I. Queste riflessioni partono da un
presupposto che mi limito qui ad esporre rapidamente senza argomentazioni. È
mia convinzione che siamo avviati ad un declino di civiltà causato da due
elementi fondamentali: da una parte l’emergere sempre più netto del carattere
distruttivo, nei confronti di società e natura, dell’attuale organizzazione
sociale, dall'altra la totale assenza di una forza sociale che seriamente e
concretamente contesti questa distruttività e inizi a costruire vie
alternative. Lo scenario globale dei prossimi decenni sarà cioè, a mio modesto
avvisto, uno scenario di degrado e fine di una civiltà, senza speranze di un
mondo migliore. È questa la situazione in cui ci accade di vivere. Non sto
affermando che ci avviamo alla fine definitiva della civiltà umana o
addirittura della specie umana. Sto affermando che le persone presenti sulla
faccia della terra oggi, inizio 2019, vivranno l'intera loro vita in una fase
di crisi e declino e non potranno scorgere nella realtà elementi di una diversa
organizzazione sociale. Ammesso che sia così, appare inevitabile porsi il
problema del senso da dare alla propria vita, in un mondo senza speranza.
II. Intendo qui sostenere che, in
questa situazione, occorre innanzitutto liberarsi dai residui di concezioni del
passato. Uno di questi residui da abbandonare è la nozione di comunismo.
Svilupperò quindi alcune argomentazioni per la critica dell’idea di società
comunista.
Uno degli argomenti usuali contro
il comunismo si sviluppa più o meno nel modo seguente: il comunismo è un’utopia
che contraddice alcuni dati fondamentali dell’essere umano. Il tentativo di
concretizzazione storica dell’utopia comunista in una società determinata, da
parte del potere politico, porta quindi necessariamente a difficoltà oggettive
e resistenze soggettive. Il potere politico, accecato dall'ideologia e quindi
incapace di rendersi conto del carattere utopico delle sue aspirazioni,
reagisce con la violenza a difficoltà e resistenze, innestando il meccanismo
che porta poi, con altrettanta necessità, al terrore e agli stermini e infine,
dopo inenarrabili sofferenze, alla disillusione e all'abbandono dell’utopia.
Questo schema di ragionamento non
è in realtà specifico delle critiche (soprattutto novecentesche) al comunismo,
perché in sostanza ricalca le critiche dei conservatori europei nei confronti
della Rivoluzione Francese. Il punto teoreticamente più alto di questo tipo di
argomentazioni è rappresentato probabilmente dalle pagine della “Fenomenologia
dello Spirito” in cui Hegel tratta la dialettica del Terrore.
Ritengo, per tornare al comunismo,
che lo schema di ragionamento sopra ricordato sintetizzi alcuni aspetti reali
della dinamica storica del comunismo novecentesco, ma non sia ancora
sufficiente per l’abbandono definitivo di questa ideologia. Qualificare il
comunismo come utopia, senza ulteriori specificazioni, permette infatti alcune
strategie teoriche di elusione della critica: in primo luogo si può argomentare
che una prospettiva utopica appare necessaria come spinta critica nei confronti
dei mali del presente, in secondo luogo si può replicare che ciò che oggi
appare utopico può divenire una possibilità concreta in un futuro prossimo
grazie a opportuni sviluppi storici (per esempio il progresso tecnologico o la
crescita materiale e spirituale del proletariato).
