ed è possibilità di dominare ogni
impulso. In questa possibilità raggiunge l’idea della propria libertà
assoluta. Da questa idea nasce il rispetto di sé, per cui l’uomo prova
vergogna della vita innocente e senso di colpa quando le si arrende[3]. La libertà è rappresentata di solito come anima immortale, come una
cosa immateriale indipendente dal corpo. Trattarla come un risibile residuo
metafisico porta spesso a trascurarne il contenuto logico: essa può anche
ridursi a una rassicurazione illusoria contro la paura della morte, in ogni
caso esprime una segreta alleanza con la propria morte[4] per non lasciarsi dominare dall’impulso corporeo, una volontà che non si realizza
soltanto nelle sfide eroiche, ma è già presente in ogni semplice atto di
cortesia. Così, pur avendo avuto dalla natura questi desideri, dalla società queste
abitudini, pur scegliendo come arbitrio questo o quello, l’uomo vuole anzitutto
conservare il fondamento indeterminato del suo scegliere; la sua volontà vuole
anzitutto sé stessa e concepire con distacco, come semplici possibilità,
le alternative finite offerte all’arbitrio, anche dopo averne scelta una. Che alla
volontà ripugni ridursi per sempre a semplice natura, che per evitarlo essa possa
volere la rinuncia a ogni soddisfazione limitata, questa astrazione assoluta
dal determinato è il significato della libertà. ‒ Il nome proprio ne è la manifestazione
linguistica. A differenza delle altre parole, esso indica senza significare,
o almeno non lo si dà perché significhi. Ma il significato di una parola è la
determinatezza per cui essa si lega secondo necessità alle altre parole; non significandolo,
il nome proprio indica l’individuo come un indeterminato, come slegato da ogni
vincolo e signore della sua esistenza.
L’indeterminatezza
della libertà non è però solo il vuoto, ha anche un senso positivo: è
relazione a un determinato privo di essere perché privo di libera volontà.
Questa relazione è assoggettamento, la cosa appartiene alla persona. Nel
suo senso positivo, la libertà è la persona che esercita la signoria
sul mondo delle cose determinate, cioè sul suo corpo vivente, sugli animali e sulle
cose. In quanto esercita signoria sul determinato, la persona ha esistenza
positiva, e questa sua esistenza è la proprietà[5].
Persona
e proprietà privata sono le determinazioni elementari della libertà umana –
per questo l’etimologia di persona è modesta e Hegel nella Fenomenologia
osserva che «indicare un individuo come una persona è espressione di
disprezzo»[6];
la sfera morale, che è quella della solidarietà privata, e la sfera politica,
quella della solidarietà pubblica, sono superiori al diritto privato. Chi nel
rapporto con l’altro o con la comunità si fermi alla semplice proprietà e al do
ut des è un individuo arido, povero di umanità. Non per questo persona e
proprietà privata sono però valori che si possano ignorare o disprezzare, non
per questo il diritto privato può essere respinto come indegno dell’uomo: soltanto
il limitarsi a esso è miserevole[7]. Persona e proprietà privata sono dunque l’inizio dell’etica; respingerle
equivale a negare l’intangibilità dell'individuo e della sua signoria sulle
cose; ma un individuo a cui non si riconosca un dominio su una sfera di
esistenza cessa di esistere come valore infinito e si confonde con la cosa, si
riduce allo schiavo, e questa è l’ingiustizia più grave[8].
Mentre
la libertà è illimitata perché è volontà di sé, l’arbitrio, essendo volontà di oggetti
determinati, è limitato in sé stesso; che la libertà lo limiti ulteriormente
o addirittura l’annulli, non ne viola dunque la natura. Per questa relazione
negativa tra libertà e arbitrio è almeno possibile che i limiti imposti dalla
società all’arbitrio degli individui possano rispettare la loro libertà; possono
infatti essere identici ai limiti che il singolo impone al suo arbitrio in
vista della sua libertà. L’arbitrio stesso è però proprietà della persona. Nel
limitarlo la società non la viola solo se il divieto non è arbitrario, cioè non
nasce da un impulso particolare, se è universale; dunque se limita ogni
arbitrio, se ha forma di legge.
Le
leggi sono divieti per tutti – tanto per i governati che per i
governanti – dunque di tutti: limiti che difendono non un interesse
particolare da altri interessi particolari, ma la libertà universale dagli
interessi particolari dell’arbitrio. La loro universalità è il segno
della loro identità con l’indeterminatezza della libertà. In quanto ha forma di
legge, il limite posto dalla società all’arbitrio è identico al limite che la
libertà della persona pone al suo arbitrio[9].
