Sul numero di Marzo 2019 del mensile "L'altrapagina" appare una intervista agli autori di questo blog. L'abbiamo rielaborata per farne un articolo per il blog. Qui trovate il sito della rivista (dove mi sembra non appaiano i numeri recenti). Ringrazio l'amico Maurizio Fratta per averci dato questa opportunità M.B.
La
maggiore urgenza del mondo contemporaneo è probabilmente quella
della “conversione ecologica”, per usare il titolo di un bel
libro di Guido Viale. È cioè necessario, per preservare un livello
decente di condizioni di vita, ed anche di civiltà, una profonda
ristrutturazione della nostra organizzazione economica e sociale, che
renda il nostro modo di vivere, produrre e consumare compatibile con
la preservazione degli equilibri ecologici del pianeta.
Ma
questo fondamentale passaggio di civiltà è impossibile all’interno
del mondo capitalista.
Il
modo di produzione capitalistico, infatti, è essenzialmente un
processo di accumulazione senza fine, che per potersi perpetuare, è
inevitabilmente spinto a oltrepassare ogni limite, sia esso di tipo
sociale o ambientale.
Ma
accettare il fatto che l’attività umana debba essere compatibile
con i ritmi biologici ed ecologici del pianeta significa appunto
prendere atto che vi sono dei limiti che non devono essere superati.
Modo di produzione capitalistico ed ecologia sono quindi
essenzialmente in contraddizione fra
loro,
e le conseguenze del superamento dei limiti ecologici cominciano ad
apparire evidenti nella stessa vita quotidiana. Il mutamento
climatico è ormai una realtà con la quale fare i conti, ma si
tratta solo della più evidente fra le tante minacce che l’attuale
organizzazione economica e sociale sta portando alla vita e alla
civiltà degli esseri umani.
L’accumulazione
capitalistica è quello che nel linguaggio comune si chiama
“crescita” (o anche
sviluppo);
l’uscita da una organizzazione sociale distruttiva come l’attuale
non potrà allora che
essere
determinata da un rifiuto del dogma della “crescita” e dalla
configurazione di nuovi indicatori di benessere, capaci di misurare
le reali condizioni di vita e di lavoro della maggioranza delle
persone, e che pertanto, non potranno non prendere
in considerazione gli equilibri ecologici e ambientali, i
quali determinano le condizioni nelle quali le persone vivono (città
non inquinate, presenza di spazi verdi, cibo sano etc..).
Appare
però evidente che i ceti oggi dominanti, a livello planetario, non
hanno nessuna intenzione di uscire dall’attuale modello di economia
basato sulla crescita, e quindi scelgono deliberatamente di non porre
in essere incisive azioni di salvaguardia degli equilibri ecologici.
Ne
è prova l’inconcludenza delle tante conferenze sul clima di questi
anni.
Il
paradosso è che i ceti oggi dominanti non solo non fanno nulla per
prevenire i disastri ambientali incipienti, ma nemmeno fanno sì che
la crescita economica diffonda qualche beneficio
sui
ceti subalterni. Da quarant’anni ormai, i ceti medi e bassi sono
esposti a una continua erosione di diritti e redditi, che in tutto
questo periodo non si è mai fermata, nei priodi di crescita come in
quelli di recessione.
Sta
qui la radice della ribellione “populista” contro i ceti oggi
dominanti, che in modi diversi sta attraversando l’intero mondo
occidentale.
Gli
intellettuali che stigmatizzano questa rivolta dimostrano una volta
di più la propria incomprensione della storia e la propria
“cupidigia di servilismo” (per usare un’espressione famosa) nei
confronti di un’élite manifestamente incapace di elaborare
un’idea di organizzazione sociale che conceda anche solo un po’
di benessere e di sicurezza ai ceti subalterni.
Se
adesso a questa incapacità di pensare e agire per una società un
po’ meno disegualitaria, aggiungiamo la volontà di non fare
alcunché per fermare l’incipiente crisi ecologica, appare evidente
come i ceti dominanti rappresentino oggi il peggior nemico
dell’umanità. La
lotta
contro di loro e contro il capitalismo neoliberista di cui essi sono
espressione è dunque una
battaglia
per la salvezza dell’umanità e della civiltà.
Nel
caso specifico dei paesi europei, le politiche neoliberiste si sono
concretamente attuate attraverso gli strumenti dell’Unione Europea
e della moneta unica. UE ed euro sono istituzioni pensate e create in
perfetta armonia con lo sviluppo delle politiche neoliberiste.
Esse
sono pensate per favorire il più possibile la circolazione di merci
e capitali, esattamente il contrario di ciò che bisognerebbe fare
per uscire dalla distruttiva economia della crescita. Sono pensate
per lasciare libero spazio al mercato e impedire l’intervento dello
Stato nell’economia. Di nuovo, questo è esattamente il contrario
di ciò che sarebbe necessario. Come abbiamo detto, il modo di
produzione capitalistico, che agisce nel mercato, è essenzialmente
incapace di rispettare i vincoli che derivano dal rispetto degli
equilibri ecologici.