Per liberare definitivamente lo
spirito dal comunismo occorre quindi qualche ulteriore considerazione. Si
tratta di mostrare che esiste un senso nel quale il comunismo non è per nulla
un’utopia, ma è anzi una realtà concreta della vita di tutti. Naturalmente per
capire cosa intendo dire occorre mettersi d’accordo sul significato della
parola “comunismo”. È noto che esistono infinite discussioni su questo punto. Non
intendo ripercorrere la storia di questi dibattiti, ma mi limito a riprendere
quelle nozioni marxiane che, mi sembra, sono state sempre considerate
costitutive del concetto. Mi riferisco ai celebri passi della “Critica del
programma di Gotha” nei quali Marx parla della fase superiore della società
socialista compendiandola nella nota formula “da ciascuno secondo le sue
capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. A partire da questa citazione
potremmo facilmente ritornare alle discussioni cui alludevo nelle righe
precedenti. Infatti se pensiamo a una società umana adeguata ai principi sopra
citati, dovremmo pensare ad una società nella quale ciascuno si impegna in ciò
che più gli aggrada, ricevendo comunque in cambio il necessario per la vita. E
il critico avrebbe gioco facile a denunciare il carattere utopistico di una
simile visione, mentre il suo oppositore potrebbe replicare che gli enunciati
marxiani si riferiscono a una situazione futura nella quale lo sviluppo
economico e tecnologico fornisca le basi di una abbondanza materiale estesa a
tutti, e il progresso spirituale abbia portato al superamento dell’egoismo e
della rapacità tipici della società borghese.
Si tratta di un dibattito che
potrebbe continuare all'infinito. L’intento di questo scritto è quello di
suggerire un’altra strada, e dopo queste premesse vengo finalmente al punto. Il
punto sta in questo: il comunismo non è un’utopia perché la richiesta “da
ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” è
concretamente realizzata in un ambito particolare della società e della vita di
ciascuno. Si tratta della famiglia. La famiglia è organizzata precisamente su
quei principi. In una famiglia, ciascuno fornisce alla famiglia stessa ciò che
è in grado di dare, e riceve ciò che gli serve per l’esistenza, ovviamente al
di fuori di ogni scambio di tipo commerciale.
Il comunismo non è dunque
un’utopia astratta, lontana dalla realtà degli esseri umani, perché è invece
una parte fondamentale del percorso di crescita di ciascun individuo umano. Ma
prendere coscienza del fatto che la famiglia è il comunismo, significa
abbandonare definitivamente l’idea del comunismo come prospettiva politica per
la società umana. Per capire questo punto, basta interrogarsi sul perché il
“comunismo della famiglia” sfugga alle impossibilità che, secondo i critici,
inficiano il progetto di una società comunista, rendendolo utopistico. La
critica principale è quella legata alla necessità, perché una società comunista
possa funzionare, di superare le distanze e le fratture fra gli esseri umani;
in una società comunista ci si deve poter fidare dell’altro, si deve sapere che
ciascuno farà la sua parte dell’interesse del bene comune, che nessuno userà la
libertà possibile per prevaricare sull'altro, in un modo o nell'altro. Nel
comunismo l’altro non deve essere un semplice estraneo. L’altro deve essere un
fratello, e non a caso la fraternità con l’intero genere umano è uno degli
ideali rivendicati dai rivoluzionari, a partire dalla Rivoluzione Francese.
Ora, questa non-estraneità è esattamente quello che si realizza nella famiglia.
All'interno di una famiglia ci si conosce in profondità e, se la famiglia
funziona, si sa di potersi fidare, si sa cosa ci si può aspettare. Questa
conoscenza reciproca all'interno della famiglia è ciò che costituisce il punto
di partenza della vita di ogni individuo. Per chi arriva al mondo in una
famiglia i suoi membri non sono estranei ma sono individui conosciuti da
sempre, individui che fanno parte dell’identità stessa del nuovo individuo;
così accade fra fratelli e sorelle, così accade per il figlio o la figlia nei
confronti di genitori e nonni, e in generale degli adulti, di coloro che erano
già lì al momento della sua nascita. Diverso è il caso del legame della coppia,
nel quale l’essere assieme, la fiducia reciproca, non è un qualcosa già da
sempre lì, come nel caso dei figli. Qui la non-estraneità è ovviamente dovuta
al legame creato dall'unione sessuale, che, come sa la Bibbia, stabilisce una
forma di “conoscenza” assolutamente unica.
