(Riceviamo dall'amico Paolo di Remigio, e volentieri pubblichiamo, questo intervento su Negri. L'intervento era già apparso in "Appello al popolo". M.B.)
Il crepuscolo di Toni Negri
(P.Di Remigio)
Nel dicembre 2016 Toni
Negri ha pubblicato un testo di una precedente conferenza, dal titolo
enigmatico ‘Pour en finir avec la souveraineté?’,
in italiano ‘Per finirla con la sovranità?’[1].
Il discorso di Negri, povero di conoscenza storica e di ragione filosofica, si
risolve in errori sul passato, illusioni sul presente e rifiuto di ogni più
sacro vincolo dell’umanità; la sua lettura attenta può nondimeno essere utile a
mostrare la debolezza di ogni discorso politico che osi considerare lo
Stato-nazione un patetico residuo del passato, e può contribuire a chiarire il
concetto di sovranità e la sua stringente attualità[2].
Comincerò
dalla critica dell’autonomia del politico (nazionale) sotto la cui bandiera si
muovono varie posizioni, tutte nostalgiche della sovranità.
Parlando di nostalgia della sovranità, Negri fa un
doppio errore: di contenuto, in quanto riduce la sovranità nazionale a un
istituto che continuerebbe ad esistere solo nei libri di storia, mentre la realtà
attuale è fatta di Stati con i loro territori, le loro leggi, i loro magistrati
e i loro eserciti. Parlare di ‘nostalgia’, non di ‘esigenza’, di sovranità significa
avere trasformato in una fase di storia universale le manovre imperialistiche svoltesi
all’interno della UE, volte invece a sopprimere la sovranità della sola Europa
meridionale in favore di quella settentrionale. È un grave errore di
valutazione, la cui sorgente è l’illusione internazionalista, questa sì
definitivamente passata – non solo perché non ci sono al momento rivoluzioni internazionaliste
né soggetti politici ad averla in programma, ma anche perché tutte le
rivoluzioni internazionaliste hanno mostrato di avere una determinazione
essenzialmente nazionale (russa,
cinese, cubana …), così che l’internazionalismo è sempre stato nel migliore dei casi una vuota retorica, nel peggiore
l’ideologia dell’imperialismo sovietico. L’errore di contenuto va insieme a un errore
di forma. Ogni confutazione ha un metodo: deve iniziare dalla verità del concetto
da confutare e finire col mostrarne la falsità. Invece Negri, dopo aver promesso
con il titolo della sua conferenza un’argomentazione che confuti il concetto di
sovranità, dunque un’argomentazione che termini
con l’annullamento del concetto, inizia
presupponendolo già nullo.
“L’autonomia
del politico” è infatti oggi da molti concepita come una forza di redenzione
per la sinistra – di fatto la ritengo una maledizione dalla quale rifuggire.
Uso la frase “autonomia del politico” per designare argomenti che pretendono che
il processo decisionale in politica possa e debba essere tenuto al riparo dalle
pressioni della vita economica e sociale, dalla realtà dei bisogni sociali.
La sovranità
non ha nulla a che fare con la pretesa che la politica debba essere tenuta al
riparo dalle pressioni della vita economica e sociale, dalla realtà dei bisogni
sociali: chi mai ha potuto sostenere questa posizione? ‘Sovranità’, dal punto
di vista interno allo Stato, significa che la politica regola il mercato
capitalistico in modo da porlo al servizio dei bisogni sociali.
Negri
distingue tre tipi di ‘nostalgici’ della sovranità.
Alcune delle
figure contemporanee più intelligenti che propongono l’autonomia del politico
lo concepiscono come un mezzo per restaurare il pensiero politico liberal (di
sinistra) strappandolo al dominio ideologico del neoliberismo, come antidoto
non solo e non tanto alle politiche economiche distruttive del neoliberalismo,
ivi comprese privatizzazione e deregulation, ma piuttosto ai modi nei
quali il neoliberalismo trasforma e domina il discorso pubblico e politico: il
modo nel quale esso impone una razionalità economica sopra il discorso politico
e mina ogni ragionamento politico che non obbedisca alla logica di mercato. […]
Sostenere l’autonomia del politico in questo contesto è dunque un modo per
rifiutare il dominio della logica di mercato e per restaurare il discorso
politico della tradizione liberal, dei diritti, della libertà e
dell’eguaglianza – dell’égaliberté, come la chiama Etienne Balibar – che
ha forti risonanze nell’opera di Hannah Arendt e che va indietro almeno
fino a John Stuart Mill. Si può riconoscere che queste critiche liberal del
neoliberalismo sono oneste ma si deve aggiungere che sono inadeguate ad un
progetto democratico. Da un lato, nozioni politiche di libertà ed eguaglianza
che non attacchino direttamente le basi economiche e sociali dell’ineguaglianza
e della mancanza di libertà, in particolare le leggi della proprietà e del comando
sopra la nostra vita produttiva e riproduttiva, fan da sempre prova della loro
inadeguatezza. D’altro lato, la potenzialità ovvero l’esistente capacità della
gente di governarsi collettivamente, sarà in questa luce sempre oscurata e,
quindi, quella vera democrazia che è costituita da una moltitudine capace di
determinare decisioni politiche, apparirà sempre e solo una nobile idea per
qualche momento di un futuro indefinito. “I teorici liberal che guidano il
treno dell’autonomia del politico non arriveranno mai a destinazione”:
sottolinea con enfasi un mio amico.
La prima
specie di nostalgia sovranista è l’esigenza sentimentale di tenere separato
discorso politico e discorso economico per timore che il totalitarismo di
mercato elimini il politico e la prospettiva della libertà e dell’uguaglianza. La
critica di Negri, che questi nostalgici non attaccano le basi strutturali che
producono ineguaglianza e non libertà e non hanno fiducia nelle virtù
democratiche delle masse, non tocca però il cuore della questione perché, come
i nostalgici che essa attacca, non riflette su libertà e uguaglianza: crede che
si possa operare un’unica manovra per ottenerle entrambe; quest’unica manovra
tuttavia non esiste perché libertà e uguaglianza sono in contrasto essenziale.