Poiché
l’uomo non è un semplice animale assoggettato agli istinti, ma può allearsi
alla morte e così trascendere ogni impulso, il rapporto tra gli uomini può non
ridursi a una frustrante rinuncia alla soddisfazione degli impulsi in vista
della sicurezza, ma realizzare la loro essenza ‒ la libertà. Se il rapporto tra
gli uomini è regolato dalla legge, quindi dal dominio generale sull’impulso,
l’individuo vi sente reale il suo dominio su di esso, vi vede
riconosciuta la sua libertà. In quanto si esercita contro l’arbitrio in
generale, dunque nella forma della legge, la forza collettiva è libera, è autorità
statale, non esterna e in contrasto con l’individuo, ma coincidente con la sua
essenza. Viceversa, il collettivo in preda agli impulsi particolari viola la
libertà della persona, umilia gli individui. – Questo è il significato della
dottrina hegeliana dello stato: lo stato è etico non perché i governanti abbiano
sempre ragione e amino il popolo, ma perché nelle sue leggi si prolungano
i limiti all’arbitrio con cui ognuno, governante o governato, già domina sé
stesso e si libera.
La confusione
della libertà con l’arbitrio, che ha conseguenze fatali sull’intelligenza dello
stato, nasce dalla grave ambiguità del concetto di natura umana. Esso contiene
significati opposti: in senso proprio, la natura dell’uomo è l’astratta
indeterminatezza della volontà, il potere di sottrarsi a tutto, perfino al
proprio impulso di vita. In questo senso, poiché la libertà personale deriva da
questa indeterminatezza essenziale della volontà, il diritto della persona si
chiama diritto naturale. Ma nella vita dell’individuo l’indeterminatezza
della volontà non è il dato iniziale: l’uomo inizia dall’onnipotenza di
ciò che Freud ha indicato come «principio del piacere». Poiché la nozione di natura
indica non solo l’essenza ultima, ma anche il dato iniziale, la vita innocente
dominata dagli impulsi, l’impulso stesso è denotato come natura. E
poiché l’impulso esercita una costrizione sull’io e l’io se ne libera appagandolo,
il piacere che accompagna l’appagamento sembra identico alla libertà. Esiste
così una seconda nozione di libertà, affatto opposta alla prima, quella per cui
essa è il desiderio innocente che va al piacere: la libertà come spontaneità.
Spontaneità
sembra così sinonimo di libertà. Mentre però la libertà come volontà di
sé, volontà astratta, è davvero indipendente, la spontaneità è indipendenza
apparente: nell’appagamento dell’impulso cessa bensì il limite; ma
l’impulso si appaga in un oggetto non in suo potere, dipendente anzi dalle
circostanze; inoltre l’appagamento è momentaneo e il limite rinasce sempre e
con esso la dipendenza dall’esterno. Così, mentre la libertà è la negazione
della natura in generale e come tale è autonoma, l’impulso e il suo appagamento
sono un momento particolare della necessità naturale. Ne segue che la
spontaneità è necessità, l’esatto contrario della libertà.
Eppure la
loro identità è uno dei pregiudizi più diffusi, non solo nella vita comune, ma
anche nelle scienze umane e perfino in quelle filosofie che vedono la liquidazione
del soggetto come un’importante conquista del pensiero. Nonostante nel Gorgia [10] Socrate abbia spiegato a Callicle come stessero le cose su questo punto, già
Rousseau preferì ignorare la lezione di Platone e identificare la spontaneità
prima con la libertà e poi, addirittura, con la sfera della socievolezza umana;
è stato Nietzsche che, pur seguendo Rousseau nella prima delle sue false
identità, ha riconosciuto la sostanza soprattutto crudele della spontaneità e
il suo radicarsi nella necessità, ponendola come tale alla base del suo
immoralismo. Attraverso Freud la falsa identificazione di libertà e spontaneità
si è trasmessa alle avanguardie novecentesche e da qui, con la lettura di
quanto di più facile la scuola di Francoforte offriva, al libertarismo
sessantottesco. Tanto consenso va spiegato con l’inestinguibilità di un
retaggio infantile: al bambino basta piangere, un’azione sempre in suo
potere, per liberarsi da qualunque disagio e giungere al piacere. Dal punto di
vista infantile l’onnipotenza dell’impulso è onnipotenza dell’io; dal punto di
vista adulto, consapevole della mediazione del lavoro tra bisogno e
appagamento, l’onnipotenza dell’io può essere invece ottenuta soltanto contro
l’impulso; non riconoscerlo, restare incantati dal modello magico, è
infantilismo ‒ un difetto che la facilità dell’appagamento nella società dei
consumi corrobora.
