I. La revoca del mandato celeste
Nelle analisi della situazione sociale e politica
attuale nei paesi avanzati, è ormai un dato acquisito l’esistenza di una
particolare frattura sociale e culturale. Abbiamo da una parte un ceto,
relativamente ristretto, di persone adattate alla nuova natura transnazionale
del capitalismo contemporaneo: persone dotate di conoscenze e capacità (in
primo luogo la conoscenza della lingua inglese, ma ovviamente non solo questo)
che le rendono in grado di approfittare di occasioni di lavoro sparse in tutto
il globo, prive di remore a spostarsi per approfittarne, impiegate in lavori a
forte componente intellettuale e specialistica, capaci di tessere relazioni proficue
con le persone più diverse, ma in sostanza appartenenti allo stesso milieu.
Si tratta del ristretto ceto di coloro che si sono pienamente inseriti nei
meccanismi del capitalismo globalizzato e sono in grado di approfittare delle
possibilità che la sua dinamica crea. All’interno di questo ceto spiccano
ovviamente i detentori del potere, quelli che si ritrovano a Davos e in simili
occasioni; ma il ceto di cui stiamo parlando, pur ristretto, non è composto
esclusivamente da uomini e donne di potere, ma da persone che condividono lo
stile di vita e la visione del mondo degli attuali ceti dominanti. Per
chiarezza terminologica, parleremo di “élite dominanti” intendendo la ristretta
cerchia di chi detiene un potere effettivo (per ripeterci: quelli che si incontrano
a Davos), mentre useremo l’espressione “ceti medi elitari” o “ceti medi
globalizzati” intendendo quella strato sociale che abbiamo descritto nelle
prime righe, minoritario ma più ampio rispetto ai “signori di Davos”. Parleremo
infine di “élite contemporanee” intendendo l’insieme di questi due gruppi.
Alle élite contemporanee si contrappone la parte
largamente maggioritaria della popolazione, che ha visto in questi decenni il
peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita e la perdita dei diritti
conquistati nella fase “keynesiano-socialdemocratica” del capitalismo del
secondo dopoguerra. Si tratta di ceti legati ad una dimensione di vita locale o
al più nazionale, impegnati in lavori di scarsa qualificazione, non molto
dotati delle competenze (linguistiche e culturali in generale) per muoversi
nella “società globale”.
È noto che questa frattura sociale si esprime anche
come frattura culturale e politica. I ceti del primo tipo sono in primo luogo
sostenitori convinti dei processi di globalizzazione: possono magari ammettere
che essa presenta anche dei problemi, ma tali problemi devono comunque essere
superati mantenendone la sostanza; in secondo luogo aderiscono in genere alle
ideologie mainstream in campo economico (sono cioè in sostanza liberisti,
magari con sfumature diverse); in terzo luogo condividono in gran parte i
dettami del “politicamente corretto”; infine, sul piano delle scelte
politico-elettorali, esprimono in genere preferenze per la cosiddetta “sinistra
moderata”, ma possono dare appoggio anche a personaggi almeno apparentemente
nuovi come Renzi in Italia e Macron in Francia.
I ceti del secondo tipo esprimono invece, in modo
spesso confuso ma con forza crescente, un rifiuto di molti aspetti di ciò che
chiamiamo “globalizzazione”, e questo rifiuto si esprime politicamente
nell’appoggio a movimenti, partiti e leader ascrivibili alla destra, una destra
che spesso viene qualificata come “populista” o “sovranista” per esprimere in
qualche modo gli aspetti di novità che la contraddistinguono rispetto alla
destra liberale classica.