È evidente che la libertà, intesa nel senso comune come autonomia individuale, produce ineguaglianza e che
l’uguaglianza produce limitazione della libertà individuale. Come è proprio dell’essenza
del mercato tenere ferma la libertà
del singolo e produrre ineguaglianza così è proprio dell’essenza dello Stato tenere ferma l’uguaglianza e
limitare l’autonomia del singolo. Non si può sfuggire a questo dilemma, lo si
può soltanto comporre nell’idea di Stato costituzionale. Così, quando rifiuta
con orrore la sovranità dello Stato, senza che se ne accorga, Negri rifiuta
l’uguaglianza e si avvicina pericolosamente al liberismo, con il quale in
effetti condivide l’idea che gli individui siano in grado di organizzare
spontaneamente la società e l’economia. Il fatto che Negri non chiami ‘mercato’
questa organizzazione spontanea e non ne riconosca il potenziale di
ineguaglianza non depone a suo favore: significa soltanto che non disponendo di
una intuizione della realtà umana, si ferma al sentimento rousseauiano e che
non ha la coerenza del liberismo. Egli non pensa la libertà e l’uguaglianza, le
sogna; quindi crede che possano essere rimosse le basi economiche e sociali
dell’ineguaglianza e della mancanza di libertà. Se però si rimuovesse
l’illibertà individuale (cioè lo Stato) si produrrebbe l’ineguaglianza assoluta
e se si rimuovesse l’ineguaglianza (cioè il mercato) si produrrebbe
l’illibertà; se si rimuovessero entrambe l’uomo tornerebbe animale, né libero,
perché cosa tra le cose, né uguale, perché preda delle differenze naturali. Lo
Stato costituzionale sovrano le pone entrambe in quanto garantisce
un’uguaglianza qualitativa
autorizzando l’ineguaglianza quantitativa,
ossia fissa la misura della libertà individuale così da consentire a ciascuno
l’uguaglianza essenziale.
Un
secondo gruppo di argomenti viene da sinistra, da autori egualmente ben
intenzionati ma egualmente inefficaci, ed è diretto a contrastare la faccia
economica del neoliberalismo, i suoi progetti di privatizzazione e di deregulation.
Per questo gruppo l’autonomia del politico significa, in primo luogo,
ritorno a qualche forma di controllo pubblico e statale. In risposta alla
globalizzazione neoliberale che ha eroso i poteri della sovranità nazionale,
questi autori pensano ad un ritorno ai meccanismi keynesiani e/o socialisti per
riaffermare i poteri dello Stato sull’economia e quindi per contenere i
mostruosi poteri della finanza e delle corporations. … Noi guardiamo
agli autori di questa versione dell’autonomia del politico come alleati e i
loro propositi ci sembrano simpatici ma – essendo noi, direi per natura,
incapaci di esprimere positivamente la desiderabilità dello Stato e
dell’autorità pubblica – troviamo che gli appelli contemporanei a favore di un
controllo statale keynesiano o socialista, sebbene presentati in maniera
eminentemente pragmatica, siano essenzialmente poco realisti e realizzabili.
Non esistono più le condizioni sociali e politiche sulle quali questi progetti
erano basati nel ventesimo secolo. Sotto la regola neoliberale i sindacati
tradizionali e le organizzazioni della classe operaia sono stati distrutti,
scannati e le associazioni che stanno alla base della cittadinanza politica
sono state svuotate al punto da generare nostalgia persino tra le élites della
destra.
Negri confessa
il suo approccio sentimentale, immaturo, al concetto di Stato e autorità
pubblica: un’intolleranza per natura;
ma un filosofo non può rifiutare nulla in base alle sue idiosincrasie, deve
criticare e conservare il criticato in una sintesi superiore. La sua confutazione
dei nostalgici economici della sovranità è un semplice rigetto senza vera
argomentazione, e soffre di una doppia insufficienza. Innanzitutto di teoria
economica, quando sopravvaluta la forza dei sindacati dimenticando che essa
svanisce se esplode la disoccupazione: la forza degli operai e dei loro sindacati
è la piena occupazione; questa è distrutta dalla libera mobilità dei fattori
produttivi; quando il capitale è lasciato libero di aprire le fabbriche nei
luoghi del globo dove più basso è il costo del lavoro, quando esso costringe lo
Stato ad abolire i confini per importare manodopera semischiavile, si produce
una disoccupazione così alta che i sindacati non possono più difendere i
lavoratori dalla povertà e dalla precarietà. Ma c’è una seconda insufficienza.
Negri trascura che la vittoria del mercato, cioè dell’ineguaglianza, sullo
Stato è basata su un dato storico, è
effetto del crollo dell’URSS. È quasi ovvio constatare che la scomparsa del
nemico esterno indebolisce la sostanzialità dello Stato e il suo potere di
uguagliare, e permette alla società civile di affermare il suo istinto
anarchico; nel nostro caso, dal momento in cui gli Stati Uniti non hanno
sentito più la minaccia sovietica, la loro società e quelle sotto la loro
influenza si sono sfaldate in preda ad egoismi ed avidità incontrollati. Al
contrario di quanto pensa Negri, entrambi i motivi di sconfitta della classe
operaia, essendo storici, sono però reversibili: le politiche di deflazione
salariale alla lunga non sono sostenibili perché provocano crisi da
sovrapproduzione e frenano lo sviluppo della forza produttiva, mentre la fine
delle rivalità internazionali nell’impero mondiale è un evento eccezionale, in
realtà già estinto. Negri deriva queste sue insufficienze dallo spirito del
marxismo, che dopo aver esagerato l’asprezza del conflitto di classe come guerra,
non ha più sensibilità per la guerra tra gli Stati.
Infine un
piccolo gruppo di intellettuali di sinistra si eccita per l’autonomia del
politico in forme di avanguardia, spesso presentate come risposta
all’incapacità dei movimenti sociali odierni, movimenti orizzontali, a
rovesciare le strutture capitaliste esistenti e a porsi il problema di prendere
il potere. … Come ci sembra di aver già detto, dato l’ampio sviluppo di sistemi
immunitari sulla scena dei movimenti, ci sembra impossibile oggi – sia resa
grazia a Dio! – imporre comitati centrali e leadership tradizionali sopra
movimenti sociali dinamici e creativi.
I nostalgici
della sovranità di terza specie sognano dei leader che impediscano ai
‘movimenti’ no-global di rifluire nel nulla. Evidentemente non hanno capito che
questi movimenti con i loro bravi black
block hanno quasi sempre un padrone, cioè l’oligarchia atlantica e i suoi
servizi segreti che li suscitano, li controllano e li dissolvono. Negri non
solo non riconosce che questi movimenti sono masse disorientate manovrate dalle
oligarchie, ma coglie l’occasione per farsi illusioni sulla loro dinamicità e
creatività.
Queste
diverse affermazioni dell’autonomia del politico, dai liberal fino alla
sinistra radicale, non esprimono soltanto il fatto di essere timorose e quasi
ipnotizzate dall’autorità del neoliberismo, ma anche una fede nella sovranità
come un baluardo per restaurare il potere della sinistra. È vero, come d’altra
parte ammettono molti di questi autori, che il neoliberismo ha minato i
tradizionali poteri politici sovrani. Non bisogna guardare molto lontano per
registrare la maniera nella quale in Europa le forze del capitalismo globale
hanno amministrato la crisi dal 2008 e la forma, alquanto inelegante, con la
quale i leader del capitale finanziario, andando oltre ogni ostacolo,
attraverso la pressione dei “mercati”, hanno imposto la loro volontà non solo
sugli Stati debitori ma su tutti i Paesi europei. Le società europee sono state
letteralmente ricostruite seguendo i criteri gerarchici creati dal potere del
denaro. Ne sono venute nuove configurazioni coercitive della divisione del
lavoro (precarietà, disoccupazione di massa ecc …), l’organizzazione aleatoria
ma sistematica delle infrastrutture produttive, le scale salariali variabili
nel riordino delle norme della riproduzione sociale, e i diversi disegni e le
misure alternative rigidamente proposte, nei programmi di exit dalla
crisi, ma che in realtà servivano per approfondire, attraverso la crisi, le
divisioni di classe. Il capitale finanziario sotto comando neoliberale si è
così liberato da ogni bisogno di rispondere alle tradizionali strutture
politiche della rappresentanza e del funzionamento dei governi nazionali: meccanismi
elettorali, strutture giuridiche fondamentali, e chi più ne ha più ne metta.
