(pubblico la prima parte di un testo "a tesi". Prosegue qui. M.B.)
La
grande estinzione delle speranze
Secondo
alcuni studiosi stiamo vivendo nell'epoca della “Sesta estinzione”,
una nuova grande estinzione di massa di specie animali, dopo le
grandi estinzioni che hanno segnato la storia della vita sul nostro
pianeta. Riprendo l'espressione nel titolo di questo scritto, per
indicare una nuova grande estinzione, di carattere non biologico ma
antropologico: l'estinzione delle speranze. Lo scritto intende
portare argomenti a favore di una ragionevole disperazione verso le
prospettive della civiltà umana in questa fase di “tardo
capitalismo”. Il testo è organizzato a tesi, quindi in forma
assertiva e dogmatica. Argomentare dettagliatamente i vari passaggi
avrebbe significato scrivere un libro. Nei miei futuri interventi sul
blog cercherò un po' alla volta di portare argomenti a sostegno
delle tesi qui presentate.
Tesi
1. La società capitalistica ha esaurito le sue potenzialità di
sviluppo di civiltà.
Molti di
coloro che, negli ultimi due secoli, hanno riflettuto sui caratteri
della modernità capitalistica, e in particolare molti fra i suoi
critici, sono rimasti colpiti dal suo carattere contradditorio, dal
suo essere contemporaneamente generazione di ricchezza e di povertà,
lotta di libertà e creazione di nuove servitù, rispetto
dell'umanità in nome dei diritti e violenza disumana in nome del
profitto. Su questa dialettica della società capitalistica sono
state scritte pagine celebri e sono stati condotti dibattiti
fondamentali, dei quali non possiamo dar conto qui. Mi limito,
fra le tante possibili, ad una citazione di Horkheimer: “Il
passaggio a questo modo di conduzione economica è stato un progresso
storico che ha dato avvio a un periodo di produttività e di orrore.
La storia di questo periodo contiene non solo il capitolo
dell'emancipazione degli ebrei, ma anche quello del Workhouse Test,
della repressione della Comune e del terrore dell'amministrazione
coloniale”[1], in cui è evidente come l'autore cerchi di rendere
le contraddizioni della civiltà capitalistica tramite accostamenti
stridenti (un “progresso storico” che dà avvio a “un periodo
di orrore”).
La
novità storica del nostro tempo mi sembra essere quella della fine
di tale dialettica. Il capitalismo ha smesso di essere una realtà in
cui convivono contradditoriamente progresso ed orrore, e si è
avviato, da qualche decennio, sulla strada di un pericoloso tramonto
di civiltà. Questa affermazione non vuole assolutamente significare
che sia prossima nel tempo la fine della società capitalistica. Non
siamo davvero in grado di dire se il capitalismo sia vicino al famoso
“crollo” teorizzato da tanti marxisti, o se abbia ancora un tempo
indefinitamente lungo davanti a sé. Quello che si vuol dire è che
il capitalismo ha finito di rappresentare una potenzialità
contradditoria di progresso. Se la sua storia continuerà, sarà la
storia di un progressivo imbarbarimento della società mondiale.
Tesi
2. L'attuale crisi di civiltà deriva dalla presenza simultanea di
tre crisi: ecologica, economica, geopolitica.
La
nostra organizzazione sociale, che ormai ha unificato, per la prima
volta nella storia umana, l'intero pianeta, deve fronteggiare tre
gravi crisi, nella sostanza riconosciute come tali, in un modo o
nell'altro, un po' da tutti gli osservatori: crisi ecologica, crisi
economica, crisi geopolitica. Si tratta in realtà di tre aspetti di una stessa crisi di fondo, che è utile però esaminare separatamente per
ragioni di chiarezza espositiva. La comprensione approfondita della
realtà contemporanea può venire solo da un esame di tutte e tre le
dimensioni della crisi attuale e delle loro interazioni. Dati gli
scopi più limitati di questo scritto, non parlerò della crisi
geopolitica: si tratta di una dimensione che di per sé non tocca la
nostra discussione sull'esaurimento della civiltà capitalistica.