Se questa è la situazione, è chiaro che essa può
portare a dinamiche piuttosto pericolose, a scontri distruttivi e laceranti del
tessuto sociale, fino a mettere in questione la stessa democrazia. Ci si
aspetterebbe quindi una discussione franca e spassionata per capire come
evitare tali esiti. E ovviamente le attuali élite, che hanno in media una
formazione intellettuale di più alto livello rispetto ai ceti subalterni,
dovrebbero dimostrare la propria superiore capacità intellettuale proprio in
questo tipo di riflessione. Purtroppo si deve constatare che la reazione delle
élite di fronte a questa situazione è spesso piuttosto infantile: le masse
“populiste” vengono stigmatizzate come ignoranti, rozze, mentalmente limitate
(e quindi intolleranti e razziste), fascistoidi. Ora, questi aspetti possono
certamente essere una componente del “grande rifiuto”, da parte di fasce sempre
maggiori della popolazione, verso l’attuale organizzazione sociale, ma non è
questo il punto. Il punto è che una élite è tale se riesce ad avere capacità
egemonica, cioè se riesce a collegare a sé la gran massa della popolazione
subalterna offrendo un compromesso per il quale le masse accettano la propria
subalternità ricevendo in cambio la possibilità di vivere una vita decente,
protetta per quanto possibile dagli alti e bassi delle vicende storiche. La
fase del capitalismo “keynesiano-socialdemocratico” è stata appunto una fase di
egemonia di questo tipo: non c’era ovviamente nessuna rivoluzione nei rapporti
di dominio, ma i ceti dominanti in quella fase hanno saputo costruire assieme
ai ceti subalterni un compromesso soddisfacente, legando in maniera fortissima
le masse a quella organizzazione sociale: è l’enorme capacità egemonica di quello
che giustamente è stato chiamato “l’impero irresistibile”[1] a costituire la
base ultima dell’89, della vittoria finale del capitalismo sul suo antagonista
storico. Il capitalismo occidentale aveva conquistato le masse, il socialismo
orientale aveva prodotto una massiccia reazione di rigetto.
Se questo è chiaro, dovrebbe anche apparire chiaro
come la reazione attuale delle élite alla disaffezione delle masse sia del
tutto infantile: quello che è successo in questi decenni è la fine del
compromesso “keynesiano-socialdemocratico”, e questa fine ovviamene implica
anche la fine dell’egemonia basata su tale compromesso. Ma allora, invece di
lanciare alle masse epiteti ingiuriosi, una élite degna di questo nome deve
ricostruire una egemonia, e cioè proporre un nuovo patto sociale, un nuovo
grande compromesso fra dominanti e dominati. Ma di questo non si vede oggi la
minima traccia.
L’attuale situazione fa allora pensare che ci troviamo
in un caso standard di “revoca del mandato celeste” [2]. Si tratta, come è noto,
di una espressione ripresa dalla tradizione culturale cinese. In tale
tradizione, il sovrano è tale perché ha ricevuto dal Cielo il mandato di ben
governare la società, mantenendola in armonia con i grandi cicli del cosmo. Il
sovrano è legittimo finché riesce in questo compito. Quando emergono, nella
società o nella natura (realtà non drasticamente opposte, in quella tradizione
culturale), evidenti segnali di disarmonia, di contrasti, di rottura degli
equilibri cosmici, il sovrano è delegittimato e la rivolta è legittima. Si
tratta di una impostazione culturale che non resta mera teoria ma si
concretizza nelle tante rivolte che costellano la storia di quel grande paese,
arrivando talvolta ad abbattere dinastie e a fondarne di nuove.
Se sfrondiamo questa narrazione dagli aspetti
culturali tipici del mondo cinese, affascinanti ma lontani dalla nostra
mentalità, quello che resta è l’idea che il sovrano, il ceto dominante, deve
mantenere una armonia fra i vari gruppi sociali, e se questa manca viene meno
la legittimità del potere. Tale armonia non può che basarsi su un compromesso
nel quale i ceti dominati ottengono la possibilità di vivere una vita decente,
secondo i parametri di quel dato momento storico e quella particolare cultura.