È vero, dice
Negri, che siamo in presenza dello strapotere del mercato capitalistico, ma
pensare che lo Stato possa essere restaurato è del tutto illusorio: non solo i
sindacati, la stessa loro sovranità è estinta per sempre. Questa sua valutazione
deriva però dalla propaganda delle oligarchie finanziarie ed è fattualmente
erronea: soltanto in Europa meridionale
il potere finanziario si è presentato in forma ‘alquanto inelegante’ con la
lettera di Trichet e Draghi al governo italiano oppure con i ricatti della BCE
contro il governo greco; altrove i governi hanno attuato misure non solo
attente all’interesse nazionale ma con corollari decisamente imperialistici. In
altri termini, i capitalismi anglosassoni e nord-europei hanno conservato un
carattere nazionale: da una parte i loro governi controllano le istituzioni
sovranazionali, come l’FMI o la Commissione europea, in modo da condizionarle a
proprio vantaggio, dall’altra corrono in aiuto dei loro capitalismo salvandone
le banche con denaro pubblico, limitando la mobilità dei capitali e delle
persone in nome dell’interesse nazionale, conducendo guerre economiche contro i
capitalismi meridionali per distruggerne la concorrenza. Gli Stati
settentrionali prendono ordini dal mercato solo finché questo funziona
regolarmente; quando la sequenza dei suoi fallimenti rischia di travolgere
l’economia, essi intervengono nell’economia a immediato vantaggio delle
oligarchie, certo, ma violando l’ortodossia liberale, intervengono cioè come
Stati, e questo prova che essi non sono affatto estinti. Che gli Stati
meridionali abbiano obbedito all’ideologia liberale, abbiano liberalizzato e privatizzato
lasciando distruggere e fagocitare la
loro base produttiva a vantaggio degli Stati del nord, che invece sono stati
attentissimi a difendere il carattere nazionale del loro capitalismo, va dunque
spiegato non con categorie economiche o di filosofia della storia, ma con la
loro debolezza politica. Credere come fa Negri che la debolezza politica di
questi Stati sia l’estinzione dello Stato in generale, significa aver perso la
bussola.
Quei richiami alla sovranità sono dunque attualmente ineffettuali.
Ma anche pericolosi. Pericolosi perché perdono di vista che cosa è stata la
sovranità nella sua storia e ciò che ancora vuole essere. Essa ha voluto sempre
e solo staccare il potere dai soggetti, centralizzare il potere di decisione
contro i soggetti, imporre il dominio sulle loro vite, mandarli a morire in
guerra. Il problema che abbiamo, è quello di difenderci dalla sovranità.
Abbiamo cercato di farlo, nei secoli della modernità, limitandola, togliendole
almeno parte del carattere “assolutista”, ancor peggio, “coloniale” che essa
aveva man mano assunto. Ma quei modi di controllarla si sono consumati. Non
vorrei qui fare il prof. di storia del pensiero politico e ancora una volta
mostrare come due idee regolative del mondo borghese per organizzare (e cioè
eventualmente per limitare) la sovranità – quelle legate alla proprietà ed alla
libertà e quelle legate alla rappresentanza – si siano trasformate da illusorie
forme di controllo del sovrano in figure del suo dominio. Della prima dannata
conversione, quella della proprietà e della libertà borghese nella struttura
del comando capitalista attraverso il mercato, abbiamo già cominciato a dire.
Ma della seconda, quella della rappresentanza che costituisce la sovranità, c’è
qualcosa da aggiungere.
È subito evidente l’insufficienza di questo
argomentare: il potere della soggettività di cui parla Negri non è pre-statale,
ma è costituito insieme allo Stato. I soggetti nella loro singolarità infatti non
vanno oltre il desiderio del potere;
solo uniti lo acquisiscono, cioè arrivano a quella autosufficienza di cui parla
Aristotele: solo staccando da sé il loro desiderio impotente di potere essi
acquisiscono potere. Il potere sovrano dello Stato sui soggetti si chiama
dunque consenso, è cioè generato da
una volontà di obbedienza come mezzo per raggiungere effettivo potere. Solo con
una mediazione, solo sottomettendosi alle leggi e alle istituzioni che le fanno
valere, il soggetto ha potere; il potere immediato del soggetto è invece, come dovrebbe
sapere Negri, violenza sterile, che giustamente suscita la violenza dei poteri
dello Stato, cioè la pena. La centralizzazione del potere di decisione nello
Stato è dunque la costruzione del suo consenso e non può essere svolto per
definizione contro i soggetti. La regressione dalla sovranità, il ritorno del
potere ai soggetti, è invece la riproposizione della miseria dello stato di
natura hobbesiano, a tal punto abominevole che perfino una sovranità dello
Stato che fosse in larga misura arbitraria gli sarebbe comunque preferibile. – La
grave incomprensione dell’essenza dello Stato spinge Negri ad avvolgersi subito
dopo in una doppia contraddizione. All’inizio dell’articolo aveva sostenuto
(erroneamente dal nostro punto di vista) che il capitale finanziario esercita
un controllo così assoluto sullo Stato, che parlare di ‘autonomia del politico’
è velleitario; ora scrive invece che dalla sovranità dello Stato dobbiamo
difenderci e non abbiamo i mezzi per farlo. La prima contraddizione è dunque
che lo Stato da una parte è dato come sopraffatto dal mercato, dall’altra come
onnipotente. La seconda contraddizione è che la proprietà privata appare da un
lato come strumento di limitazione
del potere dello Stato, dall’altra come strumento
del potere dello Stato. Tutta questa confusione perché, dopo aver sostenuto
che la sovranità dello Stato é oppressione, Negri fa sbadatamente valere il
reciproco, che ogni oppressione, anche quella economica, è sovranità dello
Stato.
Vale la pena
qui di ricordare l’imbroglio montato da Rousseau. Che, da un lato, fa
partecipare gli individui alla fondazione del pubblico sovrano, che così
definisce: “come la natura concede a ciascun uomo un potere assoluto sulle sue
membra, il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto su tutte le
sue; ed è questo medesimo potere che, diretto dalla volontà generale, porta il
nome di sovranità” – dall’altro maledice la proprietà privata – “il primo uomo
che disse questo è mio”(;) ma il buon Rousseau, che è stato così lucido e
severo quando identifica la proprietà privata come sorgente di ogni corruzione
e causa dell’umana sofferenza(,) inciampa subito – quando confronta la
proprietà e quella volontà generale che gli aveva risolto il problema della sovranità.