Infatti l'aspetto geopolitico della crisi consiste nel
ridimensionamento dell'egemonia statunitense e nel possibile
passaggio a un mondo multipolare e forse, in prospettiva, ad una
nuova egemonia (asiatica?). Si tratta ovviamente di un tema
fondamentale per comprendere le dinamiche politiche del mondo
contemporaneo, ma esso di per sé non dice nulla sulla maggiore o
minore vitalità dell'attuale organizzazione sociale. Il capitalismo
ha conosciuto diversi “passaggi di egemonia” di questo tipo, che
ne hanno scandito l'evoluzione, senza che questo comportasse un
giudizio di “esaurimento di civiltà”[2]. L'attuale tendenza alla
rottura dell'egemonia mondiale USA, se continuerà, sarà allora
certamente un passaggio politico di vasta portata, che potrebbe però
non toccare gli aspetti fondamentali del modo di produzione
capitalistico, ma addirittura potrebbe rinnovarne la dinamica.
Il
giudizio sul momento attuale come quello di inizio di una crisi di
civiltà viene quindi non da una riflessione sulla geopolitica, ma
dall'esame degli altri due aspetti della crisi attuale, quello
economico e quello ecologico, al quale forse occorre aggiungere una
dimensione antropologica, non ancora, mi sembra, diffusamente
tematizzata in quanto tale.
Tesi
3. La sovrapposizione di crisi ecologica e crisi economica genera una
situazione di “rendimenti decrescenti” e di “stagnazione
secolare”.
L'attuale
situazione poco dinamica dell'economia mondiale deriva molto
probabilmente dal sovrapporsi di un meccanismo “marxiano” e di
uno “ecologico”: mi sembra cioè possibile sostenere che siamo in
presenza di una crisi analizzabile in termini marxiani come, in
ultima analisi, effetto della caduta tendenziale del saggio di
profitto, alla quale si sovrappone una crisi di “rendimenti
decrescenti” (e costi crescenti) nello sfruttamento delle risorse
naturali. Ripetiamo che si tratta di momenti collegati, che
indichiamo separatamente solo per chiarezza, e che occorre collegare
assieme per una analisi approfondita [3]. Il sovrapporsi di queste
due forme di rendimenti decrescenti rende difficile pensare che la
società attuale possa superare l'attuale stagnazione. Il capitalismo
finora è sempre riuscito, in un modo o nell'altro, a superare
creativamente le difficoltà create alla sua autoriproduzione dai
meccanismi di crisi studiati da Marx. Ma lo ha fatto anche grazie
allo sfruttamento di sempre nuovi tipi di risorse
naturali. Se davvero queste possibilità si stanno esaurendo, come
sostengono vari studiosi [4] e come sembra indicare, per esempio,
l'incombere sempre più ineludibile del cambiamento climatico, la
conseguenza potrebbe essere davvero quella “stagnazione secolare”
paventata anche da importanti esponenti dell'establishment.
Tesi
4. Il capitalismo è instabile perché non genera una antropologia
adeguata a sé.
Sono
numerose le elaborazioni teoriche che rilevano il carattere invasivo
del rapporto sociale capitalistico, il fatto cioè che esso tende a
piegare alla propria logica non solo il mondo della produzione e
dello scambio ma la totalità degli ambiti sociali. Ciò che importa
adesso mettere in evidenza è che in questo modo il capitalismo erode
le stesse proprie basi antropologiche. Infatti è impossibile che la
società funzioni davvero sull'unica base della composizione
contrattuale dei reciproci interessi, cioè sulla forma civilizzata
dell' homo homini lupus. Come rileva correttamente Castoriadis:
“Il
capitalismo ha potuto funzionare solo perché ha ereditato una serie
di tipi antropologici che non ha creato esso stesso e che non avrebbe
potuto creare: giudici incorruttibili, funzionati integerrimi e
weberiani, educatori che si consacrano alla loro vocazione, operai
con un minimo di coscienza professionale, ecc. Questi tipi non
nascono e non possono nascere da soli, sono stati creati in periodi
storici precedenti, in riferimento a valori allora consacrati e
incontestabili: l'onestà, il servizio verso lo Stato, la
trasmissione del sapere, il lavoro ben fatto, e così via. Ma noi
oggi viviamo in società in cui questi valori sono notoriamente
diventati ridicoli, dove conta solamente la quantità di denaro che
si riesce a intascare, non importa come, o il numero di volte in cui
si appare in televisione”[6].