Nel mondo premoderno una vita decente era in sostanza un vita che mantenesse le
stesse possibilità e disponibilità stabilite dalla tradizione. Nel mondo
moderno, il mondo che ha inventato la nozione di “progresso”, nel concetto di
“vita decente” vi è non solo la possibilità di accedere a un determinato
livello di consumi, ma anche l’idea di un progressivo miglioramento, l’idea
cioè che nel corso della vita di ciascuno il livello di vita si alzerà e i
figli godranno di una vita migliore rispetto ai genitori. È evidente allora che
il “trentennio dorato” 1945-1975 rappresenta appunto, come si diceva, un
esempio di compromesso nel quale i ceti dominanti riuscivano a garantire una
vita decente ai dominati, e ne ricavavano consenso ed egemonia. È altrettanto
chiaro, e spiegato nei dettagli in una letteratura ormai imponente, che i
decenni seguiti agli anni Settanta hanno rappresentato la revoca di quel
compromesso: distruzione dei ceti medi, impoverimento dei ceti inferiori,
aumento spettacolare delle disuguaglianze, fine dell’idea che i figli vivranno
meglio dei genitori. I ceti dominanti hanno denunciato, nei fatti, il
compromesso precedente, senza sostituirvi nessun progetto sociale che abbia le
stesse capacità egemoniche. Hanno in sostanza tolto senza dare nulla e senza
preoccuparsi della caduta verticale del consenso e della coesione sociale. E
rispondono alla crescente rabbia sociale con disprezzo moralistico verso i ceti
subalterni. Si tratta insomma di uno strato dominante che ha perso ogni
capacità egemonica, e che sarà abbattuto se non riesce a riconquistarla,
impostando un nuovo grande compromesso sociale. Il primo esempio storico che
viene alla memoria è, ovviamente, la Rivoluzione Francese: nel 1789 in Francia
è stato necessario abbattere il potere dei ceti aristocratici per costruire una
nuova società; ma anche nella storia cinese è stato più volte necessario che le
rivolte contadine contribuissero ad abbattere dinastie per lasciare spazio a
nuovi gruppi dominanti. E non ha ovviamente nessuna importanza che i ceti da
abbattere siano quasi sempre più colti e raffinati dei rivoltosi che li
abbattono: non c’è dubbio che un aristocratico francese di fine Settecento
fosse capace di una conversazione più colta e civile del sanculotto che lo
accompagnava alla ghigliottina, non c’è dubbio che il mandarino al servizio
dell’imperatore caduto avesse molte più cose da insegnarci rispetto al
contadino in rivolta: tutto questo non ha nessuna importanza, se si è capito il
senso di quanto finora detto. Chi sicuramente capiva queste cose era Gramsci,
che in una lettera alla cognata scriveva: “La posizione del Croce verso il
materialismo storico mi pare simile a quella degli uomini del Rinascimento
verso la Riforma luterana: “dove entra Lutero, sparisce la civiltà”, diceva
Erasmo, eppure gli storici e lo stesso Croce riconoscono oggi che Lutero e la
Riforma sono stati l’inizio di tutta la filosofia e la civiltà moderna (…).
L’uomo del Rinascimento non comprendeva che un grande movimento di rinnovazione
morale e intellettuale, in quanto si incarnava nelle vaste masse popolari, come
avvenne per il Luteranesimo, assumesse immediatamente forme rozze e anche
superstiziose e che ciò era inevitabile per il fatto stesso che il popolo
tedesco, e non una piccola aristocrazia di grandi intellettuali, era il protagonista
e il portabandiera della Riforma” [3]. Come si vede, Gramsci coglie qui con
precisione il nesso fra la “rozzezza” di alcuni aspetti del movimento della
Riforma e la sua importanza storica: non che la rozzezza in sé sia un valore,
beninteso, ma essa è un aspetto inevitabile di un grande movimento storico che,
coinvolgendo le “vaste masse popolari”, appunto per questo nello stesso
tempo esprime capacità di “rinnovazione morale e intellettuale” e “forme
rozze” (almeno nell’immediato). Il fatto che questo tipo di comprensione delle
realtà storiche sia molto lontana, per quanto possiamo giudicare, dalle analisi
prodotte, rispetto ai fenomeni di cui stiamo trattando, dalle élite
contemporanee, dimostra una volta di più la loro incapacità di ricostruire un compromesso
egemonico. Il mandato celeste è stato revocato, ribellarsi è giusto.
II. Un orrore inaudito
Quanto abbiamo fin qui detto delinea in fondo una
storia piuttosto banale: un tipo di compromesso sociale, che ha funzionato per
un periodo, entra in crisi, le élite non sanno inventarsi un diverso tipo di
compromesso e si limitano ad approfittare della propria posizione di potere per
accumulare benefici ostentando disprezzo per i ceti subalterni i quali, privati
a poco a poco di quanto ottenunto in precedenza e in mancanza di prospettive di
un nuovo compromesso, inziano lentamente a contestare le élite. Proprio
l’incapacità delle élite di inventare un nuovo compromesso, e il loro
rifugiarsi nel disprezzo di classe, mostrano con evidenza che esse non hanno
più le capacità egemoniche necessarie al loro ruolo, e fanno quindi prevedere
che esse saranno abbattute e sostituite con nuove élite.