Se questi sono allora i fondamenti
di possibilità del comunismo della famiglia (l’unico comunismo realmente
esistente), appare facile capire perché l’unica società comunista pensabile è
in sostanza una piccola tribù formata al più da poche centinaia di individui
legati fra loro da vincoli di sangue. La fiducia, il non sentire l’altro come
un estraneo, sono possibili solo sulla base di una lunga conoscenza reciproca,
a sua volta possibile solo nella famiglia o in una tribù che sia in sostanza
una specie di famiglia allargata. E questo perché tale fiducia richiede
conoscenza reciproca, e la conoscenza reciproca richiede tempo, tempo per
vivere assieme, per parlare, per ridere, per costruire l’amore, per litigare e
poi fare la pace. La fraternità universale degli esseri umani è allora davvero
un’illusione. L’umanità non può essere pensata come una famiglia di fratelli o
sorelle perché i limiti del tempo della nostra vita lo proibiscono. Non potremo
mai conoscere ogni individuo umano, e fidarci di lui o di lei, come conosciamo
coloro che hanno accompagnato la nostra vita fin dalla nascita. Tanto meno
possiamo immaginare di superare le distanze fra gli esseri umani grazie alla
generalizzazione del rapporto sessuale. È interessante osservare il fatto che
l’utopia di una umanità futura pensata come una comune di libero amore sessuale
abbia accompagnato come un’ombra la storia del pensiero progressista, da
Charles Fourier al ‘68. Ma su questo punto il pensiero conservatore ha sempre
avuto ragione nei confronti del pensiero progressista e delle sue utopie.
L’essere umano ha in sé il bene e il male, e più si toccano strati profondi del
nostro essere più è facile che ne emergano bene e male. Ma la sessualità è
appunto la dimensione dei rapporti nella quale emerge con immediatezza il
nostro essere profondo, e si espone indifeso allo sguardo dell’altro. Per
questo dalla sessualità può nascere molto bene ma anche molto male. Tutte le
culture umane lo hanno sempre saputo, e per questo hanno costruito
elaborate cinture protettive attorno a questa sfera, che manifesta con forza
radicale l’ambiguità del nostro essere. Immaginare allora che la conoscenza e
la fiducia reciproche che la coppia genitoriale costruisce con fatica, tempo,
attenzione, cura reciproca, a partire dal rapporto sessuale, immaginare che
tale conoscenza e fiducia possano essere estese all'intera umanità “libera dai
tabù” è davvero la povera utopia di chi non sa nulla dell’essere umano.
Riassumendo: il comunismo della
famiglia, l’unico comunismo realmente esistente dal neolitico in poi, esiste
grazie alla fiducia e alla conoscenza reciproca basate su specifici rapporti
umani (il rapporto dei componenti la coppia genitoriale, il rapporto fra
genitori e figli, il rapporto fra fratelli e sorelle, e così via) che sono
possibili solo grazie al pieno coinvolgimento reciproco del tempo di vita. Ma
questo non è possibile con gli altri membri di una società che non sia una
piccola tribù. In definitiva, una volta che è chiaro come la famiglia sia
l’unico comunismo realmente esistente, e perché può esserlo, appare anche
chiaro che un’intera società appena più ampia di una piccola tribù, non potrà
mai essere una società comunista.
Il meglio che possiamo sperare è
dunque di vivere una vita familiare improntata all'affetto e alla fiducia, per
chi ci riesce, e di regolare i rapporti umani al di fuori della famiglia
secondo le regole di cortesia e correttezza di volta in volta stabilite dal
costume e dalle leggi. Così si sono organizzate tutte le società umane dal
neolitico in poi, ed anche l’ultima arrivata, la società borghese. In mancanza
di meglio, non c’è motivo per cambiare questo schema. Questo non significa
accettare l’esistente o perorare il ritorno della famiglia tradizionale
(qualunque essa sia). Il modello di vita borghese, con la sua scoperta della
libera soggettività individuale, è una grande conquista rispetto alla quale non
si vedono al momento prospettive di superamento rivoluzionario, ma questo non
significa che al suo interno non siano possibili miglioramenti. In particolare,
i rapporti umani nella società civile e nella famiglia stessa possono
certamente migliorare moltissimo grazie al miglioramento delle condizioni di
vita: è stata soprattutto la lotta per la sopravvivenza a rendere l’uomo un
lupo per l’uomo, e il suo superamento grazie al benessere diffuso nella seconda
metà del Novecento ha permesso drastici miglioramenti nei rapporti fra le
persone, come il raggiungimento di una sostanziale parità di diritti fra uomo e
donna e di una maggiore vicinanza fra genitori e figli.