Questa descrizione, che
ci sembra sostanzialmente corretta, porta a prevedere che
l'estendersi sempre più pervasivo del legame sociale capitalistico
porterà in tempi non troppo lontani ad una profonda crisi del
legame sociale. Tutto questo è stato detto molto bene in vari testi
di Massimo Bontempelli, e conviene quindi lasciargli la parola:
“Ogni
sistema sociale stabilmente strutturato, per quanto oppressivo, in
quanto stabilmente strutturato esprime sul piano empirico qualche sia
pur empiricamente deformato significato trascendentale. Il
capitalismo è invece l'unico sistema il cui funzionamento è in
contraddizione con la natura trascendentale umana. Se è tale, però,
come ha fatto a nascere e svilupparsi? È nato perché è stato lo
strumento indiretto dell'emersione storica di due significati
trascendentali, il valore dell'individualità e quello
dell'appartenenza nazionale, di cui sono state levatrici storiche le
classi borghesi proprio attraverso la forza tratta dalla nuova
economia del plusvalore di cui erano attrici e profittatrici. Si è
sviluppato perché ha utilizzato per il suo funzionamento risorse non
sue: le risorse politiche e spiritualmente coesive della nazionalità,
le risorse psichiche e comportamentalmente disciplinatrici della
famiglia e della scuola borghesi, le risorse produttive dell'etica
religiosa e corporativa del lavoro, le risorse socialmente
regolatrici dei codici d'onore aristocratici. Ma l'utilizzazione di
queste risorse presupponeva l'autonomia funzionale delle sfere in cui
si formavano, e la parzialità sociale, per quanto determinatrice in
ultima istanza degli indirizzi generali, del modo di produzione
capitalistico. Una volta però che il modo di produzione
capitalistico è diventato totalitario, sottomettendo direttamente
alla sua logica di funzionamento tutte le sfere sociali, questa sua
potenza storicamente assoluta avvelena le stesse risorse
antropologiche di cui avrebbe bisogno. All'altezza del nostro tempo
storico si rivela così come la vera contraddizione distruttiva da
cui il capitalismo è segnato non sia una di quelle tematizzate dalla
tradizione marxista (tra capitale e lavoro, tra borghesia e
proletariato, tra forze produttive e rapporti di produzione), ma
quella tra esso e la natura umana. La potenza che distruggerà il
capitalismo sarà dunque la potenza stessa del capitalismo, dato che
in futuro i suoi effetti universalmente destrutturanti non saranno
più contenuti da forme organizzative precapitalistiche.”[7].
Tesi
5. Il modello di crisi di civiltà col quale ci dobbiamo confrontare
è quello della crisi del mondo antico.
Non è
una novità che i sistemi sociali possano crollare e che la storia
sia costellata da grandi passaggi che segnano la fine di questa o quella civiltà.