Dato che la proprietà privata genera diseguaglianza, come si può creare
(inventare) un sistema politico nel quale ogni cosa appartenga insieme a
ciascuno e a nessuno (come avveniva, meglio, come avrebbe dovuto avvenire,
in quella volontà generale che attribuiva a ciascuno e a nessuno la sovranità)?
Qui la trappola si chiude sul buon Jean Jacques. Se il concetto di pubblico
è posto infatti per rispondere alla domanda: che cosa appartiene a ciascuno e a
nessuno? – e la risposta di Rousseau: è quanto appartiene allo Stato, in questo
caso Rousseau ha inventato solo qualcosa che adorna, imbellisce, mistifica la
continuità della presa di possesso del comune da parte di individui proprietari.
E cerca di convincerci che essa ci includa. È legittimo che il pubblico assuma
i nostri diritti e prenda decisioni riguardo a quello che produciamo – così
avanza il ragionamento – quando il “noi” sia di nuovo sospinto (malgrado la
volontà generale) verso una base individuale, verso la proprietà privata –
quella stessa base dalla quale eravamo trionfalmente usciti in nome della
volontà generale. Ecco l’implacabile logica del pubblico pragmatismo.
Negri
ripropone in modo alquanto confuso la vecchia critica contro lo Stato esposta
nella ‘Questione ebraica’ di Marx: l’uguaglianza dei diritti e delle leggi
dello Stato sorge su una base di ineguaglianza economica e la conferma;
quell’uguaglianza è dunque ingannevole come la fede nell’uguaglianza in
Paradiso dei cristiani che consacra la loro disuguaglianza in questa valle di
lacrime. Questa critica non ha nessun
valore, perché ignora che l’uguaglianza ha senso soltanto come relazione tra
disuguali e che viceversa i disuguali sono tali solo sulla base della loro uguaglianza,
che insomma uguaglianza e disuguaglianza non sono determinazioni indipendenti,
ma relazioni all’altro che pur escludono. Marx, e con lui Negri che sembrerebbe seguirlo, imputano dunque come
difetto allo Stato e alla religione la dialettica immanente nel concetto stesso di uguaglianza. Ma Negri
aggiunge di suo la sua solita confusione. Innanzitutto l’accusa di imbroglio al
‘buon Jean Jacques’ non sta in piedi. Per Rousseau, con il contratto sociale
gli individui tramite l’alienazione completa di se stessi costituiscono un individuo
comune, lo Stato sovrano, da cui fanno rifluire a ciascuno la cittadinanza e i suoi
diritti: la sovranità dello Stato è la rinuncia degli individui particolari
alla propria sovranità; con questa rinuncia, in quanto essa è totale e riguarda
ogni individuo, essi non
costituiscono però un individuo particolare a cui sono asserviti, ma un
individuo universale di cui ognuno è membro come legislatore, la volontà generale, che esprime il lato
universale della libertà di ciascuno e dà a ciascuno il riconoscimento senza il
quale essa resterebbe un puro desiderio. Ne segue che la proprietà privata non è
un’appropriazione naturale e
conservata con le unghie e i denti fino a quando se ne ha la forza, ma una libertà generata e protetta
dall’assemblea sovrana, dunque ad essa sottoposta: non naturale e assoluta e in
contrasto con il politico, ma mediata e condizionata dalla volontà generale –.
Tutto questo è vero e coerente, e infatti Rousseau, con la sua idea che libertà
e diritti siano non naturali, ma effetto di un’alienazione di libertà e diritti
naturali (ossia dell’arbitrio), non è annoverato tra gli autori graditi al
liberalismo. Un’ulteriore confusione è l’impossibilità di capire se Negri stia ancora
parlando con ingiusto disprezzo di Rousseau, oppure se stia proiettando verso
una soluzione collettivista quella che egli ritiene la contraddizione di
Rousseau.
Gli
intellettuali conservatori hanno da molto tempo smascherato le pretese
democratiche della rappresentanza politica ed il Rousseauismo romantico e
sebbene i loro argomenti siano stati spesso rivolti contro la stessa
democrazia, essi contengono un nodo di verità. … si comprende quanto
sostanzialmente falsa sia la richiesta di una democratica rappresentanza
politica.
Negri sembra
ignorare che per Rousseau il popolo non può delegare la sua sovranità a
rappresentanti; la sua polemica su questo punto rischia di essere un semplice
fraintendimento. – Se la sovranità fosse oppressione, certo, non solo la rappresentanza
democratica, ma nessun mezzo sarebbe idoneo a recuperare la libertà. Ma così
non è: lo Stato presuppone l’alienazione dell’arbitrio particolare e la sua
trasformazione in volontà generale legiferante secondo l’interesse comune. La prima garanzia della libertà
individuale è dunque che i poteri pubblici siano esercitati secondo leggi universali.
La democrazia rappresentativa, poi, non è affatto un modo impotente per
allentare l’oppressione, ma un metodo per assicurare alle leggi effettiva
universalità, ossia l’espressività del bene comune. Che essa non sia pura
apparenza lo dimostra l’enorme sforzo oligarchico di dirigere le elezioni con
il controllo dei mezzi di comunicazione.
Ciò detto,
permettetemi di ritornare su un punto sul quale altre volte ho cercato di porre
un’alternativa al potere sovrano: di tornare cioè al concetto di potere
costituente. È un atto rivoluzionario, un evento concepito come un’eccezione
giuridica che esprime ex nihilo un nuovo ordine politico: questa la sua
definizione consueta. La rivoluzione americana o quella francese o quella russa
ne costituiscono l’esempio più citato. L’atto di “prendere il potere” è qui
definito dall’unità spaziale e temporale dell’evento rivoluzionario vittorioso.
La sovranità del potere costituente deriva dunque, in termini giuridici,
precisamente dal suo carattere di eccezionalità.
Il potere costituito
persegue l’interesse comune, la conservazione del bene comune, il potere
costituente è violenza. Nessuno può negare che quando l’ordine civile sia
sentito dai cittadini come scandalo e disordine, cioè come violenza, la
violenza rivoluzionaria abbia la sua necessità; ma è altrettanto vero che, come
sarebbe preferibile che non ci sia castigo perché non c’è stato delitto, così è
preferibile che non ci sia rivoluzione perché non ci sono stati scandalo e
disordine. L’opposizione tra potere sovrano e potere costituente è quella tra
pace e guerra civile: il rigetto istintivo della pace civile e la simpatia per
la guerra civile è l’istinto satanico, l’atteggiamento accusatorio che diffama
l’ordine in quanto tale come sommo disordine, che abbandona l’essere della legalità
per gettarsi nella casualità cieca dell’evento. Questa celebrazione
dell’illegalità è l’ideologia del fascismo intransigente della prima ora,
Farinacci più che Marx. Scandalizza la visione edulcorata che offre della
guerra civile, non l’orgia di assassini, sevizie, stupri, saccheggi e
distruzioni quale essa è, ma un’innocua ebbrezza carnevalesca, una goliardata,
con cui si infrangono schemi venuti a noia. Il meno che si possa dire è che a
Negri manca la fantasia – ma si potrebbe anche dire qualcosa di più.