L’opposizione
tra libertà e spontaneità contiene importanti conseguenze per l’educazione. Se fossero
identiche, il bambino sarebbe l’individuo più libero e ogni divieto imposto dal
mondo degli adulti sarebbe propriamente un reato ‒ un’insensatezza che certa
psicologia attuale, in concorrenza con l’istituzione familiare per il controllo
dei figli, non rigetterebbe. La tendenza all’indulgenza, la raccomandazione di
eliminare i divieti o almeno di sostituirli con l’astuzia, si radicano non in
un impossibile del progresso scienze umane, ma nel rifiuto infantilistico del
mondo adulto e della libertà. Non è un caso che le filosofie che con più
consapevolezza l’hanno eletta a loro principio, le filosofie idealistiche,
siano tutte filosofie della severità: la natura profonda dell’uomo,
l’indeterminatezza della sua volontà, implica lo sforzo di liberarsi dall’onnipotenza
dell’impulso naturale; uno sforzo che dapprima, quando l’individuo è nell’età innocente,
ricade sui genitori. Così l’educazione non è solo un offrire mezzi per
realizzare le attitudini del bambino; contiene anche divieti, per rendere il
dominio di sé un valore. L’educazione è anche repressione della spontaneità. È
sciocco però dedurne che la severità reprima la libertà del bambino: solo se sottomette
la sua originaria sottomissione alla necessità naturale il bambino diventa
adulto, emerge in lui la natura nel senso di libertà.
b) La libertà è il principio della conoscenza
L’equivoco
tra libertà e spontaneità non ha effetti soltanto sulla sfera pratica
soggettiva; poiché, come soggetto, l’io è in riferimento conoscitivo
all’oggetto, l’equivoco ha effetti sulla stessa realtà. La spontaneità
si limita a intuire e a immaginare. L’intuizione non va però al di là
dell’inseguimento del divenire, l’immaginazione si perde nel suo associare; solo
il contegno teoretico raggiunge la realtà. La teoresi richiede però la
fatica di abbandonare il proprio punto di vista per aprirsi all’oggetto come
è in sé. La spontaneità rifiuta questo come ogni altro lavoro, e nell’agire
si attiene alla convinzione dogmatica fino alla distruzione di sé e della cosa,
nel conoscere diventa scettica.
Lo
scetticismo consiste nel mostrare la relatività di ciò che è assoluto; le cose sono
però suscettibili di una relatività naturale costituita dal cambiamento;
infatti, nel cambiare, la cosa smentisce la sua assolutezza. Esiste così uno
scetticismo primitivo che contesta all’ingrosso l’applicabilità delle categorie
limitandosi a constatare il cambiamento delle cose che dovrebbero riceverle ‒ come
se il cambiamento non fosse conoscibile quanto l’essere. La tesi scettica più
comune riprende invece il primo dei tropi dello scetticismo antico, secondo cui
la pluralità delle prospettive sulla cosa ne renderebbe impossibile la scienza.
Ne segue che è inutile lo sforzo di liberarsi della propria prospettiva, che la
si può conservare con agio, ma non la si può imporre agli altri. L’esito è la
convivenza di soggetti paghi della propria spontaneità, senza attrito, forse
senza contatto: la tolleranza di un mondo inclusivo ‒ abolita però di tanto in
tanto da un’emergenza, che impone il dogma, taccia i dissenzienti di
negazionismo e li esclude dalla sfera dell’umanità.
A
questo scetticismo sfugge che la pluralità delle prospettive è fondata nella
complessità dell’oggetto ed è conciliata nel suo concetto. La stessa
definizione di verità, adaequatio rei et intellectus, esprime infatti non
l’univocità, ma un comporsi degli opposti. Proprio a questa composizione
mira il metodo dialettico-speculativo della filosofia: senza attendere le
altrui smentite, esso mostra subito che ogni formula univoca si falsifica
così da approdare nell’opposta, che questa subisce una vicenda analoga e che
proprio in questo duplice moto si dissolve l’esclusività che impediva l’accordo
della verità. Nella vita della scienza ciò si mostra come dibattito tra le
diverse prospettive in vista della loro unità in un concetto più profondo
dell’oggetto.