All'interno di questa ricca casistica si possono enucleare due
modelli: quello della fine dell'Ancien Régime e dell'instaurazione
della società capitalistico-borghese, da una parte, e dall'altra
quello della fine del mondo antico e dell'instaurazione del
feudalesimo. La differenza di fondo fra i due modelli sta in
questo: nel primo caso i nuovi rapporti sociali si sviluppano
lentamente all'interno della vecchia società, sfruttandone gli
spazi, e allo stesso modo si sviluppano i nuovi soggetti sociali (la
borghesia) e le nuove forme di cultura. In questo modo la crisi della
vecchia organizzazione non ha una esorbitante valenza distruttiva,
perché l'indebolimento di tale organizzazione è l'occasione per le
nuove strutture di imporsi. Nel secondo caso, al contrario,
l'organizzazione sociale del mondo greco-romano percorre fino in
fondo la strada della dissoluzione, prima che comincino a spuntare i
primi segni della nascita di un nuovo ordine sociale, il feudalesimo.
Questo secondo tipo di crisi di civiltà è molto più distruttivo
del primo.
È del
tutto evidente che i movimenti rivoluzionari di tipo socialista hanno
sempre pensato al superamento del capitalismo nei termini del primo
modello. Hanno sempre pensato cioè che lo sviluppo stesso del
capitalismo producesse sia gli embrioni di nuovi rapporti sociali,
sia i soggetti sociali che avrebbero rappresentato la base sociale
del superamento. È tempo, mi sembra, di abbandonare queste
convinzioni. Il capitalismo è senz'altro un sistema sociale ricco di
contraddizioni (come tutti i sistemi sociali), ma questo non significa
in nessun modo che esista una dinamica che lo porti a generare al suo
interno i rapporti sociali destinati a sostituirlo e i soggetti
sociali destinati ad abbatterlo. La classe operaia è una delle tante classi sfruttate succedutesi nella storia, capace certo di lottare
per la difesa dei propri interessi, capace di rivolte e ribellioni,
ma in nessun modo capace di avviare l'umanità verso il
superamento del capitalismo e l'instaurazione di una nuova
organizzazione sociale. Le contraddizioni del capitalismo sfociano
tipicamente nelle sue crisi periodiche, che vengono superate nei
modi che gli storici studiano. Oggi tali contraddizioni, secondo la
nostra ipotesi, ci stanno portando ad una crisi generale di civiltà.
Ma non c'è nessun indizio che esse ci indirizzino verso un mondo
nuovo. Se è così, è chiaro che il modello che meglio si adatta
all'attuale crisi di civiltà è quello della crisi del mondo antico.
Possiamo cioè aspettarci che la crisi di civiltà proseguirà a
lungo, distruggendo culture e popolazioni, prima che sorgano nuove
culture, nuovi soggetti sociali, e i germi di nuove organizzazioni
sociali. Alle distruzioni e alle violenze che hanno accompagnato
tutti i precedenti esempi di passaggi di questo tipo, si
aggiungeranno le distruzioni ecologiche causate dall'uomo che,
seppure certo non ignote nella storia umana, toccheranno
probabilmente livelli sconosciuti: si pensi solo a cosa significhi il
cambiamento climatico ormai in atto.
[2] Queste dinamiche sono oggetto di ampi studi, basti qui ricordare la magistrale ricostruzione di G.Arrighi ne “Il lungo XX secolo”.
[3] Per un tentativo in questo senso si veda J.W.Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, Ombre corte 2015.
[4] Un'ottima introduzione a queste problematiche è M.Bonaiuti, La grande transizione, Bollati Boringhieri 2013.
[5] Per un approccio marxista alla tematica della “stagnazione secolare” si veda questo lavoro di V.Giacché: http://www.asimmetrie.org/working-papers/wp-201507-spiegare-la-crisi-stagnazione-secolare-o-caduta-tendenziale-del-saggio-di-profitto/
[6]C.Castoriadis, La montée de l'insignifiance, Seuil 1996, pag.68, (traduzione mia, M.B.)
[7]M.Bontempelli, Un pensiero presente, Indipendenza-Editore Francesco Labonia, 2014, pag.160.
Anzitutto, un testo eccellente, col quale mi trovo in larga parte d'accordo.