Ora, quella
mia assunzione è stata criticata negli ultimi decenni, per esempio da Giorgio
Agamben e da Jacques Derrida. Per l’uno e per l’altro si poteva criticare in
maniera convincente la nozione giuridica di potere costituente nella sua
pretesa di separarsi dal potere costituito (per dirlo con Derrida: “la violenza
della fondazione della legge conserva la violenza della conservazione della legge
e non può rompere con essa”).
Il rifiuto
del diritto come essenzialmente opposto alla giustizia è contenuto in una
pagina di Benjamin – certo non delle migliori. Nella pace civile la violenza della
conservazione della legge è la pena che colpisce l’autore del delitto, è dunque
un avvenimento eccezionale per
definizione; se non lo fosse, non ci sarebbe pace civile, ma guerra civile. La
legge si conserva non con la violenza, ma in quanto gode di consenso e gode di
consenso in quanto i cittadini vi vedono soddisfatte le loro aspettative
essenziali. Ma c’è un secondo errore nella disgraziata proposizione di Derrida:
credere che la violenza fondi la legge; così non è: la violenza fonda la
vendetta, la legge è fondata dall’accordo. Negri non scorge l’idiozia della battuta
di Derrida perché la condivide; anche per lui lo jus non è iniuria solo
quando è summum, ma in ogni caso; la
giustizia è solo nell’evento rivoluzionario. Infatti accetta la critica di
Agamben e Derrida:
E tuttavia,
una volta accettata questa critica, resta valida la concezione del potere costituente
che noi avevamo proposto, perché impiantata non sulla sua figura giuridica ma
sulla materialità del processo rivoluzionario.
Per paura
dello ius, cioè del diritto, il
potere costituente di Negri diventa processo rivoluzionario materiale, cioè non costituente, dunque violenza fine a
se stessa. Negri vive in un mondo rovesciato in cui la pace civile è il
contrario di sé, cioè ‘vera’ violenza, la guerra civile non è guerra ma la
‘vera’ pace; per evitare che la guerra civile, cioè la ‘vera’ pace, cessi e dia
luogo all’ordine, che per Negri è la ‘vera’ violenza, occorre che la guerra
civile non costituisca nulla, non vada oltre se stessa. Si tratta, come si
vede, di una concezione carnevalesca della rivoluzione.
Noi possiamo
così passare dal potere costituente all’azione costituente, dal potere
costituente come concetto giuridico al potere costituente come dispositivo
politico. Questo passaggio ci offre una base sovversiva che svuota ogni legame
alla nozione di un evento unificato e propone il processo rivoluzionario come
una macchina aperta e plurale che produce progressivamente le sue norme. Al
fine di riconquistare utilità al concetto di potere costituente, oltre le sue
configurazioni nel pensiero giuridico e politico, è necessario sempre differenziare,
riconoscere la sua eterogeneità sociale e la sua durata temporale, configurarlo
cioè come una potenza continua che si replica ed istituisce sempre nuove
figure.
Dalla
realtà, intesa come accadere regolato da leggi, Negri regredisce all’ebbrezza
del caos e lo chiama ‘dispositivo politico’, dimenticando che ‘politico’ è
derivato da ‘polis’, cioè Stato. Il potere costituente è privo di unità, aperto,
plurale; le sue norme, anziché le regole del suo divenire, sono prodotte
progressivamente dal processo, sono cioè non-norme. Il processo rivoluzionario
di Negri non è suscitato dal degenerare dell’ordine sociale nel caos, è esso stesso il caos contro l’ordine
sociale, non il castigo che annulla il delitto, è il delitto che accusa il
diritto e lo annulla. –Certo, produce una certa impressione che un professore
di un’università statale, regolarmente stipendiato e poi pensionato con il
denaro dei contribuenti, che è stato parlamentare e non si è fatto scrupolo di
accettare il vitalizio, che si fa pagare i libri che scrive e le conferenze che
tiene, possa ridurre la teoria politica alla cieca violenza di un’azione
sovversiva senza unità e senza norme, che può avere come unico risultato quello
di destabilizzare lo Stato in favore di potenze straniere.
Insistiamo
qui su alcuni concetti-chiave, meglio, su alcune nuove condizioni politiche,
per ridefinire il potere costituente oltre il suo modello moderno. In primo
luogo, si deve considerare la radicale differenza di come gli apparati
giuridici ed amministrativi sono posizionati rispetto a – e successivamente
assorbiti da – le strutture economiche della società dominata dal capitale
globale. La società come un tutto è progressivamente sussunta nei circuiti
dell’organizzazione economica e del comando capitalista, innanzitutto
attraverso l’azione del capitale finanziario che riorganizza la divisione del
lavoro a livello globale, si appropria profitto dalle forme materiali e
immateriali del lavoro sociale ed estrae rendita dalla produzione e riproduzione
della vita e dalla comunicazione/circolazione del valore. Il denaro è il
veicolo primario attraverso il quale la finanza comanda il “comune produttivo”
(productive commons), appropria il valore che esso produce e lo rende
funzionale allo sfruttamento ed alla gerarchia dell’organizzazione sociale.
Il capitale
globalizzato sussume innanzitutto la società. Giusto. Ma Negri non dice come,
perché questo gli toglierebbe ogni illusione sulla sua immagine di potere
costituente. Lo diciamo noi: con la libertà di movimento dei capitali e delle
persone, che intensificano la concorrenza
tra i lavoratori, spezzando ogni forma di opposizione sindacale e politica. Non
avendo mai recepito da Marx le constatazioni che la forza-lavoro è merce e che
i loro proprietari sono in una dura concorrenza che li rende ostili, questi
marxisti credono di trovare ovunque moltitudini immediatamente solidali e
organizzabili in potere costituente.
In secondo
luogo, la costruzione del mercato globale indebolisce i poteri degli
Stati-nazione e diminuisce la loro autonomia costituzionale. Gli Stati-nazione
mantengono importanti poteri giuridici, economici ed amministrativi,
evidentemente, ma essi sono progressivamente situati dentro, o anche
subordinati a strutture e istituzioni del governo globale, oltre che alle
domande del mercato capitalistico globale. Il denaro e la governance
globale sono incluse una nell’altra e supportano le strutture giuridiche della
società capitalistica globale.
Per comprendere
il fenomeno dell’asservimento del politico Negri avrebbe dovuto parlare non di
denaro, che non è un mezzo specifico
dell’economia capitalistica, ma di controllo
degli istituti che creano denaro, cioè delle banche centrali; con il loro
controllo, altrimenti detto ‘indipendenza della banca centrale’, le oligarchie
finanziarie tentano di controllare le economie e per loro tramite le società.