Gli
ostacoli che sbarrano la via verso la verità non sono dunque né tecnici né
ontologici, come se essa fosse qualcosa di troppo sublime per la nostra povera
ragione, ma nel non volersi separare dalla propria particolarità. Per conoscere
non basta aprire gli occhi per intuire il mutevole e chiuderli per associare le
immagini, occorre affrontare già armati delle conoscenze disponibili
l’esperienza, che non è un baloccarsi ma un rischiare; occorre integrare la
propria esperienza con le altrui esperienze, ossia il dibattito. Per
questo occorre un tragitto severo che porti dalla spontaneità alla libertà: se
dal punto di vista pratico antepone l’universalità dell’io alla
particolarità dell’impulso, dal punto di vista teoretico la severità
genera il rispetto tanto dell’oggetto com’è in sé quanto dei punti di vista
altrui nei quali si riflette la pluralità degli aspetti dell’oggetto. Solo il
soggetto libero può accettare l’in sé della cosa come coordinamento di
determinatezze opposte. Solo la libertà può comporre il discorde
[1] Qualcosa di simile è affermato in un vecchio manuale di diritto privato (Torrente-Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano 1985): a differenza della norma morale che sarebbe assoluta e autonoma, la norma giuridica sarebbe «‘eteronoma’, cioè imposta da altri, dall’ordinamento nel suo complesso» (pp. 7-8). L’ordinamento nel suo complesso non è però equivalente ad «altri» perché le sue deliberazioni sono universali, valgono per tutti, non sono volontà particolare di alcuni; ma solo in questo caso c’è eteronomia. Peraltro, nelle due pagine successive gli autori dicono il contrario: osservano che il diritto naturale acquista rilievo quando «il diritto positivo viene ad essere subito come una imposizione… senza una intima giustificazione»; ciò implica che il diritto positivo sia non sempre eteronomo, che sia tale solo quando gli manchi l’intima giustificazione, cioè quando non sia diritto.
[2] Cfr. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 5.
[3] Nel mito biblico (Genesi, 3, 1-19), Adamo ed Eva mangiano i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, ossia diventano padroni di ogni differenza, raggiungono l’idea di indeterminatezza propria della condizione divina. La Bibbia considera però colpevole l’essere sicut Deus, cioè l’essere liberi; così la libertà vi è rappresentata come cacciata dal paradiso e non può legarsi al rispetto di sé; mentre poter preferire la morte è fondamento della libertà, qui la morte ne diventa una conseguenza, ed è equiparata alla vergogna e al senso di colpa. In definitiva, il racconto dell’Antico Testamento considera l’innocenza nell’Eden una condizione superiore all’essere liberi nella terra che l’uomo ha reso maledetta, cioè oggetto, con il suo strappo. Questa prospettiva, come si vedrà più sotto, è il principio del messianismo.
[4] La morte è propriamente ‘sorella’ per Francesco d’Assisi: «Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale…», recita il suo Cantico delle creature.
[5] Nello stato moderno, che riconosce a ognuno l’intangibilità della persona e della proprietà, il titolo di signore è dovuto a ogni individuo.
[6] Hegel, Phänomenologie des Geistes, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1970, p. 357.
[7] Nella solidarietà privata e pubblica, nella morale e nella politica, nel provvedere al bene dell’individuo e del collettivo, occorre comunque rispettare la persona. Canta Floria Tosca: «… con man furtiva quante miserie conobbi aiutai»: l'aiuto è morale, la mano furtiva è il rispetto della persona, il dovere di non far sentire inferiore (cosa determinata) il bisognoso, dovere che nell'aiuto occorre non dimenticare. In generale, fare il bene implica il rispetto del diritto: non si ruba ai ricchi per dare ai poveri, ai poveri si dà del proprio; salvare vite in mare come fanno le ONG avviene in oggettiva complicità con i criminali: può essere ammesso come eccezione, perché perduta la vita è perduto anche ogni suo diritto, ma la complicità con i criminali non può diventare norma, perché così sono violate la persona e la libertà di tutti; la risposta normale presuppone la repressione della criminalità e il ripristino della legge.
[8] Matteo, 8, 20: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo», – ha però il capo, è libero.
[9] Questo nesso tra legge, libertà e arbitrio è implicito in quanto scrive Montesquieu: «La libertà non consiste nel fare ciò che piace. Chi è che stabilisce quello che si deve fare? Le leggi. La libertà allora è il potere delle leggi, non già quello del popolo. La libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono! Infatti, se un cittadino potesse fare ciò che esse proibiscono, non avrebbe più libertà, poiché anche gli altri acquisterebbero un tale potere». Qui il peso è posto sulla reciprocità; ma se si riflette che le leggi hanno il carattere dell’universalità e che l’universalità non è altro che l’indeterminatezza dell’io, si può interpretare l’esclamazione di Montesquieu nel senso che la libertà presuppone quella superiorità dell’io su «ciò che piace», cioè sull’impulso e sulla sua soddisfazione, che la legge, in virtù soltanto della sua universalità, formula come comportamento della collettività. – Marx ha disprezzato la libertà come astrazione assoluta, tanto più in quanto è connessa con la proprietà privata; egli vede bene che si tratta di astrazione, quello che non vede è il valore ineludibile dell’astrazione.
[10] Gorgia, 491d-e.
(continua...)
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