Tutto questo, lo ripeto, è fondamentalmente banale,
uno schema già visto tante volte. Ma la situazione attuale non si limita a
questo momento di “ripetizione”, ma presenta aspetti nuovi che ci spingono a
delineare prospettive molto più drammatiche di una semplice rivoluzione, per
quanto cruenta. La novità che sta emergendo con tutta evidenza nei giorni
attuali è il disastro ecologico al quale ci sta portando l’organizzazione
sociale attuale, cioè il capitalismo esteso ormai a tutto il globo. Siamo di
fronte alla prospettiva del crollo catastrofico dell’attuale civiltà. Nel
giudizio da dare sulle attuali élite globalizzate è allora da qui che bisogna
partire: dal fatto che l’attuale organizzazione di economia e società ci sta
portando verso un disastro di proporzioni mai viste nella storia umana.
Le élite del capitalismo globale hanno pesantissime
responsabilità in questa situazione. Limitiamoci qui al problema del
cambiamento climatico, che è solo uno dei tanti nodi che verranno al pettine
nei prossimi decenni. Il bel libro di Nathaniel Rich[4] documenta come gli
aspetti essenziali del problema fossero già chiari alla fine degli anni
Settanta, e come vi sia stato, lungo gli anni Ottanta, un serio tentativo, che
ha coinvolto le massime cariche istituzionali negli USA[5], di arrivare a un
trattato internazionale per limitare e bloccare le emissioni di diossido di
carbonio. Questi tentativi non portarono però a nulla, e oggi possiamo dire che
da questo punto di vista l’umanità ha sprecato quattro decenni che sarebbero
stati cruciali per evitare il disastro oggi incipiente. Rich non fornisce
spiegazioni per questo fallimento, ma a questo provvede, con la sua consueta
chiarezza, Naomi Klein[6], che argomenta ciò che dovrebbe essere ovvio: la
vittoria mondiale del capitalismo neoliberista globalizzato non poteva che
portare al fallimento di quei tentativi, perché un sistema economico basato
sulla concorrenza spietata nella ricerca del profitto, concorrenza estesa
all’intero pianeta, non può tollerare nessun vincolo, nessuna limitazione;
mentre ovviamente un qualsiasi tipo di trattato sulla limitazione delle
emissioni, se venisse davvero applicato, rappresenterebbe un vincolo
all’espansione illimitata del capitale nella sua ricerca spasmodica del
profitto.
Il punto è che le élite globali di cui stiamo parlando
rappresentano proprio il ceto dominante e la principale base sociale di questo
capitalismo, e sono quindi, tutti assieme, fondamentalmente responsabili del
fatto che negli ultimi quarant’anni non si è agito per evitare di “perdere la
Terra”, per evitare il baratro nel quale il modo di produzione capitalistico
sta precipitando l’umanità intera.
Si potrebbe obiettare che tutto questo riguarda il
passato, che oggi finalmente esiste un consenso, anche fra i ceti dominanti,
sulla necessità di risolvere il drammatico problema del riscaldamento globale.
Sembra in effetti che negli ultimi anni si sia prodotto un cambiamento di
questo tipo, che davvero una parte almeno dei ceti dominanti si sia convinta
del fatto che la catastrofe annunciata da tempo sta arrivando, e che essa mette
in questione anche il loro potere, i loro redditi, e forse persino le loro
vite, assieme naturalmente a quelle di masse sterminate di altri esseri umani.
Il punto fondamentale è però che le élite non intendono rimettere in
discussione il modo di produzione capitalistico, e quindi le misure che forse
riusciranno a prendere per combattere il cambiamento climatico non potranno
essere decisive, anche se, eventualmente, riusciranno a rinviare per qualche
tempo, magari per qualche decennio, il crollo dell’attuale civiltà. Facciamo
solo un esempio: Greta Thunberg si è recata all’ONU, a New York, viaggiando su
una barca a vela. Questa scelta non ha solo un carattere simbolico. Il suo
significato è che davvero, se vogliamo salvarci, dobbiamo rinunciare ai viaggi
in aereo e all’uso di navi a motore. Ma è pensabile l’attuale organizzazione
economica, l’attuale capitalismo globalizzato, senza la fitta rete di scambi
commerciali che utilizzano massicciamente motori spinti dall’energia dei
combustibili fossili? Ovviamente no, e l’unica possibilità è allora lo
smantellamento dell’attuale capitalismo globalizzato e la ricostruzione di
forme di economia molto più localizzate, con una rete di scambi ridotta per
volume ed estensione. La domanda è ovvia: le attuali élite globalizzate
progettano seriamente qualcosa del genere? Prospettano in qualche modo la
necessità di ridurre gli scambi commerciali globali? Ovviamente no, e questo
esempio mostra come l’attuale conversione dei ceti dominanti (o almeno di una
loro parte significativa) alle tematiche del “climate change” non sia tale da
cambiare la direzione catastrofica nella quale l’attuale società si sta
muovendo.