D’altra parte parlare di indebolimento del potere degli Stati-nazione è
improprio: certi Stati-nazione si
indeboliscono, in particolare quelli dell’Europa meridionale, che sono avviati
a un destino coloniale, e quelli del Medio Oriente, che hanno subito una catastrofica
destabilizzazione da parte del fondamentalismo islamico su mandato
dell’imperialismo anglosassone e dei suoi alleati. Proprio il mito
dell’indebolimento definitivo di tutti
gli Stati nazionali, che fa da supporto anche alla costruzione dell’Unione
Europea (di cui non a caso Negri ha sostenuto la costituzione poi bocciata dai
francesi) è strumento eccellente per abbandonare l’Europa meridionale al suo
destino coloniale. In questo indebolimento non c’è invece nessuna novità
essenziale. Gli Stati Uniti d’America dopo il crollo dell’URSS hanno creato un
impero mondiale. La mancanza di nemici esterni all’impero, com’è normale, ha
allentato la sua unità statale e ha permesso alle oligarchie private una più
forte indipendenza; di qui l’affermarsi del diritto privato a scapito del
diritto pubblico; ma poiché l’impero si era esteso all’intero globo il diritto
privato sembra essere diventato diritto internazionale. In altri termini, la
prospettiva di un impero mondiale e di una pace perpetua (appena disturbata da
operazioni interne ‘di polizia globale’) ha indebolito l’importanza dello Stato
rispetto alla società civile e questo indebolimento si è esteso negli altri
Stati. Estendendosi ha assunto però un significato affatto diverso: non più un
indebolimento del politico in favore dell’economico, ma un indebolimento della politica
e dell’economia degli Stati vassalli avviati in un percorso di declino
coloniale. Questa prospettiva ha infine resuscitato lo Stato-nazione e ha
suscitato un’alleanza contro l’impero anglosassone, e la situazione attuale è
quella di sempre, della rivalità tra Stati-nazione. Il declino temporaneo dello
Stato-nazione non ha dunque nulla a che fare con la filosofia della storia, non
può essere irrigidito come nuova fase di sviluppo del capitalismo o come
trasformazione biopolitica della società, è avvenire storico, un oscillare verso l’autonomia della persona privata che è
già declinato e ha suscitato l’oscillazione in direzione opposta, il ritorno
alle sovranità nazionali: la Cina, la Russia, l’India, l’Iran si sono infatti emancipate
dall’impero e tengono ferma la loro sovranità; un processo analogo si mostra in
Europa con la Brexit e negli Stati Uniti con l’elezione di Trump.
In terzo
luogo, nel processo di questa trasformazione biopolitica della società, le
figure della forza lavoro e della cittadinanza si sovrappongono con una tale
intensità che i conflitti sociali, economici e politici risuonano attraverso le
strutture del potere ed amplificano l’un l’altro. L’immersione del lavoro vivo
nella costituzione della soggettività politica crea una serie proliferante di
antagonismi che scorrono attraverso ogni realtà istituzionale. In questa
situazione il concetto di potere costituente espresso nella tradizione
giuridica moderna, come un potere originario incondizionato, comincia a perdere
il suo significato. Si potrebbe concludere a questo punto che forse varrebbe la
pena di abbandonare il concetto e smettere di parlarne. Pensiamo tuttavia che
far questo sarebbe privarsi di un importante strumento di comprensione
dell’espressione delle forze antagoniste e del loro potenziale per la
trasformazione sociale. È quindi meglio ridefinire il potere costituente alla
luce delle condizioni attuali.
Negri tenta
una traduzione del potere costituente, che, come abbiamo visto, consiste in una
sospensione carnevalesca dell’ordine costituito, nei termini dei movimenti
apolitici attuali. Il tentativo ha il vento in poppa e sfonda una porta aperta:
poiché non ha nessuna effettiva consistenza politica, ma consiste nella pura
eversività, il potere costituente è non solo traducibile nell’inconsistenza del
movimenti no-global, ma è immediatamente identico alle bravate dei black block.
Vediamo cosa
succede nelle lotte. Strappare il potere costituente all’autonomia del politico
al fine di congiungere insieme la critica del politico, dell’economico e del
sociale può essere riconosciuto chiaramente nei più forti movimenti che
agiscono contro l’ineguaglianza, le privatizzazioni e il potere della finanza.
L’espressione
è molto vaga; forse significa che la lotta dei movimenti, più che un carattere politico, anziché mirare alla presa
del potere statale, ha un significato innanzitutto economico e sociale, prende
di mira il potere economico dell’oligarchia liberale. Si tratta però di
affermazione che spacciano per progresso un arretramento; infatti un movimento
politico è anche sociale ed economico, per il semplice motivo che il politico è
comprensivo delle altre determinazioni dell’umano; non vale il contrario:
esistono lotte economiche, quelle sindacali, che si tengono volontariamente
lontane dal politico, dunque non hanno nessuna portata rivoluzionaria. Le lotte
dei movimenti non hanno avuto un carattere sindacale; ma questo non implica che
abbiano avuto una portata politica: c’è la terza possibilità del non essere né
sindacali né politiche, di essere innocue come un concerto di musica leggera.
C’è stato
del magico nell’aria quando i militanti hanno costruito accampamenti urbani a
Il Cairo o a Istanbul, a Madrid, a New York, a Oakland o a Rio de Janeiro –
hanno creato spazi urbani comuni, non più privati né pubblici ma caratterizzati
da accesso libero e da sperimentali meccanismi di un’amministrazione
democratica. Creare spazi urbani comuni è stato sperimentato come antidoto ai
veleni della privatizzazione neoliberale – e queste esperienze sono
sintomatiche di una lotta sempre più larga che pone il comune contro l’egemonia
della proprietà privata e della finanza.
Poteva aggiungere
piazza Maidan a Kiev. Si è visto poi che il magico dei movimenti era il loro
essere infiltrati dai servizi segreti atlantici che li hanno usati o per concentrare
in un’azione politicamente innocua lo scontento sociale e neutralizzarlo o
addirittura per buttare giù governi troppo indipendenti dall’impero e
promuovere la destabilizzazione degli Stati. Peraltro, non sono stati affatto creati spazi urbani comuni, si è
semplicemente fatto uso degli spazi pubblici, fino a sgombero da parte della
polizia: nessuna oligarchia liberale è stata messa in pericolo da queste
carnevalate.
Attaccare la
proprietà privata ed insistere sulla cooperazione sociale ed il comune come
motore di nuovi processi costituenti, non significa abbandonare attualmente il
desiderio di avere accesso ai beni sociali e di consolidare la sicurezza della
vita. Al contrario, portare la lotta dall’appropriazione al politico. Al
contrario, con ciò si riconosce che la proprietà privata è l’ostacolo
fondamentale alla sicurezza e un blocco all’accesso alle necessità della vita
per una larga maggioranza.
I movimenti
avrebbero dovuto attaccare la proprietà
privata dei mezzi di produzione, in particolare la natura privata delle
banche centrali indipendenti. Attaccare la proprietà privata in generale non ha
senso. Non si capisce infatti come si possano tenere insieme questo attacco e il
desiderio di accesso ai beni sociali e alla sicurezza della vita: accesso ai beni sociali significa
infatti loro trasformazione in proprietà privata, sicurezza della vita
significa sicurezza della proprietà.