Riassumendo: non ci sarà mai il
comunismo, ma è possibile pensare a una società dove i rapporti fra gli esseri
umani siano sempre meno conflittuali. È possibile pensare di fare a meno del
comunismo e vivere sereni.
III. Questa possibilità sembra però
negata dagli sviluppi attuali del capitalismo ormai mondializzato, cioè dalla
incipiente crisi di civiltà della quale abbiamo parlato all'inizio. Da una
parte il capitalismo contemporaneo ha ritrattato il “compromesso
socialdemocratico” del “trentennio dorato” seguito alla Seconda Guerra
Mondiale, secondo il quale i ceti subalterni ottenevano un livello accettabile
e crescente di benessere e sicurezza in cambio della rinuncia ad ogni velleità
anticapitalistica. Il compromesso entra in crisi negli anni Settanta, e a
questa crisi i ceti dirigenti rispondono con globalizzazione e neoliberismo,
che in pratica significano distruzione del benessere e della sicurezza per
larghe fasce della popolazione, aumento senza fine delle disuguaglianze, erosione
del legame sociale. A questo si aggiunge il fatto che le nostre società hanno
ormai raggiunto e superato i limiti ecologici del pianeta, e le conseguenze di
questo, a partire dal cambiamento climatico, stanno ormai diventando evidenti a
tutti. In sostanza l’attuale organizzazione sociale ed economica del mondo ha
imboccato la strada della distruzione della società e della natura. Tutto ciò
configura, come si diceva all'inizio, uno scenario di declino di civiltà,
rispetto al quale non sembrano visibili forze in grado di imporre il drastico
cambiamento di direzione che sarebbe necessario.
Bisogna allora chiedersi se sia
possibile una vita decente sapendo di vivere in un crepuscolo paragonabile alla
fine del mondo classico, e sapendo che nessun radioso futuro comunista
riscatterà il grigio presente che viviamo. Per riflettere su questo, può forse
avere interesse ricordare le vicende di Severino Boezio e Aurelio Cassiodoro.
Intellettuali di formazione classica, latini e cristiani nei tempi ferrigni che
seguono la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, cercano entrambi di innestare
il loro retaggio culturale nella nuova realtà dei regni romano-barbarici, e per
questo collaborano con il re goto Teodorico, assumendo alte cariche nello
Stato. Ma Boezio sarà coinvolto nelle trame di corte e ne verrà stritolato:
accusato di congiurare contro il re finirà in carcere per essere poi
giustiziato. In carcere, in attesa della fine, scriverà quel “De consolatione
philosophiae” che diventerà uno dei testi più noti del nostro medioevo, e
adempirà quindi, nonostante la fine tragica, al suo compito di conservare e
trasmettere elementi della cultura antica nei tempi nuovi. Cassiodoro avrà
invece una vita lunghissima, attraverserà quasi tutto il VI secolo sempre
svolgendo incarichi politici e diplomatici, sopravviverà alle congiure di
palazzo del regno gotico e alle devastanti guerre greco-gotiche, per ritirarsi
infine nel monastero di Vivarium, in Calabria, dedicandosi con gli altri monaci ad una proficua attività di ricopiatura di manoscritti. Ed è anche
questo un modo di assolvere il proprio compito.
Nei tempi bui che ci aspettano noi
possiamo cercare di svolgere un compito analogo. In primo luogo sperare di non
essere travolti, di salvarci la vita. Che non vuol dire banalmente
sopravvivere, ma sopravvivere rimanendo persone decenti. In secondo luogo,
“ricopiare antichi manoscritti”, che è metafora dello sforzo di portare al
futuro elementi di civiltà. Sperando e pregando di non essere sottoposti alla
prova atroce di Boezio, ma di vivere una vita operosa come quella di
Cassiodoro. Ed è questa, alla fine, la speranza che ci sembra lecito mantenere
accesa, in un mondo senza speranza.
Marino Badiale, Genova, gennaio
2019
Nota: L’idea fondamentale
dell’identità fra comunismo e famiglia la devo all’amico Paolo Di Remigio
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