Per
imporre questi vincoli, è necessario l’intervento regolatore dello
Stato. Allo stesso modo occorre lo Stato per finanziare la
rivoluzione tecnologica che è necessaria per il passaggio ad una
“economia ecologica”. Mariana Mazzucato, nel suo bel libro su “Lo
Stato innovatore”, ha chiarito come in situazioni di questo tipo
solo lo Stato possa avere la visione lungimirante che appare
necessaria per progettare e realizzare cambiamenti profondi e a lungo
termine.
Appare
allora evidente che l’uscita da UE ed euro è
una delle condizioni necessarie (ma non sufficienti) per impostare
una politica economica all’altezza dei problemi fin qui esposti.
Se
riassumiamo queste brevi considerazioni, possiamo delineare quali
potrebbero essere i punti qualificanti di una forza politica che
intenda farsi carico dei problemi di fondo del mondo attuale.
Il
primo punto dovrebbe essere l’intervento dello Stato nell’economia,
per la conversione ecologica del sistema produttivo e, assieme, per
una politica che riduca le disuguaglianze attuali, ripristinando, in
forme eco-compatibili, i diritti sociali di cui i ceti subalterni
sono stati privati nella fase del capitalismo neoliberista e
globalizzato.
Una
tale forza politica dovrebbe contrastare la globalizzazione, lottare
per la ri-costruzione dello Stato nazionale con piena sovranità e
ovviamente, in Europa, agire per la distruzione della moneta unica e
dell’Unione Europea.
Tutto
questo andrebbe inquadrato nella prospettiva della fuoriuscita dalla
società della crescita.
Tuttavia,
se questo è, in estrema sintesi, ciò che una forza antisistemica
dovrebbe esprimere, non possiamo esimerci dal guardare in faccia le
realtà: oggi non esiste alcun soggetto politico con queste
caratteristiche. E non ci sono indizi che una tale forza politica sia
prossima a sorgere. Se guardiamo al panorama attuale delle forze
antisistemiche vediamo che esse portano avanti alcune delle istanze
secondo noi necessarie, ma lo fanno isolatamente e anzi
contrapponendosi le une alle altre.
Così
le forze che si ispirano al marxismo, o che comunque sostengono la
causa dell’anticapitalismo e della giustizia sociale, lo fanno
quasi sempre senza criticare l’idea di crescita, mentre i movimenti
ecologisti e decrescisti appaiono spesso limitati
a buone pratiche personali e poco sensibili ai temi
della giustizia sociale, e anche alla necessità di elaborare una
strategia efficace sul piano politico, capace di aggregare consenso.
Non
a caso, sia gli uni che gli altri, non riescono ormai che a
costituire microscopici gruppuscoli, totalmente incapaci di incidere
in qualsiasi aspetto della realtà.
Si
tratta di un dato di fatto ormai storicamente acquisito. Il carattere
ultraminoritario di tale mondo può dipendere anche da limiti
soggettivi delle persone ad esso interne. Ma questo è solo un primo
livello. Infatti, quando emerge una autentica esigenza storica di
mutamento, i limiti soggettivi di questo tipo vengono superati, in un
modo o nell’altro. Se questo oggi non succede, significa che
probabilmente c’è, nel profondo di ciò che è oggi l’essere
umano, qualcosa che blocca la spinta al mutamento.
Quel
che è successo in questi decenni è la profonda interiorizzazione,
da parte dei ceti subalterni, del pilastro fondamentale
dell’ideologia contemporanea: il principio cioè che questo mondo è
l’unico mondo possibile, che non c’è alternativa.
Si
tratta del famoso slogan TINA, appunto “There Is No Alternative”,
che risale ai tempi della Thatcher.
L’essere
umano si è adattato a un mondo privo di prospettive, ha aderito alla
“nuova ragione del mondo” (come recita il titolo di un acuto
libro di Dardot e Laval), ed esprime l’inevitabile
disagio,
che questo mondo mortifero genera, nella forma di sporadiche rivolte
che non riescono mai a coagularsi in una autentica sfida politica al
sistema dominante. Quando l’opposizione e il disagio si fanno
effettiva forza politica (come nel caso dei vari movimenti e partiti
“populisti”) non si arriva mai ad una contestazione di fondo
dell’attuale organizzazione economica e sociale; in certi casi,
anzi, i movimenti “populisti” appaiono in profonda sintonia col
modello neoliberista: si vedano per esempio i partiti che compongono
l’attuale governo italiano, la Lega e il Movimento 5 Stelle, che
appaiono critici verso l’UE ma ne condividono il neoliberismo di
fondo.
Ciò
che appare è dunque una egemonia di fondo dell’attuale
organizzazione socioeconomica e della sua antropologia, che sembra
rendere impossibile una efficace contestazione della sua
distruttività.
Tale
egemonia si esprime anche all’interno delle forze antisistemiche
sopra citate. Alcune incapaci di sottrarsi al dogma della crescita
infinita, altre estranee o addirittura ostili alla dimensione
politica, che è l’unica che incide nella realtà.
In
queste condizioni, è giocoforza concludere che l’attuale
capitalismo percorrerà fino in fondo la sua parabola distruttiva,
prima che dalle macerie possano cominciare ad emergere nuove forme di
relazioni umane.
Marino
Badiale-Fabrizio Tringali
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