Inoltre,
oggi, data la progressiva figura sociale cooperativa della produzione, il
diritto di proprietà non può più essere diritto a monopolizzare dei beni e a
permettere poteri individuali di decisione, non può più essere il diritto di un
lupo che difende gelosamente il suo bottino da altri lupi, ma deve esser
trasformato nel diritto al comune, in un exit dalla solitudine
attraverso la produzione, verso la cooperazione ed un’esistenza sociale
nell’eguaglianza e nella solidarietà.
Nel
capitalismo domina la concorrenza tra lavoratori, tanto più spietata quanto più
le politiche economiche sono dirette a ingigantire l’esercito industriale di
riserva. Occorre chiedere dunque politiche di piena occupazione anziché
perdersi nel pio desiderio di sostituire la concorrenza con la cooperazione e
di trasformare la proprietà in diritto al comune.
Infine, la
trasformazione del potere costituente in un processo continuo, è stato
approfondito [sic] attraverso la sua immersione nel tessuto della biopolitica:
il contenuto del potere costituzionale tende ad essere la vita stessa. Gli
attivisti e i militanti non domandano solo un aumento del loro reddito o il
sostegno ai servizi di welfare ma cercano di illuminare il fatto che
tutta la vita – tutti i lavori di produzione e di riproduzione – sono soggetti
a sfruttamento e ad estrazione di plusvalore.
Un fatica
inutile, dal momento che le oligarchie ci ripetono continuamente che la ragione
di ogni impresa è l’interesse dell’azionista.
Nella
continuità di queste lotte risiede un’espansione di bisogni, desideri e domande
sociali. Il potere costituente può divenire una composizione di diverse
singolarità costituenti – e così, concepire il potere costituente come un
pluralismo moltitudinario significa rompere con ogni feticistica concezione
dell’unità politica e finirla quindi con i concetti di popolo e di nazione
posti tradizionalmente come unità. A questo punto, alla luce delle lotte che
hanno ridefinito il potere costituente come un processo continuo, radicalmente
plurale e biopolitico, siamo in una posizione migliore per riconoscere la distanza
e l’incompatibilità del potere costituente con la rappresentanza e la
sovranità. Sempre di più le pretese democratiche di una rappresentanza politica
vengono ampiamente riconosciute come vuota turpitudine e, non a caso, parlare
in nome degli altri è stato proscritto nei movimenti sociali. In luogo della
rappresentanza, cooperazione e aggregazione sorgono come meccanismi attraverso
i quali una pluralità di forze politiche differenti agisce in comune.
Qui è
perduto ogni contatto con la realtà: le lotte dei movimenti non hanno avuto
alcuna continuità; anzi i no-global,
pesantemente infiltrati, sono infine passati al diretto servizio del loro
nemico trasformandosi in no-border.
Se avessero avuto la continuità che Negri sogna forse poteva valere il
pluralismo moltitudinario del potere costituente senza popolo e nazione. Ma
vale il contrario: le lotte moltitudinarie si sono risolte in alcune fiammate
subito strumentalizzate dalle oligarchie liberali; ne segue la necessità
dell’organizzazione politica e dei concetti di popolo e di nazione per la lotta
contro il liberalismo.
L’andarsene
dalla rappresentanza appare in modo corrispondente in campo economico. Quando
l’attività economica consiste in larghi network di cooperazione sociale che
producono e riproducono la vita – soggettivando la società – allora il mandato
rappresentativo non ha più senso. In questo contesto ogni ricorso alle nozioni
di volontà generale sembra completamente fuori posto ed illegittimo. La volontà
di tutti è già organizzata nella cooperazione.
Negri finge
che le masse, anziché in dura concorrenza per posti di lavoro sempre più scarsi,
malpagati e precari, spinte dalle ultime evoluzioni tecnologiche, producano e
riproducano la vita cooperando in larghi network, superino perciò il loro
atomismo e si politicizzino nel senso del potere costituente. Gli sembra cioè
che il capitalismo sia diventato all’improvviso così idiota da introdurre le
innovazioni tecnologiche non più per aumentare l’esercito industriale di
riserva e l’asimmetria in suo favore nel mercato del lavoro, ma per aumentare
la cooperazione sociale e la soggettivizzazione, in modo da favorire la propria
eversione da parte dello spontaneismo dei movimenti di massa. Il risultato di
questa assurda fiducia nell’evoluzione tecnologica che non porta con sé una
rinnovata esasperazione della concorrenza tra i lavoratori ma la loro
cooperazione spontanea nella lotta contro il liberismo è che nella mente di
Negri potere costituente e liberismo si confondono. Non è un caso, dunque, che gli
fosse piaciuta la costituzione europea che i francesi bocciarono nel 2005.
L’esclusione
della sovranità dal potere costituente diviene ancor più chiara. È impossibile
oggi definire una forma di potere costituente concepita in termini di
trascendenza o “eccezione”. Il sovrano richiede unità – un’unità che è
irrimediabilmente rotta dal pluralismo radicale del concetto contemporaneo di
potere costituente. Laddove le decisioni sovrane sono sempre vuote poiché il
sovrano è separato, sopra la società ed agisce nell’eccezione, il potere
costituente oggi è sempre pieno di contenuti sociali al punto di essere
eccedente. Per ridefinire il potere costituente, l’eccezione del potere sovrano
deve essere rimpiazzata dall’eccesso, cioè dalla natura eccedente della
produzione e della cooperazione sociale.
Il sovrano
non è separato: egli è tale in forza del consenso, dell’obbedienza spontanea e
agisce sempre, nell’ordinario e nell’eccezione. Infatti in politica l’ordinario
è sempre anche eccezione; poiché lo Stato è uno Stato sovrano tra Stati sovrani
che si rapportano tra loro senza nessun altro criterio che non sia il loro
interesse, il rapporto tra Stati è lo stato di natura, quindi una situazione di
perenne eccezione. Poiché il sovrano non è separato, le sue decisioni non sono
mai vuote; al contrario, poiché non costituisce proprio nulla, il potere
costituente non prende nessuna decisione, ma si lascia andare al proprio insulso
fluire.
Per
concludere, che cosa significa, allora per la moltitudine prendere il potere?
Prendere il potere rimane per noi un obiettivo centrale e, come abbiamo cercato
di spiegare, non può semplicemente significare il rovesciamento della relazione
di dominio e in ultima istanza, mantenere la macchina del potere sovrano
semplicemente cambiando colui che siede alla guida. Per una moltitudine
prendere il potere è in primo luogo un compito: inventare nuove istituzioni
non-sovrane.
Per Negri la
moltitudine, politicizzata presumibilmente dai network produttivi, avrebbe un
obiettivo centrale, prendere il potere; ma è una presa del potere molto
particolare, una presa del potere che abolisce la sovranità del potere, cioè
che abolisce il potere
.