RispondiEliminaVorrei proporre una variazione prospettica che non inficia le osservazioni di Badiale, ma le affranca da quel tanto di ortodossia marxista che ancora alberga nell'autore. Il vettore della crisi non è il capitalismo, che secondo l’autore potrebbe infatti sopravvivere alla crisi o addirittura "rinnovarsi" in seguito alla dissoluzione dell'impero statunitense.
Il vettore della crisi sono la civiltà occidentale e la razza bianca. Contrariamente all'ipereconomicismo marxiano e a quello - ancor più radicale - portato avanti dal neoliberismo odierno, l'economia è solo una componente, per quanto rilevante, dell'umana associazione. Assai più importanti sono il dato antropologico-razziale e quello culturale. Non è stata l'economia, nella fattispecie capitalistica, a guastare la società. E' stata la decadenza del tipo umano e della cultura europei, generata dalla vertiginosa crescita del benessere e della complessità, ad esprimere un'organizzazione economica non più vitale.
Qui la profezia spengleriana inerente al "tramonto dell'Occidente" arenatosi nelle secche della Zivilisation, incontra la distinzione nazionalsocialista tra capitalismo produttivo (espressione dello spirito prometeico che caratterizza l'umanità nordica, esprimentesi nelle guglie protese al cielo delle cattedrali gotiche) e finanza apolide-parassitaria (proiezione degli ultimi uomini nietzscheani, quelli convinti di "aver inventato la felicità" mentre il mondo crolla loro addosso).
Con ciò non si vuol negare che il capitalismo terminale eserciti a sua volta un influsso, e decisivo, sugli assetti antropologici e sociali, e infatti vediamo com'esso stia fagocitando e corrompendo ciò che di ancora sano permane nelle nostre società. Il rapporto fra struttura e sovrastruttura - per esprimerci in termini marxiani - esprime una dialettica complessa, ma rimane a mio parere largamente inverso rispetto a quello supposto da Badiale. Io intendo non solo la dottrina, sibbene anche l'organizzazione economica neoliberiste come falsa coscienza di sé dell'uomo odierno.
Il quale avendo portato a compimento il processo di affrancamento dai ceppi dell'autorità e della religione, avendo inseguito l'auspicio marcusiano volto a sostituire Narciso a Prometeo, il principio di piacere a quello di prestazione, ed avendo così affrancato le proprie energie "represse e pietrificate" (Eros e civiltà), celebra adesso l’auspicato trionfo dell'eros, cioè la regressione allo stadio infantile e pulsionale precedente all’enuclearsi d’un criterio di razionalità repressiva e, in quanto tale, virile, bellicosa (polemos è il padre di tutte le cose), plasmativa. Celebra l'accesso allo stato del nichilismo.
In questi termini acquista senso anche il parallelismo di Badiale col tardo impero romano, che certo non crollò in seguito a contraddizioni capitalistiche, sì alla dissoluzione della stirpe e della cultura (nel senso olistico del tedesco Kultur) romane originarie. Come pure acquista un senso l'ipotesi che il capitalismo si rafforzi col tracollo dell'attuale civiltà occidentale, ormai inetta ad accollarsi il reggimento di una forma organizzativa cogente.
La “ragionevole disperazione” dell’autore ripercorre, pur senza avvedersene, i sentieri tracciati dal Kulturpessimismus weimeriano, e dalla miglior parte della cultura europea del tempo, nel corso degli anni Venti e Trenta.
P.S.: l'accostamento di Horkheimer fra progresso e orrore risulta “stridente” solo alle sue (e vostre) orecchie umaniste, che gradiscono il primo termine e non gradiscono il secondo. L'idea che il progresso tecnico ed economico debba risolversi in un avanzamento del pregiudizio umanista, quello attinente all'attribuzione di valore intrinseco alla vita e la dignità dell'essere umano, è un articolo di fede della vostra confessione storicista, modellata sull'escatologismo cristiano e altrettanto fondata. I due termini sono perfettamente eterogenei e indipendenti l'uno rispetto all'altro.
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaGrazie. Effettuata la correzione. Si vede che sto invecchiando.
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