È allora questa la novità storica con la quale
dobbiamo confrontarci, nel giudizio sulle élite contemporanee: per la prima
volta nella sua storia l’umanità si trova di fronte alla possibilità concreta
del crollo dell’intera società umana mondiale. Si tratta di un evento che è
difficile anche solo da pensare, e che, se dovesse realizzarsi, porterebbe
sofferenze e orrori quali mai si sono visti nella storia umana. Yves Cochet [7]
ritiene che il crollo sia molto vicino e che si possa ipotizzare la scomparsa
di metà dell’attuale umanità, cioè la morte di tre o quattro miliardi di
individui. Ovviamente non possiamo accampare certezze assolute sul futuro, in
particolare non possiamo pensare ad una datazione precisa del crollo, ma
ritengo che quello prospettato da Cochet sia il livello di orrore che possiamo
aspettarci. Per inquadrare e concludere questa discussione, proviamo allora a
leggere “il presente come storia”[8]: a vedere il nostro presente con gli occhi
dei sopravvissuti al crollo dell’attuale civiltà. Da quanto
detto, appare evidente che, se un simile evento si produrrà, rappresenterà un orrore inaudito nella storia. Ma è
anche evidente che, se questo orrore arriverà, le attuali élite verranno deprecate
dai sopravvissuti come gli esseri più orribili dell’intera storia umana.
Appariranno, appariremo, espressione di una inaudita malvagità. Una malvagità
oggettiva, s’intende: non stiamo parlando delle soggettività dei singoli.
E questa è dunque la conclusione delle riflessioni fin
qui svolte. Non c’è dubbio che le attuali élite siano composte di persone
educate, tolleranti, colte. Ma questo non ha nessuna importanza, come non aveva
nessuna importanza quanto fossero educati, tolleranti e colti gli aristocratici
francesi a fine ‘700. Al momento del crollo, se crollo sarà, le attuali élite
globalizzate, con tutta la loro tolleranza, educazione, cultura, riveleranno di
essere nient’altro che una nuova manifestazione della banalità del male.
(Marino Badiale, Genova 12-12-19)
[1] V.De Grazia, L’impero irresistibile,
Einaudi 2006.
[3] A.Gramsci, dalla lettera a Tatiana Schucht del 1
dicembre 1930, in Lettere dal carcere, Einaudi 1973, pagg.384-385.
[4] N.Rich, Perdere la terra, Mondadori 2019.
[5] La ricostruzione storica di Rich si limita agli
USA.
[6] N.Klein, Il mondo in fiamme, Feltrinelli
2019. Klein discute il testo di Rich alle pagine 233-241.
[7] Y.Cochet, Devant l’effondrement, Les liens
qui libèrent 2019.
[8] Secondo la nota formula del marxista americano P.M.Sweezy.
«Cochet vuole incentivare le popolazioni a non fare più figli: “Propongo di invertire la nostra politica di incitamento alle nascite, ribaltando la logica degli assegni familiari. Più figli hai, più le tue indennità diminuiscono fino a scomparire dalla terza nascita”. A causa della quantità di CO2 pro capite, gli occidentali devono essere “i primi a diminuire demograficamente”. Il calo delle nascite va equilibrato con più immigrazione: “Limitare le nostre nascite ci permetterebbe di accogliere meglio i migranti che bussano alle nostre porte”.
RispondiEliminaA questa deriva ecologista ha risposto Olivier Babeau, docente all’Università di Bordeaux e a capo dell’Institut Sapiens: “Una società che offre come la prospettiva più desiderabile di ritornare dolcemente al nulla per essere sostituita da coloro che sono più vigorosi è profondamente malata. Ci meriteremo quello che ci succederà”. Ma è come l’autoprofezia di un occidente a crescita demografica ed economica zero, surclassato dalle economie asiatiche e dall’immigrazione africana. Secondo Laurent Alexandre, “la forma definitiva di un masochismo suicida”.»
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E si dà credito alle opinioni di questo folle satanista?
La diminuzione demografica mi sembra una condizione necessaria per la salvezza della civiltà umana. Per il resto, trovare interessanti alcuni aspetti del pensiero di un autore, non significa condividerli. Trovarne alcuni condivisibili non significa condividerli tutti. Si tratta dell'ABC del dibattito intellettuale.
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