Attenzione
tuttavia. Quando i nostri occhi si fissano sul politico istituzionale e
assumono che il popolo (l’elettorato ecc …) abbia le capacità necessarie per
organizzare e sostenere programmi a lungo termine o per amministrare
collettivamente le istituzioni – insomma, che il popolo sia capace di democrazia
– ciò spesso si mostra come un’illusione. … Il solo reale ed effettivo modo per
rispondere a queste domande, oggi, è invece quello di spostare la nostra
prospettiva dal terreno politico a quello sociale ovvero, per meglio dirlo, di
combinare i due. È quanto i movimenti ci indicano. Soltanto allora saremo
capaci di riconoscere e di promuovere, attraverso gli estesi circuiti e le
capacità di cooperazione e di organizzazione della moltitudine, nuovi processi
politici democratici: comprendendo che i talenti della cooperazione sociale
sono una solida base dell’organizzazione democratica.
Con uno
sprazzo di realismo Negri riconosce che il popolo è incapace di una democrazia
così sublime; ma non c’è da disperare: per somma fortuna dei movimenti
democratici il capitalismo ha evoluto la tecnologia in modo da sviluppare la
cooperazione sociale e da fare loro il favore di educare le moltitudini
all’organizzazione democratica. Come diceva Mao, grande è la confusione sotto
il cielo; la situazione è eccellente.
Accadde alla
società sovietica, nei primi anni ’20 – parzialmente, brevemente – di
connettere l’attività costituente radicalmente democratica dei soviet ai
processi istituzionali di trasformazione economica e sociale. Per un periodo,
la rivoluzione divenne una vera e propria macchina istituente, ovvero,
piuttosto, un complesso di istituzioni costituenti. La formula proclamata da
Lenin nel 1920: “comunismo = soviet + elettrificazione” combina una forma di
organizzazione politica con un programma di sviluppo economico. Il progetto
sovietico di sviluppo industriale incontrò in fretta ostacoli insormontabili,
dovuti in parte al basso livello di industrializzazione russo e alle
insufficienti basi industriali in termini di risorse sociali e culturali della
popolazione – per non ricordare l’isolamento internazionale e l’accerchiamento
da parte dei Paesi capitalisti.
È
stupefacente l’approssimazione storiografica di Negri. Dal 1918 al 1920 la
Russia è nel gorgo della guerra civile: i soviet perdono definitivamente ogni potere a vantaggio del partito bolscevico, che
certo, con la sua onnipotente polizia segreta, non è una istituzione non
sovrana. D’altra parte i soviet non erano affatto movimenti ispirati dal
mistico potere costituente, come crede Negri; essi erano consigli rappresentativi degli operai e dei
soldati, insomma si fondavano proprio su quella rappresentanza che Negri ha
condannato poco sopra. Infine lo sviluppo industriale incontrò ostacoli
insormontabili, non per i motivi male abborracciati da Negri, ma perché i
bolscevichi, avendo vinto la guerra civile con l’alleanza dei contadini, non
potevano spremerne le risorse per mettere insieme i capitali con cui avviarlo. Negri
non può trovare esempi storici per illustrare le sue idee; lo rende impossibile
la loro inconsistenza.
Ciò
nonostante possiamo imparare dalla formula di Lenin la necessità di stringere
la coppia “organizzazione politica rivoluzionaria e progetto sociale di
trasformazione”.
C’è però una
notevole differenza tra i bolscevichi post-rivoluzionari e i movimenti: quelli
avevano preso il potere politico e il progetto sociale di trasformazione era
uno strumento per rafforzarlo; Negri vorrebbe spacciare per potere costituente il
progetto sociale di trasformazione imposto dalle oligarchie liberali proprio mentre
il potere politico ed economico è saldamente nelle loro mani. Di nuovo, potere
costituente e liberismo si confondono nella sua mente.
[…]
L’impegno di
oggi prende chiaramente forma quando sia situato nel quadro dello sviluppo
capitalistico. Tra XVIII e XIX secolo – insegna Marx – il centro di gravità e
il modo dominante di produzione capitalista è passato dalla manifattura (che
fonda essenzialmente sulla divisione di lavoro gli aumenti di produttività)
all’industria su larga scala (che aumenta la produttività
introducendo macchinari complessi e nuovi schemi di cooperazione). Estendendo
la periodizzazione di Marx al XXI secolo, ecco il centro di gravità del
capitale spostarsi dall’industria su larga scala alla fase del general
intellect – che è produzione basata su circuiti sempre più intensi e larghi
di cooperazione sociale, predisposti
da algoritmi macchinici come base per estrarre valore dalla produzione e
riproduzione della vita sociale. In questa fase la distinzione tra economico e
sociale viene progressivamente saturata. Questa démarche è strettamente
connessa all’analisi delle trasformazioni del modo di produzione capitalista
dalla manifattura (con la sussunzione formale della società e l’estrazione di
plusvalore assoluto) alla fase dell’industria su larga scala (con la
sussunzione reale della società e l’estrazione di plusvalore relativo) e infine
alla fase dell’organizzazione produttiva del general intellect (con la
sussunzione “cognitiva” della società attraverso un’incrementale cooperazione e
uno sfruttamento finanziario estrattivo). La produzione e la riproduzione
socializzate sono attività biopolitica.
[…]
Negri si
avventura di nuovo nel campo della realtà, che gli è radicalmente estraneo.
Così mostra di ignorare che la manifattura non
è una forma di produzione capitalistica perché si effettua senza separare il
lavoratore dal mezzo di produzione: gli operai delle manifatture lavorano con
strumenti, non alle macchine; sono artigiani altamente specializzati, non
operai proletarizzati che vendono forza-lavoro semplice. Ancora più vacua è la
storia del general intellect. Il
termine è una tautologia: l’intelletto, come unità del pensiero, è per sua
natura generale; la sua spiegazione non arriva a nessuna determinazione, ma si
tiene all’insipido quantitativo del ‘più’ intenso e largo. A Negri sfugge ciò
che è accaduto: non la fine della grande industria, come egli crede, ma la sua
delocalizzazione nelle aree dove più basso è il costo del lavoro e la
conservazione in Occidente solo della fase progettuale. Il capitale ha varcato le
frontiere per mettere in concorrenza i lavoratori occidentali con i lavoratori
orientali e meridionali, e con l’arma della disoccupazione di massa ha
distrutto le loro conquiste dei decenni precedenti. Nessuna nuova fase, dunque,
solo una sconfitta dei lavoratori occidentali e uno squilibrio economico che ha
spinto l’economia mondiale in una delle crisi più gravi della sua storia. Una
sconfitta che solo il sovranismo può tentare di rovesciare.
[1]
Disponibile al
seguente indirizzo: https://www.sinistrainrete.info/teoria/8714-toni-negri-pour-en-finir-avec-la-souverainete.html#comment-1053 .
[2] Il testo
di Negri è riportato con caratteri di dimensioni più piccole.
Nessun commento:
Posta un commento